Sto sul margine di un golfo scalmanato
convinto che la sua superficie agitata
sia una grossolana bugia legata alle ciarle
per aria che nessuna pinna contiene.
Tuttavia, lo scalpello dell’acqua sbatte la verità
sommersa sulla riva: così si riduce
quel che trasmette il suo delfino, l'onda.
Qui l'universo si affaccia con una maschera indaco
fino al setto del promontorio che tira il fiato
ma ciò che vedi o calpesti o raccogli,
sono residui scagliati da millenni nei condomini
delle sue narici altezzose.
E sono le loro ombre che danno espressione
ai marmi; è la flessuosità delle lische che fa
giacenza di fondo nel blocco in forme.
Senza dubbio ogni roccia contiene la maestria
della vita che attraversa lo scalpello
con generosità. Del genio
che non mi viene in mente
perché nella mia bocca manca il suo strumento
tale per cui qui è solo
l’artefatto che improvvisa corse
sui gambi delle lettere: consonanti
per uomini messi all’asta dalle vocali
perentorie del porto - oè, oè, iiiih.
E tutta la punteggiatura che procura
balbettio e mugugno nelle vene
dove scorrono queste parole reflue
e, ve lo giuro, tornate tutte qui
dalla paura.
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