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Monica Pizzi - Romanzo - Prova d’Autore
Rose rosso scarlatto
Tutto ha inizio da un dolore. Quanto può essere insostenibile la perdita di un amore, di una certezza di felicità? E come può, da una tale sofferenza, farsi largo la speranza di un sentimento nuovo e coinvolgente? A rappresentare questo fragore di emozioni è la storia di una giovane ragazza, Viola, messa alla prova da un’esistenza complessa e profonda. Somiglia a un surrogato di sentimenti lei; un animo in cui confluiscono contrastanti emozioni, dalla disperazione a esplosioni di passione… auliche ispirazioni abbracciate a volontà fisiche e sessuali. Sembra che la conoscenza di questa storia travalichi i confini del puro racconto sino a far percorrere un viaggio sentimentale nell’intimo di un cuore giovane. Ogni personaggio è come una splendida cornice ai bordi di questa esistenza… dall’amore perduto a quello riscoperto, dal legame familiare alla scoperta di nuove amicizie. C’è qualcosa che fa muovere i passi di Viola verso una rinascita fisica e spirituale… l’idea che il ragazzo perduto, Francesco, sia presente ancora lì vicino a lei. Francesco vive nei sogni di Viola; le conferma che l’amore sopravvive e la sostiene in questo risveglio attuale. E non è solamente l’amore trascorso a fornire alla ragazza la spinta necessaria a tornare alla vita. La vicinanza e l’appoggio di una madre consapevole, la conoscenza di un nuovo padre comprensivo e profondo e soprattutto l’incontro con Luca, fratello acquisito, che irrompe nella vita di Viola in modo favoloso e perfetto. La descrizione di questo ragazzo, tanto prestante e nello stesso tempo votato all’ascolto e alla comprensione, trasmette, sin dall’inizio, un fascino irresistibile; sarà lui a far riemergere tutti i sensi di Viola, sinora assopiti. È davvero curioso il modo in cui l’attrazione, la passione e, infine, l’innamoramento possano stravolgere l’esistenza attuale trasformandola in una nuova, quasi sconosciuta. Viola si lascia andare e torna alla vita. Ma ecco che gli ostacoli dell’esistenza emergono ripidi… l’amore appena nato deve scontrarsi con malesseri di personaggi insidiosi. Persino note di giallo tingono la storia di questi ragazzi, che solo grazie al loro legame riescono a superare pericoli reali e violenti. Con grande comprensione e accanimento l’autrice di questo romanzo, Monica Pizzi, dipinge tutti i colori dell’esistenza. La rosa che Viola tiene in mano nel suo sogno ricorrente è di un rosso scarlatto, un rosso di passione e di tormento. Tinte variegate rendono questa storia speciale nella sua sorprendente normalità. E nel finale qualcosa fa intravedere il dubbio… e porta sconcerto. Cosa accade quando il colore rosso scarlatto diviene di un giallo intenso?
Id: 910 Data: 16/06/2015 12:00:00
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Beda - Poesia - Editrice GDS
L’abisso è alle porte
Vesto i miei occhi di lenti luminose, inspiro aria leggiadra ma riesco solo a penetrare il dolore di versi tanto sofferenti. Non bastano spiragli di intimo sollievo… il tormento è troppo. “L’abisso è alle porte”, dice il poeta Beda. Ed io lo sento, lo sfioro quasi, lo vivo in ogni verso di questa raccolta. La prospettiva da cui seguire il cammino del mondo è intrisa di dolore cosmico che riesce a coinvolgere persino l’intero universo. “Ricordi la felicità sbiadita,/ ricordi la neve e le sue carezze,/ ma ora taci con il cuore morente,/ e il freddo ne screpola il senso.” Non è solamente la natura che riflette l’angoscia sentita dal poeta; è la realtà stessa, la modernità sterile che regala all’uomo l’illusione di poter vivere del nulla. Dunque tutto ciò che ogni giorno coltiviamo e per cui ogni momento sacrifichiamo il nostro tempo ed energie sempre più flebili sembra svanire nel lugubre… nel vuoto. Si tratta davvero di una grande ed autentica illusione? Tale appare l’esistenza di ognuno. Ancora “Sta la bellezza semplice straziata dal progresso,/ pura illusione.” Il poeta racconta con estrema lucidità “Tu uomo del mio tempo,/ tu che usi la democrazia per sparare,/ che racconti le favole per addormentare,/ tu che vendi diritti inalienabili,/ tu che baratti il petrolio con il pane,/ tu che preghi la mattina e violenti la sera/, tu che scuoti le coscienze ma non ascolti il cuore,/ perché non ricordi il senso vero?” Si tratta, dunque, di scoprire o meglio ricordare quale sia il senso vero dell’esistere. Il passato porta con sé quella semplicità oramai svanita e diviene un grido soffocato che stenta a farsi sentire… “Forse, quando tutto tace” recita l’ultimo verso de “La tua innocenza vaga”. Persino la poesia non riesce a placare tanto tormento… “Poserò il mio silenzioso dolore,/in questo morente e spento insieme di versi”. E le risposte sono mute di fronte alle infinite domande che compongono il mosaico dell’esistenza “Siamo domande che provengono da lontano,/ siamo risposte che albergano mute,/ questo tu lo sai.” Ed è proprio adesso, dopo aver sceso l’abisso fino al tratto più oscuro di questa vita, che l’unica possibile speranza è quella di percorrere nuovi e neonati passi. Verso cosa? Il poeta riflette. “Capita a volte che bussi la felicità…è un istante impalpabile d’eterna estasi,/ e mi accovaccio sopra piangente.” E continua “…come l’ape operaia esco di senno,/ e combatto guerriero irrisolto/ a difesa della mia irrisolta disillusione./ Accolgo la felicità in fuga con le spade,/ indietreggio respinto dal respiro/ del malinconico poeta che accudisco.” Ed ecco il paradosso dell’esistenza…non occorre negare che istanti di felicità capitino ad ognuno ma in che modo li si accoglie? Il più delle volte combattendo contro di loro, indietreggiando e preferendo la sofferenza ed il dolore. “Amore, l’ultimo umile grido./ Pur di averti accanto seppur silenziosa./ Tu non parli,/ il mio cuore supino sta ricoperto di polvere, almeno non sento freddo.” Il poeta ci narra del suo mondo fatto di terra, fuoco, aria, acqua e si legge“O piacere sei un istante che si perde/ o dolore sei un sottofondo continuo d’arpe/ o vita sei un passaggio, e poi cenere/ o morte sei la consumazione della materia.” La visione dell’esistenza è davvero quella di una corsa continua destinata solo a perdersi in un mucchio di cenere e l’uomo “vuole e cerca linfa nell’infelicità”. Seppure la vita riserbi anche attimi di felicità, ognuno di noi sembra guardare oltre e correre via alla ricerca del nulla godendo della sofferenza che ci culla malinconici. L’arrendevolezza con la quale ci si lascia abbracciare da questi versi tanto ricchi di pathos mi trascina nella voragine di vecchie e nuove consapevolezze. Tremano le certezze. Odo una richiesta di aiuto…è la mia che aleggia in un’aria soffocata come da grigio asfalto. Il poeta mi ripete “Questa epoca è prospettiva immobile,/ son fermo.” Io rifletto…ci vorrebbe un movimento seppur minimo per restituire la vita ad un’intera epoca quasi a riportare il battito sanguigno ad un cuore (il nostro, di noi tutti) che oramai pulsa solo di uno meccanico.
