Mi metto seduto scomposto,
e nella precisione di un movimento conosciuto
mi tengo fermo entro il perimetro
giustapposto a un movimento altro,
forse libero.
Con me
non ho niente,
o nient'altro almeno
oltre questo: un pezzo di carta,
un usurpato spazio
che qualcuno dice dovrebbe esser casa mia,
ma io mi sento deportato,
costretto alla nudità,
animato da un'avida volontà,
che però non è la mia.
Ridotto al lastrico emozionale
mi costringo al pensiero,
e nel pensare mi perdo,
ma perché è tutto nero?
E la curiosità neanche mi sfiora,
dov'è fantasia?
E dove,
i riscatti?
In quale preciso punto di questa terra
la gente migra
perché si trovi vita?
Neanche il privilegio del sole nascente,
niente,
non ho niente.
Scomposto e allineato
nella geometria dell'angusto spazio,
stringo forte le ginocchia al petto,
in modo da poggiare nell'incavo,
tra lo sterno e l'ginocchio
altro,
il mio foglio stropicciato.
Neanche il tempo di chiedere giustizia
o affacciarmi al di là di questa usurata balaustra
che irrompe un fuori,
un altro
dal mio dentro,
e lo fa naturalmente
passando per la fenditura di una finestra incastrata
su un muro povero e piangente.
La familiarità è dilaniante,
mutano gli ambienti
le proporzioni
le prospettive,
e nell'angolo interposto tra la cucina di marmo
e il ripostiglio nascosto,
è un piccolo raggio di luce.
Non m'ero accorto
assorto nelle ingiustizie
del cui padre non conoscevo il volto,
che quel volto,
alla fine,
era il mio.
Mi guardo riflesso
strappando un respiro
all'irrompere prepotente
di un pianto novizio;
è la stagione nascente,
e su quel foglio è sì
forse arte prestata,
non mia,
ma quel riflesso
di cui miro e rimiro
i lineamenti,
adesso
lo riconosco come mio.
Mi guardo dall'alto,
distendo le cosce,
la schiena è dritta
la cattività estinta,
e il dolore
fosse anche solo per oggi,
quest'anima mia
non l'ha mica convinta.
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