Pubblicato il 09/01/2017 12:48:39
Elegante, nella mia maschera di vetro cammino fra volti di carne e sangue che non distinguo nella mia incessante fretta, il mio tempo non può essere mica sprecato, la mia “etica”, preconfezionata e demodé, non può mica abbassarsi a considerare semplici persone questi surrogati dell’umanità! Preferisco avvolgermi in sciarpe scarlatte e strozzarmi nell’aria di Aprile piuttosto che rivolgere la parola a uno di loro, a uno di questi sgorbi senza dignità. Tale maschera tuttavia è troppo fragile, fievole in mezzo a questo effluvio di retorica, codici, di “leggi non-scritte” che mi tengono a debita distanza dalle sagome di mestizia rintracciabili in ogni dove. Sagome di mestizia perché verso loro avverto la stessa sensazione che proverei davanti a un “musulmano” di Auschwitz, la stessa sensazione che proverei davanti la pietra cieca e sorda. Ho paura. Paura che mi tocchino, paura che mi guardino, che si rendano conto di come li guardo, del mio atteggiamento di fronte l’indigenza, che stringo le chiavi della macchina nella tasca sinistra e non smetto di toccarmi la tasca posteriore destra per constatare che il portafoglio ci sia ancora; mi vedete? Sono così leggiadro nel mio soprabito di indignazione e paura, se solo qualcuno mi chiedesse che effetto mi fanno costoro, non esiterei a rispondere: “indifferenza” ; eppure, da due anni a questa parte ho compreso che l’indifferenza citata non è menefreghismo, bensì un’attenzione particolare: esattamente due anni fa, l’incontro con il movimento mi fece capire che per essere indifferente ho avuto la necessità di cogliere lo sguardo di chi, di lì a poco, avrei ignorato, uno sguardo, capite? Ricordo la mia prima giornata nazionale della colletta alimentare, la prima vera occasione, grazie anche alla sincera amicizia ivi trovata, di uscire dalla mia crisalide di ipocrisia: una giornata di intensa fatica per invitare la gente ad acquistare pasta, latte, riso, non volevamo soldi ma prodotti a lunga scadenza, perché? Me lo domandavo durante l’intera giornata, perché?! Dandoci dei soldi in fondo potevamo spenderli al posto loro, acquistare altro copioso cibo e metterlo da parte, ma mi dissero che così veniva propugnata l’indifferenza della gente, che così non si sporcava nemmeno le mani o degnava di uno sguardo il volantino cui sopra era indicato il motivo di quel gesto. Potrei stupirvi con una quantità industriale di citazioni di filosofi sulla povertà, potrei farmi bello parlando del concetto di alienazione di Marx e della sua ineluttabile scadenza di fronte a tale fenomeno, potrei dirvi di come, dalla Vandea a oggi, se non prima, la gente venga massacrata e privata dei propri averi per una semplice questione ideologica, potrei parlare di Nietzsche e prendermela con qualcuno o qualcosa in particolare imbastendo un’indagine, potrei parlare di Tersite, di come, sin da Omero, l’indifferenza verso la povertà fosse consona alla società, potrei parlare di Verga, De Roberto, Capuana, Sturzo, potrei…Ma tutto ciò, tutto questo parlare, non mi ha mai colpito nel cuore; lo ha fatto lo sguardo di un barbone: se ne stava nascosto dietro un pilastro malridotto e trasandato come i “vestiti” che portava addosso, ci spiava ma non si avvicinava, per capire quell’uomo non ci voleva certo un capitolo su Marx e Feuerbach! Mi avvicinai alla coordinatrice della giornata e feci presente la situazione, al che: “ cosa aspetti? ” – mi disse – “ prendi un paio di sacchetti, riempili come meglio credi e portali a quel signore ”. Una puzza di sudiciume, tremenda, colse il mio naso non appena mi avvicinai, il mio essere neghittoso dinanzi la realtà veniva brutalmente stroncato dalle percezioni sensoriali e in un attimo protesi il sacchetto verso l’uomo, senza guardarlo: la mia maschera di vetro non era caduta del tutto. Quanti duri calli su quella mano che stringeva la mia e quanto calore, quanta profondità in quella voce che mi disse di guardarlo, si, mi chiedeva solo di guardarlo e io ero così sfacciatamente arrogante da non farlo, finché con due dita tramite il mento mi costrinse a vederlo, finché non mi costrinse a dare un giudizio alla realtà: quel giorno ho cominciato a credere, quello sguardo, ne sono certo, era lo sguardo di Cristo e lo avevo riscontrato in un uomo molto più degno di quanto lo fossi io. Aveva ragione il celeberrimo Alexander Supertramp di Krakauer: “ Cosa sono i soldi? Non sono loro o una nuova macchina a darmi la felicità! “ ; Supertramp, il soprannome perfetto per Christopher McCandless, morì in Alaska nel 1992, lasciando come ultime parole scritte nel suo diario la celebre frase “ la felicità è reale solo se condivisa ”. Chris si era reso conto che scappare da una società ipocrita non fosse la risoluzione al suo problema, condividere le proprie esigenze con qualcuno invece, forse lo sarebbe stato. Lo stato in tutto ciò sembra un bambino maldestro, ingenuo, volutamente o meno, questo ancora non l’ho chiaro, ma certamente nel modo sbagliato: dare assegni di sostegno alle famiglie numerose, indigenti, “ sotto la soglia di povertà ” aiuta davvero? Mettiamo caso che un uomo si sia impoverito dopo aver sperperato i propri averi in alcool e gioco d’azzardo sfrenato, un assegno sarebbe la soluzione alla sua povertà? No, se tale importante contributo non fosse suffragato da assistenza sociale partecipe dei bisogni dell’uomo, intrinseci e reconditi; no, se tale prezioso sostegno non fosse supportato da un controllo rigido che permetta di capire se quella famiglia è realmente indigente o sostenuta da lavori in nero che gentilmente la società ci offre. È troppo facile dispensare assegni e dare poca assistenza all’uomo, è un atteggiamento paternalistico che, Manzoni non me ne voglia, non aiuta certo significativamente! Secondo me sarebbe importante organizzare una fitta rete sociale di assistenza che parta dalle famiglie stesse e non dallo stato, una sensibilizzazione ai problemi altrui e non un’istruzione a sviluppare il proprio tornaconto. La storia ci insegna che un aiuto se non controllato affatto o controllato male non serve a nulla, ce lo insegnano le casse rurali di Sturzo finite in mano alla mafia, secoli e secoli di storia. Ho avuto la fortuna di incontrare uno sguardo, nel movimento di don Luigi Giussani, che mi ha fatto capire che alla base di un sostegno vi è un incontro, una considerazione vicendevole e non perbenismo, quello che troppe volte viene propinato dallo stato e inevitabilmente dalla società. Maggiore controllo, maggiore compartecipazione fra le due città descritte da de Vigan nel 2008, non è un’utopia, è ciò di cui necessita il nostro cuore: un incontro e nient’altro.
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