Id: 810 Data: 06/05/2014 12:00:00
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Anna Maria Vanalesti - Favole - Gruppo Albatros Il Filo
Lo scrigno delle fiabe
Mi piacerebbe molto alzarmi la mattina e, prima ancora di intraprendere una qualunque attività, concedermi un momento per leggere una delle fiabe di questo volume. Anna Maria Vanalesti ci illumina con queste piccole gocce di saggezza, semi di speranza. Nutro la convinzione che il mondo apparirà in modo diverso se guardato dopo aver metabolizzato l’essenza di queste fiabe. Ogni persona è parte di un unico sentimento di compassione e di compartecipazione universale. Che bello sentire, emozionarsi e riconoscere dei cuori pulsanti pronti a soffrire in un’empatia assoluta. È così che in questi versi (mi piace assimilarla ad una lunga poesia) si dipanano momenti di grande fermento gioioso ed episodi che toccano punte di profonda disperazione. La cornice, “la fiaba delle fiabe”, ha inizio nel momento in cui viene al mondo la piccola Cinzia, bambina delle fiabe, che porterà alle persone il dono meraviglioso di poter lenire le loro sofferenze con il racconto di una favola consolatoria e rassicurante. Cinzia, a seconda delle situazioni che ha di fronte, riesce a far proprio il “dramma” di una persona raccontandone uno altrettanto coinvolgente e favoloso. Il carattere umano di questi racconti emerge dalla schiera di personaggi fantastici, animali, alberi che affollano le pagine di questo libro. Nella prima fiaba il pittore Victor, seppur cieco, ha un talento formidabile nel ritrarre qualunque paesaggio ed il giorno in cui incontra la principessa Serenella, farà entrare l’amore nella sua esistenza. Sarà questo amore che spezzerà l’incantesimo malvagio di cui è vittima e riporterà la luce nel suo mondo. Poi c’è la storia commovente di Annuccia e Lello, due cugini inseparabili, che potranno incontrarsi ancora a Vallombrosa, dopo la scomparsa di lui, per merito delle piccole lucciole amiche. Ed il principe Acar che, aiutato dalle sue arance, riuscirà a divenire un sovrano saggio ed equilibrato. Il cane Pongo anche dall’aldilà saprà assistere i suoi padroni con affetto e devozione e la piccola Speranza che in fondo all’arcobaleno conoscerà la pentola d’oro carica dei sogni e dei desideri degli uomini. In molte di queste fiabe si mescolano la vita e la morte come a dimostrare che esiste il dolore della perdita ma fa tutto parte della crescita fisica ed emozionale dell’individuo. Sono pagine velate dalla magia dell’amore, dalla fratellanza, dalla solidarietà tra uomini e natura. L’ulivo, albero saggio ed incantato, rivolge una preghiera al cielo e riesce così a rendere sacro ed indelebile un ricordo altrimenti perduto. Spesso si tratta di storie profonde, persino attuali, che la fiaba aiuta a dispiegare in maniera semplice ed intensa. La ricerca di una sorella perduta come nella storia di Anna e Lena trova il lieto fine nel ritrovamento della ragazza scomparsa e nella rinascita del loro piccolo nucleo familiare. Tematiche care alla letteratura fiabesca si susseguono in queste pagine con una delicatezza ed una naturalezza che viene voglia di immergersi nei racconti tentando di assimilare al meglio il messaggio profondo che ognuno di essi propone. Ed ecco che fate, maghi, giardini incantati, animali fantastici popolano versi di estrema gradevolezza ma carichi di attualità e spesso drammaticità. La capacità di provare meraviglia ogni giorno per il creato, per la natura che ci circonda, per la vita nella sua essenza, può aiutarci a trovare i fili di un’esistenza felice. Penso al cuore di cristallo che, infranto in mille pezzi, lascia venir fuori un vero cuore che pulsa e che, a mio parere, penetra in ognuno dei lettori di questa storia fantastica. Ed al termine di questo volo sulle ali dell’arcobaleno, il messaggio per ogni uomo che voglia davvero trovare la via della felicità… “Dovrai ricominciare a sognare e a sperare, a meravigliarti di tutto, come facevi una volta, altrimenti non potrai più raccontare fiabe, se tu stessa non trasformerai ogni giorno la tua vita in una fiaba”, dice l’angelo a Cinzia (e ad ognuno di noi).
Id: 678 Data: 22/03/2013 12:00:00
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Agapito Scipioni - Poesia - MEF - Maremmi Editori Firenze
Dov’è fuggito l’amore?
