IL VIAGGIO
(gli dei)
A quale gioco bizzarro giochiamo? Non è un gioco, è solo dove andiamo.
Dal niente, un prima di buio infinito
Più lui che noi, ricco e avvolgente,
Umido, caldo, simile a niente
Nel tempo lento che batte rotondo
Da toni ed echi arcani scandito.
Poi, come uscendo da un mare profondo
Si spezza il velo dell’acqua in frammenti,
Fradici ancora, sorpresi, dolenti,
Soggetti a nuova forza e a nuova legge,
Eccoci entrati altri al nuovo mondo.
Come un cristallo che si infrange in schegge
E ti disvela ciò che stava dietro
Mentre per sempre può ferirti il vetro
Il guscio fragile più non comprime
E ciò ch’è solo ormai da solo regge.
Quel vento troppo freddo che ci opprime
E ignoti mali venuti dal niente
Luci accese poi spente, accese e spente:
Nasce un’attesa che a tratti finisce
In pause che la quiete mai redime.
Il dolore provato non sparisce
E il corpo, vulnerabile confine,
Mai più è lo stesso, il prima è alla fine
Dissolto in tracce già labili e scarne
Anche se il tempo quel taglio guarisce.
Il corpo, lui, la scatola di carne,
Che non contiene né è contenuto
Pure pare che sia a forza tenuto
Fra la paura in bilico e il coraggio
A prender colpi ed altrettanti darne.
E’ iniziato oramai un lungo viaggio
Fatto di mostri osceni divoranti
Forse alle spalle o forse più avanti
I ringhi a sopraffare i guaiti
Sotto un sole di cui siamo l’ostaggio.
Intanto solo afasici vagiti
Ma già ci parlano onnipotenti
A noi confusi e ancora balbuzienti
Come un vento caldo, una brezza,
Gli dei, da sempre solo presagiti
Nella loro infinita grandezza:
Come sostiene tiepida la notte
L’acqua, la stessa del mare che inghiotte
Là dove speri, le speranze tolte,
Loro, insieme, timore e salvezza.
Tremendi Quelli ma a incontrarli, a volte,
Fra faggi a cerchio antichi e nodosi
E pioppi filtro a fasci numinosi
Per ogni dove di colpo diffusi
Dolcissimi. Noi, le membra disciolte.
Sono tempi tremendi e confusi
Tutto accade ma tutto è inusuale
Tutto è di fronte, nel bene e nel male
Nel mentre che assoggettati subiamo
Poteri e forze e da cui siamo esclusi.
Non siamo soli e tanto più lo siamo
Scoprendo gli altri umani differenti
Come più saldi e completi e presenti,
Integri loro, e forse in agguato
E li cerchiamo ma prima li temiamo,
Perché chi mai che la vita ha iniziato
Accosterebbe uno non suo figlio,
Con la paura del morso, dell’artiglio
Pericolosi come sono e siamo
Senza esservi spinto o trascinato?
Pure, se fra di noi non ci scontriamo,
Ancora chiusi dentro a un nostro regno
Ma mossi da un odore, un gesto, un segno,
O da sogni tuttora indefiniti
A ogni incontro curiosi ci annusiamo.
Suoni sconnessi, ringhi o grugniti,
E grida di rabbia e di pianto
(Da quando Eva la mitocondriale
Disse “pericolo” e poi “figlio” e “grotta”,
E’ una catena mai più interrotta,
Forse arricchita ma non più di tanto,
Di bizzarri versi da animale)
Poi inventiamo il sacrificio e il canto
In un gioco che ancora oggi perdura
Per farci spazio fra Loro nei miti.
Per ottenere una più assidua cura
Da quei demiurghi dall’ignota prole
Rubiamo loro le prime parole
Di una lingua mai bene imparata
Contro un mondo che ancora fa paura,
Ma quel prima, o quell’ora incantata,
Dimenticato, subito sepolto,
Per sempre resta senza più un volto
Della coscienza relegato al bordo
Come parola mai più pronunciata,
Nell ’inspiegabile sognoricordo
Di un tempo indicibilmente felice
Presenza troppo forte, cicatrice
Che, come fossimo poveri o poeti,
Ci risprofonda in un bisogno sordo.
Crescono dentro mirabili reti
Come giocano in mare i delfini
Di quegli Dei superiamo i confini
Che mai avremmo osato varcare
E li scopriamo prossimi e consueti.
Però al contrario di loro del mare
Cominciamo a vederci speciali
Noi vuoti che non trovano uguali
Esistenze di essenze a brandelli
Mossi a presumere, a rivendicare.
Non siamo un poco noi come Quelli
Capaci di fare e di disfare
Di creare, uccidere e annientare
Forse su un’altra sfera, un altro passo,
Ma ugualmente potenti, forti, belli?
