Regione del mio credo, amore più che posso, accento che a inventarti neppure in anteprima; la storia delle ossa è il buio che ho perduto, scoprendo la tua sete su di me. Avrei voluto dirlo che benedivo il cielo, in quell’istante appena fotogramma, intatto come ieri, ancora io lo vedo.
Sono di te la veglia sul guanciale,
l’attesa che stenta a dominare
la culla del bel tempo
paragonato a maggio.
Il mio vento è trafitto dal mare,
osservalo dall’alto,
le onde confrontano il sale con il pianto
e mai alla terra li vogliono lasciare.
Svegliami pazienza
come preludio d’abbraccio lontano;
la schiena è forte
e in braccio mi sei scoglio
sentiero e breccia
di nuda leggerezza.
Pace e scompiglio
le nubi a picco e il sole in ascensione
quasi a slegare la peste dei nodi
fortificati indietro nell’assenza.
Chiedo in pegno il tuo sorriso in me
per farne canto ché già lo sento dire
dove risposta la voce tua sarà.
Regno al tuo fiato, gergo al mio cuore,
fiumi nei sogni in tutte le stagioni
come divario di buona lentezza
mai fine o timore
fin quando le cause avranno vestizione
Noi rovi e fiori
luci e penombre
strette formali ai corpi da insabbiare
ovunque, quasi un dove
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