Pubblicato il 08/04/2025 15:55:41
'Una furtiva lagrima'
Bergamo, 6 ottobre 1847
Rosa ne è certa: lui arriverà oggi. Ha sognato i suoi stivali davanti alla soglia. Due giorni fa ha dato ordine di predisporre l’appartamento al primo piano. In una stanza c’è il suo pianoforte e una bella poltrona con lo schienale alto e comodo. I tendaggi sono spessi e la luce delle finestre può essere oscurata a piacere e secondo le necessità. La bonne, che è meticolosa al limite del maniacale, ha passato lo straccio su ogni centimetro del parquet e della mobilia per togliere la polvere che si annida ovunque. Rosa è ansiosa e frenetica nel compiere le piccole faccende del giorno mentre la prende uno stringimento al cuore, l’assillo di mille domande. Saprà sopportare la vista dell’uomo che ammira e che dicono non sia più lo stesso, come dimostra anche la foto giunta da Parigi? E lui potrà ritrovare qualcuna delle facoltà mentali che il ricovero a Ivry gli ha fatto perdere completamente? Come trascorrerà la notte? Lo sentirà gridare, vaneggiare? Rosa non può pensare al peggio: concludere il ricamo sulla tela del tamburello l’aiuterà a distrarsi. La figlia Giovannina al momento è uscita in carrozza con la bonne: deve fare un salto in orfanotrofio a consegnare una partita di nuovi abiti per infanti che ha raccolto durante la festa di beneficenza. Dopo il pomeriggio ventoso, arrivano le prime ombre della sera. Il tempo non promette nulla di buono e intanto dalla strada giungono fragori di ruote che fanno sobbalzare mentre nell’interno del palazzo la sensazione di vuoto e solitudine sembra farsi più acuta. I domestici hanno appena finito di accendere tutte le lampade a gas, quando Rosa sente nitrire i cavalli e giungere dal pianterreno il rumore inconfondibile del portone d’accesso che viene spalancato per far passare la carrozza. Il cuore comincia a battere forte. Tra pochi istanti potrà rivedere il maestro. Dio mio, fa’ che non sia per poco.
L’hanno sistemato sulla poltrona di velluto verde, la testa è reclinata verso l’omero sinistro. Le gote sono arrossate, lo sguardo perso nel vuoto. La bocca a tratti si contrae negli spasimi. Sulle ginocchia, una coperta spessa, bianca e bordata di una fascia a decori color ciclamino. L’ha accompagnato in questo viaggio di ritorno Andrea. È stato Andrea che ha inviato da Parigi la foto in cui si mostra accanto allo zio malato. Andrea ha condotto Gaetano all’Istituto di Ivry. E non si sa se per disposizioni governative, come afferma, o per i suoi maneggi. Rosa Basoni non vuole abbandonarsi al pensiero dei loschi maneggi del nipote. Sa bene che le fortune accumulate divengono oggetto dell’avidità dei parenti e dei congiunti. Per quanto la riguarda, desidera solo prodigarsi per offrire ospitalità al musicista che il mondo ha applaudito tanto e per il quale lei e la sua famiglia provano sincera e affettuosa devozione. -Buonanotte Maestro! -Buonanotte, maestro, suoneremo Il Campanello per tenervi desto! - scherza Giovannina, mentre le labbra le tremano. Gaetano rimane immobile, la bocca semi aperta, il respiro affannoso. Rosa, mentre si ritira nella sua stanza al secondo piano, lo immagina a venticinque anni, al S.Carlo; no, anzi, lo immagina a Roma mentre l’amico Antonio gli presenta la sorella Virginia, Virginia Vasselli, la moglie Virginia che lo aveva seguito a Napoli, condividendo successi e disperazioni, vita e morte. Rosa vorrebbe averlo incontrato allora, a Bergamo, quando erano giovani, quando lui era nel pieno del suo vigore, con la vena ispiratrice, la carica pronta. Ma domani sarà un altro giorno. Un giorno in cui qualche cantante potrebbe eseguire le arie più note del compositore affinché ridestino la sua mente intorpidita. “Ah, maestro, vorrei abbandonarmi al pianto. E mi viene da pensare al connubio che realizzasti tra l’opera buffa e il melodramma e al contrasto tra l’allegria delle tue liriche, l’allegria del tuo carattere espansivo, e questa tua tragedia di vita”. La notte è passata, la mattinata