Com’è altra la scheggia da un sasso
Una spiga da un rovo di more
Un verso che canta da un rumore
Com’è diverso il grano dal loglio
Vediamo noi altrove e il mondo in basso.
Non bastano più l’ape e un trifoglio
Né un quadrifoglio, per fare un prato
Delle lucciole il fato è segnato
E del loro caotico bagliore.
Non siamo nudi, il mondo è già più spoglio.
Ma pazientiamo per secoli e ore
Le opere durano infiniti giorni
Albe, partenze, tramonti, ritorni
Veloci lampi, effimeri barbagli,
Ognuno nasce, ognuno poi muore.
Tutta la scena è fatta di dettagli
Di piccole figure tratteggiate
Dal tempo e da noi dimenticate
Nel quadro complessivo ch’è restato
Come fossero fuggevoli abbagli,
Perché è la stoffa che mostra il filato
E tante vite fanno una storia
Che prolungando una stessa memoria
Da fuori a dentro e poi da dentro a fuori
Costruisce al presente il suo passato.
Come una spugna d’acqua, di errori
C’impregna il tempo, e ci slancia avanti:
Siamo uguali, siamo unici e tanti
Oramai siamo, questo è certo siamo,
Dei nostri Dei non di troppo inferiori.
E anzi ingenuamente ibridiamo
Quei Grandi dalla storia invecchiati
Proliferano i bastardi nati
Da intrecci spuri come usucapioni
In stirpi che via via sostituiamo.
Altri miti, altre facce, altri troni
Le gerarchie, chi è di meno e chi tanto
Chi guarda o è visto, il cencio o il manto
E il pane e il sangue e l’acqua e il vino
Grandi sui servi i piccoli padroni.
Chi comanda è per sangue divino
La sua parola la chiamiamo legge
Sudditi e servi sterminato gregge
Dove l’uno all’uno è sempre uguale
Voce sottile, negata, al confino.
Si spezza in due la finta solidale
Schiera di chi ha conosciuto il terrore
Uno prostrato all’altro vincitore
Senza che l’altro o l’uno ne gioisca
Fra i due malati dello stesso male.
È necessario che uno perisca
O almeno ceda sé, dall’altro vinto
Come un colore da un colore è tinto
Come la luce crea l’ombra e la sfiora
Come una voce che un’altra zittisca.
Ma non è un gioco a due, c’è sempre ancora
Quella parola che mai più fu detta
E il silenzio che dentro ci getta
Mentre nel vuoto il vivere è immerso
Prende le nostre vite e le scolora.
Non ci fa vivi, ci passa attraverso
Nel ricordo di ciò di cui manchiamo
E un nome nuovo apposta inventiamo
E lo cantiamo ancora e ancora
Perché il suo vero rimanga sommerso.
Forse è legato al tempo che svapora
Come la fiamma è figlia del fuoco
Che per lui non siamo altro che un gioco
Piccole ombre al suo vivo cospetto
Qualche cosa che c’è soltanto un’ora.
Eppur ci muove, quel potere stretto
A risuonare in lotte di eco affini
Ma siamo mai veramente vicini?
(Una risposta un giorno tu l’hai data
Malgrado tutto non lo siamo, hai detto,
Tu che il gran vecchio di parola alata
Non tollerava, e in particolare,
La tua viva abitudine di andare
Correndo al mattino, allegro flutto,
A piedi nudi nell’erba bagnata).
Gira e rigira tutto intorno a tutto
E ad intervalli il fiume si inarca.
Cade la testa di qualche monarca
Quando una folla risponde a un richiamo.
Un vecchio mondo sembra ormai distrutto.
E questo ci fa essere: udiamo
Dei rumori che vengono da fuori
Per noi sono cannoni non rumori
E i cannoni son macchine cantanti
In vista di una morte, lo sappiamo.
Guardiamo non più in alto ma più avanti
Un vino rosso imbeve i nostri solchi
A fatica tracciati dai bifolchi
Linee confuse, faticate, estorte
Al sangue non di pochi ma dei tanti.
Col solo libero mandato a morte
Profanati, gli Dei sono lontani
Le loro spoglie contese dai cani
Che fanno ressa intorno alla caduta,
Muore una libertà mai stata nostra.
Dei vecchi tempi l’ora è venuta
Ma i tempi nuovi non sono cambiati
Cancelliamo confini assodati
Sotto un maglio che batte e ribatte
E il fiume il suo corso non muta.
Crescono intanto le parole esatte
Come algoritmi, costruiamo l’astratto
Non ciò che è ma ciò che viene fatto
Replicato in diversi assemblaggi
Ci nutre e sazia come un nuovo latte.
Nuove macchine, nuovi ingranaggi
Danno la vita a forze più potenti
Ci scopriamo capaci di portenti
Che con un incredibile clamore
Aprono nuovi infiniti paesaggi.
