“Son io?” mi dicevo come in coro.
La buccia dei vestiti sfarinava
a terra un po’ bislacca nella lava
dei pensieri, se vanno di straforo.
Rimirarsi: che pessimo lavoro!
E le gambe: un’irsuta e grigia ottava
mal suonata, di braccia fini schiava,
tutto il resto un arpeggio, ma l’ignoro.
Tra me e il sé quel “te” che noi ci piglia
a riguardare il molle nudo plesso
e ricavarne triste meraviglia:
un bel fetente ora scruti perplesso!
Tu dici: “è solo specchio, una pariglia”,
e lui ti fa l’ombrello, di riflesso.
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