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Come la pietra e il vento

Poesia

Alessandro Vetuli (Biografia)
Fermenti Editrice

Recensione di Martina Federici
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Pubblicato il 10/08/2012 12:00:00

Ruvido come la pietra e leggero come un alito di vento.

Così mi appare il verso del poeta Vetuli. Un percorso tinto di immagini dure, reali, profonde ma con un velo di sacralità e quasi religiosità che dona all’insieme della raccolta una suggestiva saggezza cercata e spesso raggiunta.

All’alba di “Come la pietra e il vento” un bambino nell’orfanotrofio della poesia sorride al poeta e pare lo guidi come una Musa nel cammino alla ricerca di verità e consapevolezze note in parte ma ancora da ricercare con piena coscienza. Tutto si svolge in modo quasi quotidiano, sono singoli atteggiamenti o gesti che inducono a riflettere su quello che l’esistenza rappresenta. La figura del “Pagliaccio stanco” quando il poeta recita “Noi tentavamo ancora di ridere,/ fino a quando le mandibole divennero immobili/ trattenute come da un bavaglio di fil di ferro/che impediva ai raggi del sole/di schiudersi sui nostri visi”. Sono immagini disfatte, a metà tra la tristezza e l’inquietudine, quelle che vengono incontro mano mano che questa poesia si dischiude. Tanto gli esseri umani quanto la natura si vestono di toni ruvidi, in una continua conoscenza di sé e del mondo. “Il mare”, simbolo molto presente di questa natura, “rigurgita le sue lingue saline/ stanco ormai di parlare./ Depositi le tue sillabe secche/ ai miei piedi/ come se volessi donarmi qualcosa/ ed io non comprendo./ Le alghe però,/ sono pur sempre dita avvizzite/ di chi mi ha amato dal fondo.” Ed ancora è il poeta stesso che rivela ciò che lo ispira nella sua ricerca “Se c’è un amore che desidero/ è quello della pietra./ L’inguine di scogli/ con la sua cavità genitale, il corpo robusto del nulla.” Attraverso “queste poesie” che “ricordano e non dimenticano/ perché la loro pelle è scavata nelle rughe ortografiche” si dipana la profonda riflessione sulla poesia, sull’uomo, sull’asceta. Molti versi, infatti, permettono al poeta di avvicinarsi agli eremiti, ai frati, al “monolitico materasso del dogma” di San Francesco in una contemplazione e devozione di sapore mistico. Nel “Saio di San Francesco”, nel quale “la povertà ti fece un grande buco nel saio/ all’altezza del cuore”, il poeta quasi si pone ad ascoltare… e meditare. Così molti versi vengono dedicati a personaggi come David Maria Turoldo frate, poeta, viandante, o a poetesse unite tutte da una fine violenta e volontaria della loro esistenza come Sylvia Plath, Amelia Rosselli o Antonia Pozzi. Ancora in “Corpo di poesia” una suggestiva dedica ad Alda Merini “goffo angelo in pigiama/viandante zoppo/ che ti sostieni col bastone della poesia”…”E’ arrivato il momento,/ devi ridare indietro ciò che ti è stato dato/ e ciò che hai scritto./ Gesù s’inginocchia/ e dolcemente ti chiede questo/ come unico pegno d’amore”. Tutti poeti, questi, che ora soffiano come venti e sopravvivono nelle pietre facendo dono al mondo del loro operato, del loro verso immortale. Allora il poeta Vetuli si lascia andare ad una visione dei poeti simili ad “un tavolo vuoto/ o un prato sconfinato/ su cui le pietre sembrano pane/ e riescono a spezzare la pietra,/ che produce lo stesso rumore/ del pane quando viene spezzato.” Hanno grande forza i versi dei poeti, ma tutto sembra non riconoscerlo o meglio accorgersene solo tardi.

Nella sezione finale della raccolta, “Frammenti per Arthur Rimbaud”, un che di commovente accompagna la lettura di queste piccole composizioni in onore del poeta maledetto. Vetuli racconta di lui, lo fa con ossequio dipinto da crudo realismo per concludere con versi appassionati “E quando chiuderai gli occhi/ io ti rivedrò ancora,/ come quando scrivo, come quando amo/ come quando soffro./ Danzare come un derviscio splendente/ su uno specchio infinito di sole e di acqua/ e schiuderti come un frutto di luce/ che non potrà mai più cadere dall’albero.”.

Trasformazione, capovolgimenti, scompensi e poi risalite. Tutto questo riesco a cogliere nei versi di Alessandro Vetuli che ho di fronte e che stimolano una rilettura continua. Nei momenti più disperati la migliore poesia è addirittura il silenzio, “Solo quando le pagine del libro saranno bianche/ potremo finalmente imparare a leggere”. Ma tutto è in continua evoluzione, dalla solidità di una pietra al soffio di un vento che plasma e fa mutare il reale ed il non reale. Una profonda ricerca di sé come poeta, come essere umano attraverso percorsi intrisi di dolori, dubbi, certezze non bene identificabili; un viaggio nelle sensazioni vissute/perdute per trovare, io credo, un nuovo slancio vitale per mezzo della poesia.

 


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