Sono parole quelle che cerco per affrontare il cammino poetico dei versi di fronte a me e comprenderli, penetrandoli, nella loro profondità. Eppure parlarne o descriverli non è cosa semplice e forse neppure possibile. Questo perché il poeta Agapito Scipioni conduce questa intima riflessione lasciandosi andare a sentimenti e sensazioni che fondano l’esistenza di ognuno e ridurre qualcosa di tanto emozionale a semplici discorsi non sembra corretto. Il primo elemento che colpisce il mio sguardo è quel punto interrogativo che intitola l’intera raccolta e che torna sovente all’inizio di ogni sezione. “Dov’è fuggito l’amore?”. Probabilmente ognuno di noi si è domandato spesso se l’amore, oggi, ancora esista. E forse il nostro desiderio di sentirci parte di un unico universo che prova emozioni ed agisce di emozioni, ci porta a trovare amore in diverse occasioni. Ma poi, quando capita quell’attimo di vissuto che ci fa scontrare con eventi non calcolati distruttori delle nostre certezze, allora l’interrogativo si fa più forte…dov’è fuggito l’amore? Il percorso che il poeta affronta nei suoi versi potrebbe, inizialmente, far pensare ad un inno all’amore, ma la riflessione si amplia continuando a leggere fino a toccare punte elevate e, spesso, inaspettate. La prima sezione sembra ribadire con forza (l’esclamazione fa rimanere senza fiato) che “L’amore c’è!”. E con fare a tratti stilnovistico viene decantata la bellezza della donna amata attraverso immagini della natura che coinvolgono il poeta in una candida ispirazione. “…e sentirò/ la nostalgia degli occhi tuoi,/ ove si mira il cielo/ che sempre m’ha coperto/ coll’ampio suo mantello/ fin da bambino;/ ed ove alloggia/ la tenerezza della madre terra….ed ove regna/ la calma dell’oceano alla sera/ schiarato dalla luna.”. Ed ancora l’esaltazione della donna che “…sola puoi donare/ il grembo a un bimbo,/ che non ha spazio,/ che gravido è il mondo d’altro,/ di melma ingordo e sazio.” L’immagine del sorriso simile alla vocina di un bambino, “il silenzio di Dio/ che parla e sorride/ a chi nel cuore/ rimane bambino” ed infine “Tu/ il pretto sorriso/ che un giorno ho trovato,/ stanco,/ nel raro campo/ che genera affetti”. La seconda sezione recupera l’interrogativo iniziale ed il dubbio “L’amore c’è?”…i toni si fanno più inquieti ed i versi si vestono di dolore. Negli “occhi scuri e profondi” della sua donna il poeta ravvisa dei tratti di mistero e nel cuore che “vuole amare” del profondo dolore. Ancora richiesta di amore ne “Ho sognato il tuo corpo” dove di fronte al sogno del corpo della donna vestito di nero, il poeta sente di avere “l’animo spento,/ le membra inondate tra l’acque malsane,/ e nulla potevo fare;/ sono riuscito solo a gridare:/ di andare altrove/ a cercare amore”. E nel tentativo di ricordare “ch’ebbrezza è la vita” ritorna la consapevolezza che “il mare è solo uno specchio,/ ed io son lontano, seduto/ su la panca di legno/ che mi fa compagna/ in questo caldo ricordo/ di nostalgia”. Tutto sembra aver fine… un giorno sereno, un amore simile a quello che tiene unito un bambino alla madre e così si chiude questo momento di ricerca interiore. Ed ecco una nuova conferma “C’è altro amore!” che intitola la sezione seguente nella quale il poeta si richiama all’antico: “Destati, vate,/ invoca la Musa,/ tua madre,/ accorda l’arpa/ o la lira/ e fai melodia:/ canta la vita,/ tutta la vita,/ l’amore nella vita.” Cambia, mi sembra, il tono di questi nuovi versi che intendono cantare di un “amore più trasparente, universale, amico,/ che la mano tende/ al prossimo e al nemico,/ a chi sale e a chi scende,/ a chi soffre e a chi ride,/ a chi vive e a chi muore.” Sono poesie permeate dal ricordo che torna a far compagnia tanto nell’età infantile quanto in quella senile e gli elementi naturali – il vento, la luna…- si uniscono a questo cantare soave. Inni all’amore per i figli, a quello per la mamma ed in genere all’amore per la vita in ogni suo aspetto. E quando tutto sembra assecondare il pensiero innalzato da un’esistenza fatta di amore, il poeta torna a meditare ed un nuovo sgomento riporta il dubbio nella quarta (ed in seguito nell’ultima) sezione. ”C’è altro amore?” assume così valenza di incertezza esistenziale e, mentre la città tace, la canzone del poeta coglie il dolore “e nelle zone/ profonde del cuore/ l’assorbe”. La vecchiaia “oggi non ha più casa né capanna;/ al posto del sorriso/ mostra beffardo un ghigno./ Dondola traballante nel giardino/ d’una casa di cura,/ sua stabile dimora./ Nutrita e rispettata come cosa!/ Se vuole raccontare la memoria,/ nessuno più l’ascolta.”. Dal rosso del mare la poesia giunge al buio più nero e la chiusura di questa sezione racchiude l’amara consapevolezza che “Son deserti d’amore,/ o di uomini soli,/ le nostre città e i paesi,/ dove crescono fiori/ senza profumo e colori” e ancora “Siamo già tutti morti,/ o ciechi, con gli occhi aperti;/ e più non cerchiamo/ il grande tesoro/ ch’ognuno ha nascosto/ nel fondo del cuore”. Ma allora… “Dov’è fuggito l’amore?”. Non è con la delusione cosciente che tutto è perduto che questo delicato viaggio poetico ha termine, ma con la speranza di un tesoro che si cela in fondo al nostro cuore. L’amore esiste…è una farfalla che un bimbo prova a prendere, è addormentato dentro un sogno difficile da afferrare, è sommerso “nel pantano del cuore”. Ed il poeta fa un invito all’uomo che riesce ad incontrare nuove emozioni assaporando l’amore: “accendi la luce/ e una riga ai miei versi/ aggiungi anche tu.” Sembra quasi che questa poesia di vita sia ancora tutta da scrivere e che proprio le piccole sensazioni la arricchiscano ad ogni attimo. Attraverso questa intima fiducia viene ribadito che “Tutta la vita,/…è amica mia/ dall’alba a sera”, “Anche il mondo/ mi è amico/ ch’è uscito bello/ dal creato”, “Viaggia, poi, con me una dea,/ la poesia,/ anch’essa amica mia” ed infine “Ultimo e primo/ amico è Dio,/ mio compagno, da bambino:/ con Lui ho pianto e riso;/ e continuo il mio cammino/ verso l’infinito.” La presenza di Dio accompagna con costanza il poeta in questa ricerca di piccoli gesti, sguardi o semplici parole che portano la sua (e nostra) umanità a sentirsi completa. Si tratta di un volo leggero che permette però di prendere coscienza di quanto sia pesante la terra che calpestiamo o il cielo che spesso osserviamo con occhi assenti e distratti. Eppure la scintilla è lì davanti a noi e, cogliendola, tutto potrebbe divenire lieve e bello. La felicità è nelle nostre mani… perché non aprirle e guardare quanto di bello vi è racchiuso?
