Una lettura de L’opera in rosso di Massimo Morasso
(Passigli, 2017, pp. 104, con Presentazione di Giancarlo Pontiggia)
È la fase più ardua della Grande Opera, e la più sublime, quella al rosso. Simbolicamente il poeta-cercatore ha portato eroicamente a termine la nera catabasi e la bianca anabasi, scolpite mirabilmente anche nell’opera dantesca (non a caso evocata da Giancarlo Pontiggia nella Presentazione de L’opera in rosso di Massimo Morasso). Ora torna nella parola per testimoniare: «l’arte di scrivere/ è l’arte di pensare anche per gli altri» (p. 94). Non c’è compimento in sé, se non per testimoniare il proprio percorso «nel mezzo del mistero del vivente» (p. 17), nei limiti della dicibilità («senza saperlo esprimere io, il senso,/ per carenza di luce/ di nomi/ di divinità» (p. 87).
Ma una semplice preposizione da “al” a “in” rosso, mi fa supporre che quest’ottica, l’alchemica, non vuole essere la prevalente o l’esclusiva., Rossa è, infatti, anche la parola incandescente di passione, la parola – forse – conclusiva, oltre la quale sul piano tradizionale della luce (oscura-chiara-rossa) può solo collocarsi la luminosità incomunicabile che trascende l’esperienza della parola stessa:
«L’attimo, e subito dopo il suo dopo/ che ne rimbalza il fremito mortale/ eco di una bellezza che s’intuì/ prima di andarsene.// E la rivelazione che s’interna, torna/ illeggibile.» (p.41)
«ogni potenza, dentro,/ tenta di articolare la sua voce,/ e io trascrivo,/ ravvivo lontananze irriducibili in parole.» (p. 11)
Ritrovo, a conforto di queste mie osservazioni sul titolo, quelle analoghe di Marco Ercolani[1], in un bellissimo e precisissimo saggio, fortunatamente letto a chiusura di queste mie poche note, ché le avrebbe rese e, di fatto le rende, poco più che un sentito tributo.
Quest’opera «viene prima rispetto alle parole» (p. 77) che la compongono, nasce nel «respiro, e sangue, e tutto il resto» che rivelano al poeta se stesso, nel sondare «veementi ricordi» e nel divenire di reminiscenze, (comprese «quelle da bimbo su uno scalino di rocce» «nella villetta primonovecento» di via Paleocapa), nelle aperture improvvise di senso («sorridendole sente la grazia/ la misteriosa compresenza/ di ogni vita», p. 99; L’attimo e subito dopo il suo dopo, cit., pag. 41), nelle riflessioni a volte limate dall’intuizione («Cos’ero allora?/ Perché/ iniziò quest’ansia di scavare/ in me, ma in quale/ direzione?, p. 60; «Mi sono stancato la vista a furia d’orizzonte/…/ma poi ho capito senza più guardare», p. 34).[2] «Una forma di pensiero senziente che in alcuni miei scritti ho definito “sentipensiero”, e che mi sembra sappia andare più di un passo oltre il cosiddetto pensiero razionale» è la lucida definizione che l’autore offre della sua indagine. (cfr. nota 4). Aggiungo io: è il pensiero dell’Androgino, del Rebis ermetico, potente figura simbolica che sa fondere e integrare magistralmente, le due vie – razionale e intuitiva (e delle ubiquitarie analoghe figurae tradizionali). Ancora ci aiuta Marco Ercolani: «Morasso[…] accosta l’energia estatica dell’ispirazione alla riflessione prosastica sulle cose del mondo. Le due anime non si combattono, né si oppongono l’una all’altra». Una dualità alla ricerca del centro, semplificando.
Ma torniamo alla parola.
Il viaggio del poeta si compie nell’embrice chiaroscurale dei “due mondi”, luogo di confine personale, che non è osservazione “da – a” o espressione di un vagheggiato “altrove” o caproniana metafora di quel limite, ma un luogo reale di esistenza, («abitare vuol dire stare qui», p. 19). Il cammino è contemporaneamente nella pietra delle strade di una Genova o di una Liguria, umana e materica, e nella luce – o nell’ombra - che si riflette su di esse o le avvolge e che si lascia avvicinare dai sensi del poeta.
