Pubblicato il 28/05/2010 21:36:14
IL SOFFIO DEL VENTO
Il mattino del mio cinquantesimo compleanno mi svegliai all’alba. Aprii le persiane dell’ampia cucina e misi la caffettiera sul fuoco, riflettendo sul fatto che ero al mondo da mezzo secolo! Eppure sino a poco tempo prima avevo soltanto trent’anni: sposato da poco, con una bimba di due anni, una carriera ancora da percorrere, una vita frenetica, ma intensa; come appena uscito dall’adolescenza. Mentre sorseggiavo il mio abbondante caffè, il sole spuntò all’orizzonte: era sempre lo stesso, nonostante anche lui avesse vent’anni di più. A trent’anni mi sentivo ancora un ragazzo, a cinquanta avevo certamente più maturità ed esperienza, ma ero smarrito e sconvolto per quella improvvisa sensazione che la vita mi stesse sfuggendo di mano. Eppure mi sentivo forte e giovane, soltanto un po’ più saggio. Mia moglie venne a prendere la sua tazza di caffè, poi mi disse: - Buon compleanno! – e a bassa voce: - Torniamo a letto. A pranzo andammo al ristorante con i due figli, Eliana e Francesco e ordinammo un menù speciale. Ero orgoglioso della mia famiglia, e nel complesso fu una bella giornata. Il giorno dopo iniziai la seconda metà del mio secolo (quanta parte ne avrei visto?) recandomi all’ Istituto di Biologia. Dopo la lezione mi ritirai in laboratorio: appena il tempo di accendere la luce e mi ritrovai circondato dagli specializzandi che avevano preparato i festeggiamenti per me. Non posso negare che la cosa mi fece piacere: se la vita cominciava ad abbandonarmi, le persone care mi stavano vicine. Fu Vera, un’allieva tra i migliori, a fare il discorsetto: mi sembrò più che mai simpatica. Soltanto verso sera mi riprese quella vaga malinconia, quel senso di leggero rammarico per non essermi accorto che la gioventù stava volando via, come spinta da un soffio di vento. * * * Non so per voi, ma per me l’impegno sul lavoro può essere un toccasana per le malinconie e le piccole insoddisfazioni. Così mi buttai sulle ricerche del mio laboratorio di Biologia. Dico mio perché così lo sentivo, ma in realtà era il laboratorio dell’università. In quel periodo stavamo studiando in particolare un fiore raro dei monti dell’arcipelago … I suoi boccioli erano di colore bianco, completamente chiusi come sfere compatte; i petali si differenziavano in un momento successivo. Due allievi specializzandi avevano avanzato l’ipotesi che i boccioli contenessero una quantità di ossigeno superiore al normale. L’utilità di questa scoperta dipendeva dalla valutazione esatta di quella quantità, dall’abbondanza del fiore in natura e dalle possibilità di coltivazione in climi e terreni diversi da quelli di origine. Vera si stava impegnando particolarmente, in quella ricerca. La ragazza era meno giovane degli altri, sulla trentina, non sapevo bene il perché. Credo che si fosse iscritta alla specializzazione dopo aver lavorato alcuni anni per motivi di famiglia. Non le si conoscevano fidanzati e sembrava dedita soltanto al lavoro. Aveva un bel viso e un bel sorriso, era simpatica e allegra. A me risultava piacevolissimo pranzare con lei e gli altri allievi alla mensa universitaria o alla tavola calda vicina al laboratorio. Un giorno ci ritrovammo soltanto io e lei ad andare a pranzo. Suggerii la tavola calda, e naturalmente avrei offerto io. Vera era una che mi dava corda, forse perché voleva fare carriera, forse perché mi ammirava professionalmente. Io interpretavo la mia simpatia per lei quale semplice cameratismo. Proprio quel giorno, uscendo dal laboratorio poco dopo le sei del pomeriggio, mentre mi dirigevo alla fermata della metropolitana, mi chiamò mia figlia Eliana, che era venuta a prendermi in auto. Durante il percorso parlammo poco, perché lei era impegnata col traffico. Si fermò cento metri prima della nostra villetta di periferia, sotto le fronde di un sontuoso platano. Mi guardava risentita: - Tu oggi non mi hai vista, ma io ero lì, a pranzare con alcuni colleghi. - Alla tavola calda? Così spendi la paghetta che ti do? - Era il compleanno