Anche se ancora a lungo si muore
Apre e chiude le porte il bifronte
Già alte svettano sull’ orizzonte,
Come soffici guglie incantate,
Torreggianti colonne di vapore.
E sono grattacieli sull’Eufrate
Destinati a portare fino al cielo,
Col nostro nome un nuovo vangelo
Di alti destini che sono già scritti,
Noi e le nostre scatole fatate.
Si cresce in fretta, a forza di conflitti,
Di rivolte a decidere chi siamo
Anche se in verità non lo sappiamo
Per quanto nuovi, arditi e forti.
Ma crescono i doveri e i diritti.
Nello spazio spalancato dai morti,
Dalla passione, da altrettanto odio,
Liberi il tempo di un episodio
Come avvoltoio che divora e vola,
Ci sentiamo ormai vivi, risorti.
La capovolta B di una parola
Sembra uno scherzo a cui ridiamo tutti:
Dimentichiamo presto i troppi lutti
Che a fatica fin qui ci hanno portato
E una nuova ricchezza ci consola.
Dio non è morto, è stato catturato
Riadattato su scopi più attenti
Il nuovo sogno che ci fa contenti
È l’esser parte di un grande disegno
Che ci promette un futuro incantato:
Siamo ciascuno una parte del regno
Tutto è possibile, tutto è concesso
Certo domani se non proprio adesso
Con sforzi tenaci e indefessi
Volontà, coraggio e assiduo impegno.
Siamo noi i padroni di noi stessi
Servi obbedienti perché non costretti
Non soggetti ma singoli progetti
Ognuno al centro di un sogno fecondo
Liberi infine e mai più oppressi.
Se non, forse, da un’ansia di fondo
Di aver più cose, più libertà, più noi
E non soffrire, no, né ora né poi,
Ché alla morte e al suo vile assalto
E’ negato per sempre un posto al mondo.
Lo sguardo fisso avanti sull’asfalto
Corriamo dietro al nostro miraggio
Per lo più ciechi ai compagni di viaggio
E a noi stessi, a ciò che ci pervade,
Stregati ormai da stelle non più in alto.
Ma tutto è scontato, tutto accade
Sanno forse le cavie nella ruota
Che esiste un’altra vita, forse idiota,
Di cui percorrere le ore quieti
Oltre a questa da cui non si evade?
“Per la salute di tutti i criceti
E degli animali in generale
Il movimento è fondamentale;
Nella cattività dei roditori
Una ruota o altri giochi discreti
Saranno di certo risolutori.
Tuttavia la sola ruota può farsi
Un alienante modo di sfogarsi;
Per questi animaletti giulivi
Si provvedano quindi altri accessori.”
Non siamo soli, siamo complessivi,
Un fluire continuo di parole
Mostrando tutto come pelli al sole
Troppo bruciati in un continuo affanno
Da sguardi che ci fan sentire vivi.
Parole in serie che neppure sanno
Cosa sia il silenzio dell’ascolto:
Come un abito che ti viene tolto
Mentre invece è l’altro che svestiamo
E sono uno per parte il corpo e il panno.
Ma ancora, se fra noi non ci ignoriamo
Liberi a volte da ogni disegno
Come angeli volati sopra il segno
Oltre il quale ogni uomo si arresta,
A volte, rare volte, ci ascoltiamo.
E quando accade sempre è manifesta
La nostalgia di una qualche presenza
Di un dio di infinita pazienza.
Non quello che senza sosta ha sedotte
Le nostre vite e ancora le calpesta
E sostiene e lancia in alto e inghiotte
Così come col naufrago fa il mare
Blu nel profondo e bianco a spumeggiare
Mentre affondiamo sempre ripetendo
La parola che appartiene alla notte.
No, tutto un altro dio sarà attendendo
Dopo quello vissuto e infine morto
Senza alcuno a dargli conforto
Celato in lui ogni suo desiderio
Talvolta in pianto però mai ridendo.
Sì, venga il tempo di un dio poco serio
Che ci trasporti prima dell’ignoto
E ci insegni a volare sopra il vuoto
Scherzando insieme di ciò che finora
Era taciuto e del suo vituperio.
E sarà ridere e ridere ancora,
Di quell’abisso che portiamo dentro
Mettendoci un po’ fuori, non più al centro
Lo patiremo ma non come lo stesso
Come su un fiume un ponte dimora.
Verrà, forse verrà ma non adesso.
Intanto avanti come sempre andiamo
E continuiamo come sempre siamo
Spiriti persi in cerca di un dio
Come eravamo allora, al nostro ingresso,
Da quando siamo uno sproloquìo
Brusio per voce sola incessante
Parole altrui, parole apprese, tante
Parole dette ma dimenticando,
Parole a cui diamo il nome di io.
E tu? Come, non vedi? Sto evolvendo!
Ma no, chiediti se non stai morendo.
QuinOtt16
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