I due mondi, tra loro dialoganti, sono quelli del vivente e quello dei morti, che sono attorno e dentro il flusso di eventi e memorie che ci definiscono, i morti «che ritornano a parlarci/ quando è notte/ [che] ci fanno compagnia per non abbandonarci/ in mezzo al buio» (p. 69), «stretti ab aeterno in una legge condivisa» (p.23), come «foglia, radice, tronco» inseparabili:
«torno anche stanotte ai miei fantasmi/ ne ascolto la voce ipnotica, rupestre» (p. 46);
«I miei morti/ […]/ sono la sostanza dei sogni. Spazzano/ le strade del pensiero,/ ripulendolo./ Incisi nel mio corpo/ affondano. Qui, con me,/ in me, io/ dentro di loro» (p.53).
Il dialogo tra viventi e «i senza più corpo», dialogo tautologico sulla vita stessa, affidato a un esploratore acutissimo e sensibile come Morasso non può che avere quale più alto esito quello morale: «Qualcosa cambierebbe sulla terra/ se l’amor proprio si inchinasse a povertà» (p. 29). Vero è che in questo testo la morte è obliqua e impronunciata, dietro un calibrato rimando di citazioni, tra la Nota dell’Autore a fondo e il precedente volume La caccia spirituale. Ma questo, a parer mio, ne rafforza e potenzia il senso.
Se le arcate della poesia di Morasso aggettano, come tensione e dimensione, in Novecento alto, tra Luzi[3] e Caproni (molti altri riferimenti e dirette citazioni sono presenti), la lingua si proietta oltre, si riscrive: esatta, asciutta, spesso limitata a soggetto e verbo, usando «una sintassi spezzata e frammezzata […] con movimenti frastici sussultori e ondulatori» (G. Linguaglossa[4]) e, come osserva Daniela Bisagno[5], flash prosastici, versi lunghi, inarcature frazionate in versi brevi e brevissimi disallineati nell’estensione della pagina.
Interi componimenti sono potati da qualunque aggettivazione. Quelle superstiti assumono la forza impattante di una freccia. Con paradosso solo apparente, questa lingua che rifugge la ridondanza si fa più ricca proprio perché più precisa, anche nel dato descrittivo, con un meccanismo di definizione e di occultamento:
«Le ombre s’allungano. Il faro butta lampi./ Il filo delle macchine e il brusio,/ e l’impressione che qualcosa si inabissi/ fra le antenne e le altane./ Il rivolo d’immagini che sgronda la memoria». (p. 21)
L’attenzione del poeta genovese alla parola, alla costruzione versale è naturale approdo della sinopia che conduce la riflessione sul fare poesia, sull’essere tramite non inerte tra il dicibile e il detto:
«Ogni potenza dentro/ tenta di articolare la sua voce/ e io trascrivo,/ ravvivo lontananze irriducibili in parole» (p. 11);
«Ogni indicibile è uno scacco della mente./ Ma anche il dicibile/ dissimula il suo nulla» (p. 79).
È, quest’Opera in rosso, un racconto moderno dell’eterno, un resoconto semplice e articolato al tempo stesso, coltissimo eppure quasi familiare. Opera di un poeta dall’io «multiplo, infantile, terreno, profetico, biografico, minimale, desiderante, inappagato» (M. Ercolani), «limpido e febbrile, visionario e sentenzioso» (Giancarlo Pontiggia nella sua nota) che sa risultare anche così incisivo e fertile ha tra le dita i segreti di una sublime scrittura.
Il lettore e, in particolare, il lettore che tenta di lasciarne testimonianza, rischia il vortice degli innumerevoli percorsi e incroci, rimandi e citazioni, rinforzi e attenuazioni. Questo vortice, questa vertigine scaturita dalla ricchezza dei testi è, pare di cogliere, la stessa esperita – cercando e cercandosi - dal poeta che, va detto, forte del rigore del suo pensiero e della sua scrittura, illuminato da una spiritualità forte quanto essenziale nel suo mostrarsi, anziché lasciarsene confusamente travolgere, la domina e la transustanzia in immagine e parola viva e netta: «non per questo/ non crede/ di non poter sentire in lei il suo stesso fremito,/ quando sfonda il suo perimetro la mente.
Si tenta, infine, di porre rimedio alla fatale sintesi di queste mie osservazioni rinviando ad una sitografia[6], parziale, ma già corposa, che ha accolto con netto favore la pubblicazione di questa veramente preziosa raccolta.
[3] Sul “debito” di Morasso verso Mario Luzi è illuminante l’intervista di Pasquale di Palmo in Succede oggi del marzo 2017: La voce del poeta: Massimo Morasso. Canto di pietà, http://www.succedeoggi.it/2017/03/un-canto-di-pieta/
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