Id: 656 Data: 18/01/2013 12:00:00
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Alessandro Vetuli - Poesia - Fermenti Editrice
Come la pietra e il vento
Ruvido come la pietra e leggero come un alito di vento. Così mi appare il verso del poeta Vetuli. Un percorso tinto di immagini dure, reali, profonde ma con un velo di sacralità e quasi religiosità che dona all’insieme della raccolta una suggestiva saggezza cercata e spesso raggiunta. All’alba di “Come la pietra e il vento” un bambino nell’orfanotrofio della poesia sorride al poeta e pare lo guidi come una Musa nel cammino alla ricerca di verità e consapevolezze note in parte ma ancora da ricercare con piena coscienza. Tutto si svolge in modo quasi quotidiano, sono singoli atteggiamenti o gesti che inducono a riflettere su quello che l’esistenza rappresenta. La figura del “Pagliaccio stanco” quando il poeta recita “Noi tentavamo ancora di ridere,/ fino a quando le mandibole divennero immobili/ trattenute come da un bavaglio di fil di ferro/che impediva ai raggi del sole/di schiudersi sui nostri visi”. Sono immagini disfatte, a metà tra la tristezza e l’inquietudine, quelle che vengono incontro mano mano che questa poesia si dischiude. Tanto gli esseri umani quanto la natura si vestono di toni ruvidi, in una continua conoscenza di sé e del mondo. “Il mare”, simbolo molto presente di questa natura, “rigurgita le sue lingue saline/ stanco ormai di parlare./ Depositi le tue sillabe secche/ ai miei piedi/ come se volessi donarmi qualcosa/ ed io non comprendo./ Le alghe però,/ sono pur sempre dita avvizzite/ di chi mi ha amato dal fondo.” Ed ancora è il poeta stesso che rivela ciò che lo ispira nella sua ricerca “Se c’è un amore che desidero/ è quello della pietra./ L’inguine di scogli/ con la sua cavità genitale, il corpo robusto del nulla.” Attraverso “queste poesie” che “ricordano e non dimenticano/ perché la loro pelle è scavata nelle rughe ortografiche” si dipana la profonda riflessione sulla poesia, sull’uomo, sull’asceta. Molti versi, infatti, permettono al poeta di avvicinarsi agli eremiti, ai frati, al “monolitico materasso del dogma” di San Francesco in una contemplazione e devozione di sapore mistico. Nel “Saio di San Francesco”, nel quale “la povertà ti fece un grande buco nel saio/ all’altezza del cuore”, il poeta quasi si pone ad ascoltare… e meditare. Così molti versi vengono dedicati a personaggi come David Maria Turoldo frate, poeta, viandante, o a poetesse unite tutte da una fine violenta e volontaria della loro esistenza come Sylvia Plath, Amelia Rosselli o Antonia Pozzi. Ancora in “Corpo di poesia” una suggestiva dedica ad Alda Merini “goffo angelo in pigiama/viandante zoppo/ che ti sostieni col bastone della poesia”…”E’ arrivato il momento,/ devi ridare indietro ciò che ti è stato dato/ e ciò che hai scritto./ Gesù s’inginocchia/ e dolcemente ti chiede questo/ come unico pegno d’amore”. Tutti poeti, questi, che ora soffiano come venti e sopravvivono nelle pietre facendo dono al mondo del loro operato, del loro verso immortale. Allora il poeta Vetuli si lascia andare ad una visione dei poeti simili ad “un tavolo vuoto/ o un prato sconfinato/ su cui le pietre sembrano pane/ e riescono a spezzare la pietra,/ che produce lo stesso rumore/ del pane quando viene spezzato.” Hanno grande forza i versi dei poeti, ma tutto sembra non riconoscerlo o meglio accorgersene solo tardi. Nella sezione finale della raccolta, “Frammenti per Arthur Rimbaud”, un che di commovente accompagna la lettura di queste piccole composizioni in onore del poeta maledetto. Vetuli racconta di lui, lo fa con ossequio dipinto da crudo realismo per concludere con versi appassionati “E quando chiuderai gli occhi/ io ti rivedrò ancora,/ come quando scrivo, come quando amo/ come quando soffro./ Danzare come un derviscio splendente/ su uno specchio infinito di sole e di acqua/ e schiuderti come un frutto di luce/ che non potrà mai più cadere dall’albero.”. Trasformazione, capovolgimenti, scompensi e poi risalite. Tutto questo riesco a cogliere nei versi di Alessandro Vetuli che ho di fronte e che stimolano una rilettura continua. Nei momenti più disperati la migliore poesia è addirittura il silenzio, “Solo quando le pagine del libro saranno bianche/ potremo finalmente imparare a leggere”. Ma tutto è in continua evoluzione, dalla solidità di una pietra al soffio di un vento che plasma e fa mutare il reale ed il non reale. Una profonda ricerca di sé come poeta, come essere umano attraverso percorsi intrisi di dolori, dubbi, certezze non bene identificabili; un viaggio nelle sensazioni vissute/perdute per trovare, io credo, un nuovo slancio vitale per mezzo della poesia.