di Gianni. Perché facevi il cascamorto con la tua allieva? Mi sentii a disagio: - Eliana, era un pranzo di lavoro! - Ti conosco troppo bene, papà: quella ragazza ti piace. Ti rendi conto che potrebbe essere mia sorella maggiore? Alcune donne sono di una religiosità intransigente sino all’ingiustizia: - Eliana, stavamo solo pranzando! Ti assicuro che non l’ho mai sfiorata! - Io ho visto che te la mangiavi con gli occhi. Forse ti conosco meglio di te stesso. - Va bene, le starò lontano, ma non ho fatto niente di male. - Papà, lo sai che sono il tuo angelo custode… * * * Non ho mai pensato che la simpatia sia una colpa, quindi decisi semplicemente di evitare di restare solo con Vera, sia fuori che dentro il laboratorio. Forse era vero che la ragazza mi ricordava la mia gioventù e rispolverava sogni amorosi mai sopiti, un rimpianto sottile per la freschezza delle donne giovani e affascinanti; ma non c’era nulla di più. Ed ero convinto che, se io avessi abbandonato i miei modi più che corretti, la simpatia e la stima di Vera si sarebbero dissolte come nebbia al sole. I fiori che stavamo studiando finirono presto, per l’esigua quantità a disposizione. Erano stati portati da un allievo che li aveva ricevuti da una ragazza, la quale a sua volta li aveva avuti da uno straniero di passaggio. Ne conoscevamo soltanto la provenienza, la cima di un monte in un’isola dell’arcipelago … Il fatto è che i risultati scientifici erano stati incoraggianti: il bocciolo accumulava ossigeno al suo interno, per poi aprirsi in cinque petali. In quel momento l’ossigeno contenuto superava il 50 % dell’aria complessiva. Decidemmo di mandare un gruppo di noi a prenderli sul luogo di origine nella stagione giusta, sfruttando i fondi per la ricerca scientifica. Mia figlia Eliana si apprestava a partire per lo stage che le spettava e decise di unirsi al nostro gruppo. - Non sei una specializzanda… - obiettai. - Farò domanda scritta al Rettore, motivandola. Naturalmente sarei andato anch’io, e non mi sembrava una missione pericolosa per mia figlia, tanto più per la mia presenza. - Io non ti posso raccomandare… - Basterà il cognome. – rispose con un sorriso. Questo significò soltanto che, meno di un mese dopo, il Rettore m’invitò a prendere un caffé. Ci conoscevamo abbastanza da darci del tu. - Professor …, non mi hai parlato della richiesta di tua figlia. - Non voglio influire sulla tua decisione. - Hai qualcosa in contrario sulla sua partecipazione? - No, anzi mi farebbe piacere. - Ha un ottimo curriculum universitario, quindi l’autorizzerò. Quanti sarete, in tutto? - Tre o quattro. Vorrei portare Giorgio, che è il migliore. - E quella ragazza più grande? - Anche, se vorrà. - Penso che autorizzerò entrambi, se vogliono andare. - Benissimo, Rettore. Pensai che saremmo stati un gruppo molto affiatato, perché mia figlia fraternizzava con facilità. * * * Alla fine Giorgio diede forfait, perché la fidanzata mugugnava e piagnucolava. Un po’ mi dispiacque, perché non avevo un’esatta cognizione del territorio dell’isola e mi sentivo la responsabilità dell’incolumità delle due ragazze. Anche per questo mi feci autorizzare per utilizzare una guida locale. Fu un viaggio lungo e pieno di aspettative in parte deluse, anche perché sull’isola trovammo un freddo inatteso che ci costrinse a comprare un po’ di coperte. Trovammo una guida locale, soprannominata Kim, che non conosceva l’italiano, ma parlava inglese, e il mattino del giorno stabilito partimmo per scalare il monte. Le due ragazze mi sembrarono piuttosto emozionate. La nostra guida indigena ci aveva avvertito che raggiungere la cima portava sfortuna e che pertanto ci avrebbe accompagnati sino a cinquecento metri di sentiero dalla vetta e poi sarebbe rientrato. Avrei voluto prenotare il suo aiuto per la scalata ad altri monti dell’arcipelago, ma lui mi confermò che quella specie di fiori amava la frescura persistente di quella cima e che altrove non c’era né fresco, né fiori Bianchi (lì chiamavano semplicemente così, nella loro lingua). Commentai