Mi liberai dell’ansia disegnando la strada
sul vetro. La strada, era presa dal dito,
che non sapeva che farsene di vecchi intrecci,
ma io ero consapevole che normalmente
i dintorni nell’occhio non stanno lì per caso.
C’è una tela nel panorama che tiene insieme
cose e casi con emotività intense, poi le maglie
si sfilacciano per l’artificio degli angoli
suddivisi in acuti, retti e grevi. La persiana
salva dalla dirimpettaia che sciorina panni
e parole contro un uomo al portone
che le va contro agitando il bavero
e scrollando i capelli dalle gocce. È vero
che non ci si può fermare al citofono
se il posto ti preme in via definitiva; magari
ti bagna, magari ti sporca, magari ti incorpora
lo scarto improvviso del solido andare.
Così resto tra due semprevendi: un’anta
appena appena mossa, l’altra giusto
che vi entri la testa: sono evoluzione e resilienza:
puoi adeguarti al degrado anche in altri termini.
Lascio che gli occhi trovino le voci
mentre salgono infilandosi in ogni crepa
e comprendo non dall’udito - di solito
fuorviato dalle contumelie dei clacson -
ma dalla vista che fa pratica in un altro senso.
Questa consuetudine, dello stesso genere
delle costellazioni, mostra molte più fughe
che belle figure.
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