Id: 609 Data: 10/08/2012 12:00:00
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Marco Gabrielli - Saggio - Aletti Editore
Volontà di potenza
Ho raccolto pensieri, ho proposto alla mia mente ragionamenti privi di condizionamenti ed ho messo sulla carta le parole ritenute più idonee ad un discernimento coerente. Il saggio di Marco Gabrielli, che ho davanti agli occhi, stimola la mente ed invita alla riflessione. La complessità di alcuni passaggi mi fa dichiarare sin da ora l’ausilio costante che questa opera mi ha fornito nel tentativo di leggere e comprendere. Il rischio evidente è quello di recensire non tanto il saggio di Gabrielli quanto il filosofo Nietzsche al punto da riscrivere un “saggio del saggio”. Resta il fatto che, passate in rassegna varie modalità di analisi, trovo coerente ripercorrere le tappe di questo ragionamento tentando di trovare una chiave interpretativa il più possibile corretta. Nella prefazione l’autore dice di voler mantenere nel suo scritto una visione cinica della realtà, ossia imparziale, senza tener conto delle consuetudini con cui a volte vengono considerate delle situazioni. Il pensiero di Nietzsche diviene, così, il punto di partenza per sfruttare quasi tutte le contraddizioni ed i punti concordanti e proporre alla fine un buon ritratto dell’idea di Volontà di potenza. La Volontà di potenza è l’energia vitale. L’energia è attività e, in una concezione più ampia, è l’incessante divenire dell’universo. A sua volta questo movimento infinito è privo di senso e, come dice Gabrielli, vuoto. Ma l’essere vivente non può credere di esistere senza che ci sia un senso e, visto che ha la certezza di questo senso, pensa alla verità. L’energia vitale, per trovare un legame con questo senso dell’esistenza, diviene il carattere della vita. La Volontà di potenza è il carattere della vita. Il carattere si delinea come un’impronta immutabile che la Natura ha impresso in noi. Per Schopenhauer, ad esempio, nella Natura convivono il principio dell’individuazione (identità di ognuno) ed il principio di omogeneità (una forma unica dal molteplice esteriore) da cui si può attingere la verità del mondo. È questa verità che attribuisce un senso ad ogni nostra azione. In un’ulteriore disamina della Volontà di potenza, Joseph P. Stern afferma che La volontà di potenza può essere pensata come il principio per il quale un centro di potere si espande, si afferma su un altro e se ne appropria. Il diverso che viene soggiogato e “sconfitto”, nel momento in cui viene incorporato, diventa l’identico. La Volontà di potenza è, in una concezione più assoluta, la forma originaria e primordiale della realtà da cui scaturisce la vita ed ogni comportamento individuale. E può ancora definirsi, la Volontà di potenza, una spinta intrinseca all’ente che è volta verso l’esterno e che dall’esterno prende energia riflessa per divenire più forte all’interno. Nel confronto tra il pensiero di Nietzsche e quello di Schopenhauer, l’autore si sofferma sulla concezione di quest’ultimo nel ritenere la Volontà di vivere come qualcosa che non ha una sua peculiarità da imprimere all’uomo; viene eguagliata alla vita, che a sua volta è intesa come Male (visione nichilista). Il carattere è l’estrinsecazione della nostra energia interna; la somma di energie interne/esterne non è altro che la Volontà di potenza. Nichilismo è Volontà del nulla, la realtà è malata, la volontà di potenza che è carattere della vita ne rimane debilitato. Ci si può difendere con la Morale. La Volontà di potenza, che è parte integrante di ogni manifestazione della vita, lo è anche della vita morale. Il nichilismo trova diffusione attraverso la religione cristiana che si pone dalla parte dei miserabili ed ha un suo aspetto fondamentale nell’idea della compassione. Ma quando si compatisce qualcuno o qualsiasi condizione si perde forza ed energia vitale. Tra il Cristianesimo ed il Buddismo Nietzsche predilige il secondo, poiché non provoca il sentimento del rancore. Il nichilismo, d’altra parte, può rivelarsi stimolante per l’energia vitale e può divenire divino nel momento in cui nega un mondo vero. È allora che l’unico modo di pensare che rimane è quello divino. Si parla, così, di nichilismo divino. Nietzsche tratta, poi, dell’origine della vita che trova la sua dimora all’interno del nostro corpo. La Volontà di potenza è il carattere intelligibile/intrinseco del mondo che si trova proprio dentro noi stessi. Ma i degenerati rigettano la loro corporeità e, attraverso la morale, si estraniano dal proprio corpo e coltivano la speranza di una vita aldilà. Così trascurano il loro corpo privilegiando l’anima. Cartesio delineò una netta separazione tra anima e corpo, questo considerato come oggetto ovvero come una materia amorfa che recepisce solo le conoscenze dell’anima in quanto soggetto. Nietzsche non concorda con questa separazione, visto che secondo lui coscienza e corpo coincidono nella parola Io. Questo principio d’identità è il corpo, questo principio di auto-affermazione è la Volontà di potenza. Secondo tale principio, il corpo è un insieme di micro-esseri che subiscono l’influsso delle determinazioni ambientali e che, per far sopravvivere l’organismo che li ospita, si danno una legge comune da rispettare. Ma questa idea di auto-affermazione non si ferma solo all’interno del corpo; si rivolge alla realtà esterna per impadronirsene proprio come la Volontà di potenza. L’esempio riportato nel saggio è quello degli eroi classici talmente legati all’idea del corpo da renderlo immortale attraverso il ricordo perpetuato dai cantori. Così la vita viene innalzata da uno scopo e da precise intenzioni. La Volontà di potenza diviene divina. La divinizzazione della Volontà di potenza ha una sua prima forma nell’idea di Dio e di popolo. I popoli antichi avevano bisogno di un Dio da ringraziare e da temere, un Dio che fosse amico e, nel contempo, nemico. Con l’andare del tempo, poi, si è affermata l’idea cristiana del Dio assolutamente buono, del Dio dei deboli, dell’idea di amare il proprio nemico. In questo modo è andata perduta la forza esuberante di cui si nutriva la Volontà di potenza. Dalla morale eroica della gloria si è passati ad un’idea di decadenza, di compassione, di una morale nichilista. Questo Dio viene interiorizzato, perde il suo senso, nega la Volontà di potenza, nega la sua stessa esistenza. Con l’affermare che Dio è morto! Nietzsche richiama questo nichilismo divino che porta l’uomo a divenire l’artefice del proprio destino. Ma chi è tanto forte da sopportare questa condizione dell’animo? Probabilmente un superuomo. Per superare l’ultimo uomo, misera trasfigurazione della Volontà di potenza, secondo Nietzsche dovremmo divenire noi stessi delle divinità e, per fare questo, occorre prestare una fede assoluta nel corpo. Si divinizza, così, il corpo e si interiorizza la divinità. Solo il superuomo è in grado di agire in questo modo poiché sente dentro di sé la Volontà di potenza e riesce a trasferirla nella realtà politica e sociale. “Amo quelli che non sanno vivere che per sparire, poiché son coloro appunto che vanno aldilà” afferma Nietzsche in Così parlò Zarathustra. Il superuomo ha un suo strumento nella memoria organica, quella memoria che resta impressa nell’inconscio e che la Volontà di potenza assimila a sé. E sempre il superuomo è l’unico in grado di assumere su di sé il peso di questa Volontà e di sopportare il continuo ripetersi di ogni attimo. Ecco allora l’idea dell’eterno ritorno che è utile per porre fine alla speranza. Già i Greci consideravano la speranza come il peggiore di tutti i mali, poiché a nulla serviva lo sperare in qualsiasi forma di salvezza mondana o ultra-mondana. Secondo l’idea dell’eterno ritorno non esiste un tempo ed un essere, ma esiste un tutt’uno. E dal momento che ogni divenire porta con sé il dolore, il superuomo cerca questo dolore per superarlo e dominare così l’esistenza. L’eterno ritorno consiste nel movimento circolare di assimilazioni che attraverso la memoria organica porta la Volontà di potenza a divenire vita in sé e per sé. In questo moto i ricordi riemergono divenendo impaccio perché portano con sé il rimorso. Il ricordo si tramuta in fato che è la conseguenza delle nostre azioni e della nostra Volontà. Il fato e la Volontà generano il destino di ognuno. Chi aspira a divenire di più vuole superare la soglia del tempo con la Volontà. La Volontà di potenza si esplica appieno attraverso l’eternizzazione della vita individuale. Il fondamento fisico dell’eterno ritorno è la sacralizzazione della sessualità, tematica che Nietzsche affronta considerando il rapporto tra il Dio del piacere, Dioniso, ed il Dio del dolore, Cristo. Ma non potendo in questa sede approfondire tematiche ancora più complesse vorrei concludere con l’idea dell’uomo che, per sopravvivere in questo mondo falso e crudele, utilizza come principale mezzo la menzogna. Egli stesso diviene un mentitore, un artista. L’arte è la grande seduttrice della vita, il grande stimolante per vivere…Ed occorre un’originale forma di menzogna, l’idealizzazione dell’istinto, per abbattere il nichilismo. Un sentimento anti-nichilista ha origine da un desiderio e questo riesce ad emergere tramite la fantasia. La fantasia stimola la volontà umana ed aiuta il progresso dell’umanità. Mi chiedo ora se questa serie di riflessioni argomentate in modo più o meno filosofico sia risultata troppo laboriosa, ma l’interesse precipuo era quello di arrivare ad una comprensione dell’idea di Volontà di potenza. E mi sembra che Gabrielli riesca bene nell’intento percorrendo in modo serio e coerente il pensiero di Nietzsche ed aprendo, altresì, ampi spazi per nuove e più attuali considerazioni.
