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Grade românica (Século XIII)


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Pubblicato il 31/12/2020 12:00:00

 

Fotografia di Inês Dias

 

 

GRADE ROMÂNICA (SÉCULO XIII)

 

          à memória de Jorge de Sena

          e podendo servir de abraço concreto a um outro poeta de que ambos fomos amigos

 

 

Termina mais um ano, e alguns dos poetas meus contemporâneos indignam-se por não verem os seus livros incensados nos habituais balanços literários. Espreitam-se e vigiam-se, como bons leprosos, tentando ignorar que, daqui a três ou quatro décadas, ninguém se lembrará de nós. Poucas, muito poucas, palavras permanecem. E isso em nada depende da vontade dos escritores, do favor das musas ou do arbítrio divino. O único mistério da poesia, tal como da música, é esse: a permanência, através dos séculos, de um gesto que se mantém inaugural e inconfundível. Nunca saberemos ao certo quantos contemporâneos de Villon ou de Ockeghem foram impiedosamente apagados pela História.

 

*

 

Este texto não existiria se eu não tivesse visto ontem, no claustro da Sé de Lisboa, uma grade românica do século XIII. Há oito séculos que estes pássaros não cantam, que estas cobras não deslizam pela relva húmida, que estas osgas não sobem paredes esboroadas. Ninguém sabe, aliás, que mãos lhes deram forma, que nome atribuir à beleza leve e robusta desta grade. Sabemos apenas, como diria Rui Chafes, que ali o ferro se fez vento – e que o vento chegou até nós, incólume e cantante. Estes pássaros, estas cobras, estão muito mais vivos do que nós, indiferentes a modas, balanços e ao Juízo Final. Não têm tempo, porque são o próprio tempo, traduzido em ferro por mãos feitas de nada e de ossos breves.

 

 

 

GRATA ROMANICA (SECOLO XIII)

 

          alla memoria de Jorge de Sena

          e potendo servire d’abbraccio concreto a un altro poeta di cui entrambi siamo stati amici

 

 

Termina un altro anno, e alcuni dei poeti miei contemporanei si indignano per il fatto di non vedere i loro libri incensati negli abituali bilanci letterari. Si spiano e si sorvegliano, come buoni lebbrosi, cercando di ignorare che, da qui a tre o quattro decadi, nessuno si ricorderà di noi. Poche, pochissime, parole rimangono. E questo non dipende in alcun modo dalla volontà degli scrittori, dal favore delle muse o dall’arbitrio divino. L’unico mistero della poesia, come della musica, è questo: la permanenza, attraverso i secoli, di un gesto che si mantiene inaugurale e inconfondibile. Mai sapremo con certezza quanti dei contemporanei di Villon o Ockeghem sono stati spietatamente cancellati dalla storia.

 

*

 

Questo testo non esisterebbe se non avessi visto ieri, nel chiostro della Cattedrale di Lisbona, una grata romanica del XIII secolo. È da otto secoli che questi uccelli non cantano, che questi serpenti non scivolano sull’erba bagnata, che questi gechi non salgono muri fatiscenti. Nessuno sa, inoltre, quali mani hanno dato loro forma, quale nome attribuire alla bellezza lieve e robusta di questa grata. Sappiamo solo, come direbbe Rui Chafes, che lì il ferro si è fatto vento - e che il vento è arrivato fino a noi, incolume e cantante. Questi uccelli, questi serpenti, sono molto più vivi di noi, indifferenti a mode, bilanci e al Giudizio Finale. Non hanno tempo, perché sono il tempo stesso, tradotto in ferro da mani fatte di niente e ossa brevi.

 

(traduzione di Roberto Maggiani)

 

[ da 769118, Manuel de Freitas, Averno, 2020 ]

 

Copertina (fronte/retro) di Inês Dias


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