con Vera che forse era quello il motivo per cui i fiori che stavamo studiando non erano ben conosciuti. In poco più di un’ora giungemmo in vetta, e lì trovammo non solo abbondanza di fiori Bianchi, ma anche vedute mozzafiato: da una parte l’arcipelago, composto di isole di misura diversa, sparpagliate a caso nell’oceano spumoso, dall’altra lo stesso oceano, più calmo e attraversato da onde lunghe e piuttosto alte. Le due ragazze guardavano estasiate, coprendosi il capo con i cappucci dei loro giubbotti, per ripararsi dal vento che soffiava freddo e teso. Facemmo rapidamente la nostra raccolta, un paio di chili a testa, ma ben imballati, per evitare che i boccioli si rompessero, quindi un rapido pasto asciutto, accompagnato da caffè caldo, poi cominciammo la discesa. Scendere per un sentiero ripido a volte è più difficile che salirlo: Eliana era piuttosto agile, io avevo una certa esperienza di escursioni montane, ma Vera, alta e di ossatura robusta, risultava impacciata. Allora presi io il suo carico di fiori, un po’ per lei, un po’ per i fiori. Rallentammo e dissi a mia figlia di fare da retroguardia, mentre io facevo da apripista, perché lassù non c’era un vero sentiero: - Seguite i miei passi. Per fortuna non c’era un dirupo molto scosceso, ma il percorso a tratti era stretto. Io pensavo che i membri di una spedizione non dovrebbero essere scelti in base ai rispettivi curriculum scientifici, ma con altri criteri. Per incoraggiare le mie compagne di viaggio, indicai loro un piccolo pianoro più a valle, il punto in cui la nostra scaltra guida ci aveva lasciati, dopo aver incassato il lauto compenso. - Dove? – chiese Vera, facendo qualche altro passo verso di me senza osservare il terreno. Il suo piede destro scivolò a causa del terriccio sciolto e lei cadde rotolando per il pendio. Nove o dieci metri più sotto si fermò gridando di paura e di dolore. Eliana e io cercammo di rassicurarla: - Ti tireremo su! Hai ferite? - La caviglia! Muoveva entrambe le braccia. Le chiesi di muovere la gamba non dolorante e lo fece; aveva rannicchiato l’altra e la teneva con le braccia. “Niente di grave”, pensai. - Dobbiamo tirarla su. – dissi a Eliana. Presi la robusta corda che avevamo con noi, feci un grosso cappio, scorrevole perché non potevamo perderla mentre la tiravamo su, quindi gliela calammo, dicendole di mettere il cappio sotto le braccia. Quindi mi guardai intorno, ma non c’era neanche un alberello intorno al quale far girare la corda: - Dobbiamo sollevarla di peso. Non avevamo esperienza di quel tipo di operazione, ma avevamo le nostre braccia e le mani protette da guanti di stoffa, così, un palmo alla volta, la portammo su. Tolta la scarpa e il calzettone, si notava una brutta distorsione, che stava gonfiando. Vidi che c’era una rientranza sul costone della montagna alla nostra sinistra, appena più avanti. Un po’ di peso, un po’ facendola saltellare sul piede buono mentre la sostenevamo sui due lati, la portammo in quell’accenno di riparo. Eliana le spalmò una crema e le diede dell’aspirina. Intanto io riflettevo sui soccorsi: i cellulari lì non funzionavano e noi non avevamo una radio. “Dannata scarsità dei fondi per la ricerca!”, pensai. Eliana le disinfettò e incerottò i graffi. Al termine dissi loro: - Il villaggio dista poche ore: scenderò a chiedere aiuto e tornerò prima di sera con una jeep o un elicottero di soccorso. Eliana si mostrò incerta: - Sono quasi le due del pomeriggio. Forse è meglio che vada io, che posso essere più svelta. Inoltre, se tardassi a tornare, tu hai più esperienza di montagna. Io pensai che quella scelta era anche più sicura per mia figlia e accettai. - Non correre! – le raccomandai. Mi aiutò a sistemare Vera su una coperta e a ricoprirla con un’altra. - Abbiamo viveri e bevande in quantità. – dissi alla mia allieva. Poi incoraggiai Eliana a partire subito. Mi alzai e la seguii con lo sguardo fino a quando fu visibile, con una certa ansia. Quindi offrii a Vera del caffè. Le fece bene e mi ringraziò con un sorriso: - Quello del bar è un po’ meglio… - Te ne prometto un centinaio dopo il ritorno a casa. Il piede fa male? - Sì, ma la paura è passata. Notai che il calore delle coperte e il rilassamento seguito al salvataggio le facevano chiudere gli occhi, e la invitai a fare un pisolino. Devo confessare che dopo un po’ mi addormentai anch’io, riparato dalla mia coperta. Mi svegliò un pianto: era Vera. - Ti fa male la caviglia? - Ho mal di testa. Le toccai la fronte, che scottava. Forse qualche ferita le aveva fatto infezione oppure aveva una brutta frattura. Allora le feci prendere una compressa di antibiotico, che avevamo portato per prudenza, e la coprii anche con una metà della mia coperta, sistemandomi accanto a lei. La ragazza continuava a piangere come una bambina, come mia figlia da piccola, e io tentai di distrarla con discorsi leggeri, sulla mia vita universitaria, sui primi lavori ecc. Si addormentò di nuovo, forse più per il malessere e la febbre che per la voglia di riposare. Io restai in silenzio, immobile e respirando piano per non svegliarla. Si udiva il soffio del vento, come in quell’inverno lontano in cui avevamo abitato in montagna e i bambini erano spesso raffreddati, così mia moglie e io stavamo a turno a vegliare il loro riposo finché non si addormentavano profondamente. La mia allieva trentenne mi appariva in quelle ore un’altra bambina, un’altra figlia, e mi vergognai del fatto che qualche volta mi aveva sfiorato un desiderio che era in contraddizione con la nostra differenza d’età: ferita e affidata a me da un destino insidioso, lei mi metteva di fronte alla realtà che io in effetti avevo piuttosto un’età da padre. Così feci scorrere i ricordi di una vita: i miei lunghi studi, l’incontro con Gina, dall’innamoramento al fidanzamento, alla vita di coppia, i successi professionali, la crescita dei figli, i momenti più belli della mia vita. Poi mi prese una smania, a metà tra la consolazione e il rimpianto, una consapevolezza di aver vissuto e di poter ancora vivere in un ruolo nuovo, come un attore che interpreta personaggi sempre diversi. Mi sembrò che la luce del giorno volesse diminuire, in quella grotta, e lentamente mi alzai, andai fuori: a occidente un grosso sole arancione scendeva verso un orizzonte fatto di mare e di cielo, mentre anche il vento accennava a placarsi. Dov’era Gina in quel momento? Dov’era la compagna dei miei sacrifici, delle varie peripezie, dei momenti di gioia, di quelli difficili? A casa, un po’ sfiorita, ma a casa, fiduciosa che le avrei riportato la figlia, che sarei tornato sano e salvo, al termine di una buona spedizione. Come faceva a essere certa di tutto questo? Come faceva ad avere fiducia in me, nelle mie capacità, più di quanta ne avessi io? Quando un gigantesco disco solare deformato, appiattito come se non volesse essere ingoiato dal mare, toccò l’orizzonte, mi riscossi: mi voltai a oriente per vedere la polvere sollevata da un fuoristrada o il segno di un elicottero all’orizzonte. Non c’era nulla: gli animali diurni si apprestavano a riposare, quelli notturni attendevano l’incipiente buio. In cielo stormi di uccelli in lontananza andavano per la loro strada, compatti, gli uni seguendo gli altri. Uno solo rallentava, quasi fermo nel cielo, poi restava isolato, poi sembrava avvicinarsi lentamente a me. Guardai meglio, e sperai, e vidi una grossa libellula avvicinarsi, cercare un punto idoneo per posarsi, non troppo lontano. Scesero, in quattro, e la figura più piccola mi salutò col braccio. - Eliana! – gridai. * * * Vera impiegò tre giorni a rimettersi abbastanza da poter ripartire. Io e mia figlia ci rilassammo e riposammo, apprezzando i paesaggi e la cucina locale, le musiche e i balli della popolazione indigena. Tornammo rapidamente, con un aereo militare messo a disposizione dal ministero della Difesa, interessatissimo alla nostra ricerca sui fiori Bianchi. Al piccolo aeroporto di Ciampino c’era mia moglie ad attenderci, sorridente come sempre.
F i n e
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