Id: 587 Data: 22/05/2012 12:00:00
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Maria Squeglia - Poesia - Genesi Editrice
La barca di piume
(Un viaggio d'amore e altre poesie)
L’idea del leggero, dell’inconsistente. Sono le piume di cui è fatta questa barca su cui salgo e mi lascio trasportare. La marea è piena e profonda. Il soffio del vento è presente. Sono sogni fatti di aliti sottili che prendono per mano emozioni reali. Così mi coinvolge questo viaggio di amore. Trovo infatti un filo meravigliosamente ispirato in questa raccolta della poetessa Maria Squeglia, parole che toccano i sensi di chi vi si accosta. Un’apertura che sa di vivo proposito: “questo racconto d’amore, mio amato/è l’impegno costante del cuore/che, nel respiro intenso/del tempo, conserva/e difende il suo sogno”. La delicatezza nei toni abbraccia spesso visioni carnali del sentimento amoroso creando con l’ambiente naturale un legame profondo. “Queste corolle che tessono/abbracci di luce/sul tuo corpo di bronzo chiaro”. Cielo e terra si confondono come a fare da spettatori a questo sogno fantastico che si realizza semplicemente, con una tale spontaneità che lascia estasiati. “Fioriva quella domenica di giugno/le sue rose perfette/e l’acqua del lago intrecciava/esili gigli di nuvole…si stava, le tue labbra dentro/il mio respiro”. Ma l’amore seppure al suo apice non può mai dirsi perfetto e pienamente compiuto. È un sentimento in continua evoluzione, è “plasmato nella sabbia/in pieno divenire/a forme sempre nuove”, non costretto in tipologie troppo compiute perché la vita lo cambia di continuo. Come se quelle forme recassero con sé la speranza di un amore non solo sempre nuovo ma anche eterno. “Su questo amore imperfetto/non è sceso mai il finito/della perfezione”. Forse proprio la perfezione, come raggiungimento di uno stato immobile, segna la fine dell’evoluzione di ogni materia reale e di ogni essenza spirituale. È il tempo che scandisce i momenti di questa riflessione cullata dalle onde tra sogno e realtà. “Ti dico/ questo fiume che/ corre è il canto/ di ogni benedetto giorno/ quando invecchia l’ora/ e ci guardiamo/ con il sortilegio/ che ci fa invisibili/ ed eterni”. Il sortilegio d’amore che dona, a chi lo sfiora, l’eternità, rende il trascorrere delle ore puro contorno all’abbraccio della passione. La magia di un amore indissolubile ed eterno trova espressione nel componimento dedicato alle figure mitologiche di Filemone e Bauci che conferisce, mi pare, un alone come di antico all’intera raccolta: “Nel mosaico del bosco/ vivono in vista/ di eterni cieli/ anime antiche/ alla terra legate/ dalla terra deste/ nello stormire/ delle alte fronde,/ in una immortale/ mutazione d’amore”. Direi che si snoda delicatamente e nello stesso tempo con solida concretezza tanto l’idea di un amore mai uguale ed in continua evoluzione quanto quella di un tempo eterno che tiene uniti i due amanti come un unico tronco dello stesso albero... anima unica della stessa esistenza. Il mare sul quale la poetessa Squeglia ci conduce si fa più denso e tortuoso nella seconda sezione della raccolta dedicata a tematiche differenti, tutte trattate con una concreta profondità. Ne “L’amicizia” si dice ”Se dal fondo sale il vuoto/ sulla fronte, il tuo fiato/ si fa ponte sul vuoto/ si fa velo sul petto/ la tua voce vera”, esprimendo così, attraverso molteplici figure retoriche, l’importanza nel godere di un sostegno che ci renda più sopportabili tanti dolori. E la lettura si allarga a parole di dolore, di guerra, di vita semplicemente, sempre contando su una natura complice di tutte le esperienze sensibili o irreali. L’impressione che ancora ne viene è di una poetica che pur accostandosi ad aspetti complessi non ne rimane mai coinvolta o costretta da filamenti troppo asfissianti. Così, a volte, ne emerge un soffio leggero, una speranza …“Vado, fra le stelle cadute/ perché al principio/ nulla c’era./ Vado, perché principio/ è questa notte,/ domani ci saranno ancora passi.” E questo domani trova un ulteriore appiglio ne “L’ombra abbandona il viale” quando i versi recitano “Sono ali, certo, sono ali,/ questa lucentezza,/ sulle ferite il Sole/ radica piume di luce” come a donare un segno tangibile di calore e di compassione. E quasi la speranza che, alla fine di tutto il vissuto doloroso o benigno, sulle nostre palpebre simili ad un campo arato possa sopraggiungere “un fringuello…a beccare qualche chicco rimasto, / e sarà festa.”. Nel finale, viaggiando sul mare ondoso delle emozioni, di nuovo l’idea della nave, ora nera di ruggine e stracci, per dedicare versi commoventi alla sorella perduta. La natura si presta nuovamente a sostenere metafore ricche di pietas… “Sei nella briciola d’erba/ che indica il pane/ spezzato insieme./ Sei la foglia nuova che mi sfiora,/ la speranza di rinascita/ nel mistero che mi congiunge/ all’estrema tua esistenza,/ alla tua non-morte”. Ed ancora una piuma, questa volta bianca come un albatro annegato, a simboleggiare la mano abbandonata della sorella Pina nel momento in cui il suo destino si compie. La barca di piume prosegue il suo cammino leggera e possente su flutti che narrano storie d’amore, di sogni e di poesia.
