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Quattro poesie


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Pubblicato il 22/12/2024 15:52:00

 

Jerusalem

 

Ero venuto come dentro un sogno –

ma tutto vero a dirsi – come se tornassi

da lunga distanza e «discorreva su lasse

corniciature in alto un dito di fuoco»

assai domestico mentre il Castello

scricchiolando salpava il Castello

di fantasticherie adolescenti

invereconde che scaricava

il treno di Canzo alla Nord dalle sponde

del distretto dei laghi

Io! dicendomi senza sentirmi io

un piè-veloce dall’amitto di gioia

poietès senza nessun scritto.

 

 

K 551

 

Non aprire la casa.

Tieni sbarrata la porta

che non irrompa l’ospite dalla testa sfolgorante

arrivato a passi di lupo

come dice il suo nome.

Ma il fuoco è delizioso

drums and trumpets che «scalano l’Olimpo»

però nel mezzo una lama d’evanescenza

come nelle vecchie foto

della Generazione Perduta – sbattuta

ai quattro canti della deiezione.

 

Resistere. Non chiedere niente.

Scoprire sotto l’invadente

padre degli dei il minuscolo dio

che costellava le carte musicali.

Calma altezza dell’Altro

dove mai arriveremo – da una terrazza lontana

dirai, della nostra giovinezza.

Lingua franca jocundissima.

Troppa se non se ne distilli un resto

d’infantile risarcimento

a ciò che sempre manca.

 

 

O mio Capitano

 

Senza la macchina da scrivere

non si fanno versi.

Qualcosa di meccanico salva

la poesia che non sopporta

il toppo umano dell’umana grafia.

Meccanico è anche il forte

sconnettersi della paranoia

necessario perché altrimenti

come accettare il vento i suoni

del lontano Atlantico

e finalmente che l’anno

finisca e un secolo

precipiti nell’altro e alta cenere

piova su tutto dal ghetto incendiato

dalle cataste infornate?

Con occhi di fuoco con denti

di fuoco i fantasmi dello schermo

non guardano noi non ci dicono niente.

I ragazzi in piedi sui banchi:

«Capitano! mio Capitano!»

Lui appoggia l’occhio sulla mano

sudori strani rigano la faccia

i colori di guerra dei Comanci.

 

 

La tropposvelta

 

Perché scrivere (tentare di scrivere)

una poesia. Ma breve – per arrivare alla fine

prima che la Cosa che corre via si rimbuchi

in fondo al foglio. Prenderla per la coda.

Ma:

ecco che s’annoda s’è già annodato

il filato delle parole.

Per esempio l’altra sera qui c’era un pensiero

faticato eppure scritto con un dito di fuoco

dentro il cervello o più dentro –

ed ora un vuoto bianco

(          )

La poubelle dove si scarica

ogni immondizia mentale: cenere ritagli...

Il vecchio ormai vecchio scribellatore scartabella.

Niente resta più giovane neppure il poema.

Vers/versi in ritardo lunghi

senza capo né coda.

Dunque ognuno d’essi roda

il fegato scribacchino.

Questa Cosa – la tropposvelta la dissolta

questa fu scritta dal fondo

sperando di arrivare in tempo.

 

 

[poesie tratte da L’annata dei poeti morti, Marsilio, 1998]

 

 


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