Id: 559 Data: 27/03/2012 12:00:00
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Antonio Piscitelli - Romanzo - Alfredo Guida Editore
Come le fate
Le cose accadono perché devono accadere. Ma poi la mera casualità lascia il posto a segnali, suggestioni che ci guidano verso scelte ben determinate come quelle di Valerio, l’io narrante e l’artefice della profonda riflessione esistenziale che si snoda nelle pagine di questo volume di Antonio Piscitelli. È l’intero racconto di un’esistenza quello che si dipana sul letto di morte di Angelo. La vita del suo amico, Valerio, dall’infanzia in orfanotrofio alla fortunata accoglienza in una famiglia adottiva benestante. L’incontro con un fratello speciale e l’instaurarsi con lui di un legame totalizzante a dir poco materno. E poi l’adolescenza con i suoi impulsi disperati, l’amore per una donna vissuto attraverso i toni del dramma, la morte che scatena riflessioni e fa pensare… Pensieri. È strano l’effetto che la storia di Valerio ha sortito su di me. Una serie di vicende dure, difficili da leggere e quindi da condividere. Sì perché una volta che ci si addentra nella lettura di questa storia non si riesce a rimanere lucidi ed obiettivi. Ci si lascia coinvolgere sin dalle prime battute dai sentimenti del Valerio bambino che si pone interrogativi sulla vita e poi ancora dal ragazzo retto e studioso che cova emozioni contrastanti ed infine dall’uomo che gioisce e soffre e si rende protagonista consapevole di episodi drammatici. Un’infanzia trascorsa in maniera tranquilla tra le mura ovattate di una casa borghese seppure con l’alone sempre vivo di una presenza, quella della sorella Lisa, lontana perché ribelle nei confronti di quel mondo; il legame viscerale con il fratello Sepe che assume quasi i toni di un abuso vissuto attraverso i sentimenti di un bambino complice e vittima allo stesso tempo. Non pochi sconvolgimenti ha creato in me la crudezza con cui Valerio descrive gli atti sessuali accanto al fratellastro, ma solo la contestualizzazione in una prospettiva più ampia di crescita mi ha consentito di comprendere fino in fondo questo legame. D’altra parte il bambino Valerio non ha conosciuto mai i veri genitori, le persone che lo adottano sono sempre descritte con toni discreti per un affetto presente ma poco esternato. Ed allora ecco Sepe, mite e compassionevole, fratello con cui il piccolo orfano instaura sin da subito un legame forte e verso il quale si rende bisognoso di affetto inteso nel suo senso totale… mentale ma soprattutto fisico. Con questo approccio sono riuscita a comprendere degli atteggiamenti che lasciano profondamente turbati in una visuale più ampia di quello che siamo e dei bisogni che nutriamo nei confronti degli altri e prima di tutto di noi stessi. E poi arriva, negli anni dell’adolescenza, l’incontro con la misteriosa sorella Lisa. Sin da subito Valerio vive una passione travolgente che lo accompagna durante la giovinezza nonostante la lontananza e le rade circostanze di stare insieme. Lisa è davvero una fata, secondo lui, sia nell’aspetto esteriore sia negli atteggiamenti così coinvolgenti ed affettuosi. Ma il sentimento prepotente di Valerio diviene talmente ingestibile ad un certo punto che lo porta a rendersi colpevole di una violenza verso Lisa che avrà poi un finale doloroso. Ed infine la morte, che fa da sfondo all’esistenza di quest’uomo, che segna per lui l’inizio di un percorso (forse già con la mancanza dei genitori), lo tocca con la perdita della donna amata ed infine lo porta ad affrontare questa grande riflessione proprio di fronte all’amico Angelo che sta esalando il suo ultimo respiro. È l’amicizia profonda con lui, ritrovato dopo sedici anni di lontananza grazie al ricordo delle fette di limone zuccherate dell’orfanotrofio, che aiuta Valerio ad affrontare questo intimo esame di coscienza. E così si dispiega l’esistenza di Valerio che, seduto al capezzale di Angelo morente, rievoca tutto il suo vissuto, i suoi dolori e le sue colpe. Una di queste è l’aver lasciato che l’amico scegliesse di andarsene così, senza chiedere aiuto e senza accettare una cura qualsiasi. Sembra paradossale la vita di Angelo così pazza, un carattere irrefrenabile ed eccitante che nulla teme e che grida al mondo la sua voglia di vivere. Una libertà estrema che lo porta fino alla fine a decidere da solo di morire. E Valerio questo non riesce ad accettarlo. Come in passato non è riuscito a cambiare la sorte del suo rapporto con Lisa, che, spezzato da quell’atto così violento, ha visto la sua fine con la morte della ragazza malata (ed innamorata a sua volta tanto da non lasciarsi mai coinvolgere con il fratello acquisito). Dicevo di un effetto particolare di questo volume. Duro alla lettura, sì. Ma poi, giunti alla fine della storia, il coinvolgimento è totale ed avvolgente. Oramai il legame con Valerio non solo esiste ma è forte, i suoi occhi che guardano e considerano la vita sono i miei, le sue emozioni mi toccano. Sento quasi i suoi sensi di colpa simili a quelli degli eroi Sofoclei. E le sue donne, un tempo considerate delle fate eteree ed innocenti ora creature foriere di drammi che lo conducono verso lidi insidiosi… quella terra di sirene da cui nessuno, a meno che non sia un ben schermito Ulisse, fa ritorno. Ed io non sono Ulisse, confessa Valerio. È il racconto di una crescita, una salita di emozioni e sensazioni fino ad arrivare all’apice di tutto, alla consapevolezza della vita e della morte. Sembra un cerchio che si chiude e tutto nasconde dentro un involucro duro. Ma questa non è la fine. C’è uno spiraglio nelle ultime righe, un nuovo incontro che prelude ad una rinascita, ad una crepa in quell’involucro. E la volontà di Valerio ad aprirsi, conoscere, cambiare. Il fatto più eclatante, alla fine della storia, è che questa piccola speranza arriva da una piccola persona, una bimbetta che come una nuova vita ti corre incontro e ti abbraccia all’improvviso. Sembra quasi voglia dire Ho scelto te.
Id: 550 Data: 13/03/2012 12:00:00
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Roberto Biagiotti - BraniMusicali - Etichetta indipendente a.R.O.M.A.
Fra te e me
Sensazione di un regalo atteso e nello stesso tempo improvviso. Cartone lucido, un doppio. Volti, figure, forse un mare che separa me da te. Ma quella bussola che quasi traspare – magari non sempre occorre… basta lasciar andare se stessi – mi spinge ad intraprendere questo percorso. E allora apro. Un’impronta come di un antico manoscritto. Mi rammenta qualcosa di classico quasi sciupato dall’uso quando poi i caratteri rimandano a tecnologie robotiche. Lo tengo in mano e poi… ascolto. Atmosfere sottili, melodie che viaggiano in un’aria leggera, mi viene in mente lo stupore nel guardare le cose come per la prima volta. Sembra di vedere l’Amelie di Jean-Pierre Jeunet quando nel suo Favoloso Mondo descrive quale piccolo piacere le procuri il tuffare la mano in un sacco di legumi o il rompere con la punta di un cucchiaino la crosta del creme brulèe. Il filo di tutte queste note accostate diviene ben presto visibile; una musica che si ispira alla vita e che ad essa si confronta con passione, ardore, calore. Tante le situazioni, tanti i momenti. L’adolescenza grintosa e ribelle in Non dire non fare, dove il megafono-genitore sputa precetti ed elogi ad un figlio che non intende omologare se stesso agli altri o rispettare regole preconfezionate. Note di un rock ruvido in Ciao prof sembrano ancora parlare di animi in continuo tormento. Nonostante la voce parlante sia quella dell’allievo irriverente, è il professore, in verità, che si immedesima e prova… prova emozioni. E cerca, secondo me, di capire. Lo fa quasi ripercorrendo la sua di adolescenza e giovinezza quando anche lui avrebbe avuto voglia di fare una cazzata gratis per vedere come è andata. Lo fa ancora cercando di formare opinioni diverse da quello che passano i media, falsi maestri delle menti dei giovani. Serpeggia in ognuno di questi brani un desiderio sfrenato di libertà, un istinto spesso sopito dai ruoli che il mondo ci assegna con diligenza. E poi già una fase successiva in cui ci si rende autonomi con quattro soldi in tasca; Sostanzialmente si concretizza nell’invito/monito che fa da ritornello Scappa via ragazzo da una porta di servizio… da chi crede che il tuo esser unico abbia un prezzo, immagine preziosa nel messaggio che trasmette… ricercare se stessi senza far pianificare da nessuno la propria esistenza, fare progetti e trovare il cammino che fa per noi. E poi l’amore per una donna… tramite connessioni notturne… il collegamento sottile tra segni di per sé distanti… la musica e il gelato… il gioco ed il reato… l’amore e l’insalata… l’importante è che tu stia davanti a me… il ricordo di un bel momento passato insieme anche quando sarai lontana. Torna ancora l’idea di un viaggio… ecco allora come sfruttare quella bussola in copertina! Sono i ritmi caraibici di Passata la tempesta a descrivere il viaggio della vita, attenti a non naufragare, sempre ad oscillare, metafora di una fatica costante che ci fa affrontare le tempeste e ci rende però soddisfatti di guardare un cielo stellato. Sono loro, le stelle, a guidarci e le vele del nostro battello simili ai sogni… bisogna interpretarne i segni… è una melodia che ha un qualcosa di poetico, come di romantico e leggero. Sembra un oscillare dolce ma vigoroso nel mare tempestoso dell’esistenza. E allora il consiglio spesso è quello di lasciare la pioggia cadere battendo un ritmo di vita per nulla temendo… Mi piace descrivere la sensazione che ho avuto ascoltando questo album tanto intricato al primo ascolto quanto manifesto una volta che ha svelato il suo senso profondo. Il filo che ho trovato all’inizio, la vita, si irradia per mostrare volti diversi e aspetti particolari. Attraverso l’idea del viaggio, del cammino verso l’altro – forse solo un’altra faccia di me – viene ribadito il concetto di rischiare tutto nella vita, sul treno/vita che non si sa mai c’è chi sceglie di scendere alla fermata del compromesso e di una buona posizione e chi sceglie di proseguire, di non arrendersi accettando scelte semplici alla facile portata, di credere nei sogni facendo del coraggio la propria pensione. E l’idea del rischio viene ribadito nella melodiosa Però quando qualche frase ripercorre tutta una vita… si sa quali sono le regole che spesso ci costringono in abiti troppo stretti però se non corri rischi e poi cadi giù che vita è… ? E la conclusione si intravede nel brano finale che chiude e quasi raccoglie tutte quelle sensazioni scaturite da queste musiche. È davvero una riflessione tra sé… C’è un tempo per parlare un tempo per ascoltare… un tempo per le fate… un tempo… per dire al mondo guarda che esisto. È davvero così, tante circostanze ci portano ad affrontare momenti tra loro differenti e tutti pregni di emozione; il tempo ci fa da compagno in questi vissuti e, con una immagine, sembra sciogliere le vesti della nostra vita che man mano si denuda fino a lasciarci dinanzi agli altri così come siamo davvero. Quanti pensieri allora, quante emozioni filtrate da note spesso melodiose altre volte “aggressive”! Ma al termine dell’ascolto e quindi del viaggio dentro me stessa con uno sguardo al mondo lì fuori – direi fra te e me – cosa rimane? La voglia di vivere, tremare e amare, rischiare tutto pur di essere sinceri e trovare la felicità. E allora un grazie al musico/poeta ispiratore di questo viaggio.
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Titoli dei brani musicali:
Sostanzialmente Passata la tempesta Tutto collegato Non pensi che Lascia C.A.R. a Salerno Non dire non fare Ciao Prof Però Un treno che non si sa mai Stasera do una festa Un tempo
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Ascolta alcuni estratti dai brani musicali...
Fra te e me su facebook...
Ulteriori informazioni su: www.robertobiagiotti.com
Id: 517 Data: 27/04/2012 12:00:00
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