è grigia. Un cielo plumbeo sovrasta la città, attraversato da qualche lampo. Il servitore fedele, quello che segue il maestro dappertutto, ha acceso il caminetto. La bonne in cucina ha sbattuto i rossi d’uovo a rinforzo di un organismo debilitato. Verso mezzogiorno è giunto il medico: un uomo alto e magro con una barba fitta e grigia. Ha posato sulla coda del pianoforte la valigetta e con lo stetoscopio ausculta i battiti cardiaci. Compie gesti delicati intorno alla zona perioculare e con l’aiuto di un cucchiaio abbassa la lingua del paziente. Infine, misura la circonferenza del cranio. Annota tutto su un piccolo quaderno. Donizetti è sempre nella stessa posizione. La testa pervicacemente reclinata sul lato sinistro, le gote arrossate, lo sguardo ebete. Il medico scuote la testa, non proferisce parola. Non occorre dire nulla. Oggi è arrivato anche il tenore Rubini, voce d’angelo, a intonare “verranno a te sull’aure”, una delle pagine più ispirate della Lucia di Lammermoor. Giovannina lo accompagna al pianoforte. Rosa spera che Gaetano abbia qualche reazione. Invano. La schiera di amici che viene in visita è veramente folta. C’è l’amico Dolci che è il più assiduo. Sosta accanto al malato e si produce in un monologo rievocativo: la voce gli diventa stridula mentre lancia continue domande. “Ti ricordi del Barbaja, della sua reazione quando andò a fuoco il teatro? E di Mazzini? Quando disse che nella tua musica c’è un presentimento? Un presentimento, vecchio mio! Ti rendi conto? Non mollare! Pensa ai bìn delle donne”. Gaetano sembra avere un piccolo sussulto. Pronuncia qualche frase sconnessa, finché l’ira accumulata non lo spinge a liberare più parole. “Mi hanno de-derubato…mi hanno derubato… e poi mi hanno ri-rinchiuso, rinchiuso…Mi avessero preso la carrozza, ma ri- rinchiudermi, ri-rinchiudermi…”. Un rivolo di saliva gli esce dalla bocca. Le spalle si staccano per un attimo dallo schienale. Tutto il tronco è percorso da un fremito finché non ricade scomposto e afflosciato su sé stesso. È uno strazio vederlo in queste condizioni. Prima era molto vigoroso. Forse troppo. Fosse stato meno esuberante, non avesse assecondato certe pulsioni, non avesse condotto una vita sregolata… Si fosse comportato come Manzoni. Lui, rimasto vedovo, si è risposato. Dicono che quella Teresa Borri vedova Stampa, che gli è stata presentata durante l'esecuzione di un'opera alla Scala, sia capace di renderlo felice come e forse più della moglie precedente. Rosa non può evitare il confronto mentre si aggiusta la cuffia ricamata, che le incornicia come un velo prezioso il viso leggermente rugoso, e osserva dalla soglia della camera il maestro inerme, con le braccia allungate sui braccioli della poltrona.
L’inverno è trascorso ed è giunta la primavera. Un nuovo risveglio si prepara e non solo per la natura. L’aria è accesa da fremiti di insurrezioni mentre dentro Palazzo Scotti-Basoni una vita illustre sta per spegnersi. Le condizioni di salute del maestro vanno peggiorando di giorno in giorno e Rosa vuole chiamare il pittore prima che sia troppo tardi. Giuseppe Rillosi è un bravo ritrattista e potrà dipingere un quadro per lasciare una traccia ai posteri. Giovannina, intanto, non si dà per vinta. Ogni mattina esegue al pianoforte le arie del compositore. Ha proposto anche una canzone napoletana, piena di sentimento, che pare sia stata musicata dal maestro: “Te voglio bene assaje”. E una lacrima è apparsa sul viso smunto di Rosa. Una piccola lacrima brilla sul ciglio della donna premurosa mentre pensa all’infanzia povera di Donizetti trascorsa in uno scantinato, una cella angusta di Borgo Canale. La condizione misera da cui il maestro Mayr lo affrancò. Chissà se anche la mente dell’amato Gaetano si è aperta a questo ricordo, ora che per lui scende la sera. Rosa non lo saprà mai.
“Una furtiva lagrima/ negli occhi suoi spuntò…/ Quelle festose giovani/ invidiar sembrò…/Che più cercando io vo’? / M’ama, lo vedo. (…) Cielo, si può morir / di più non chiedo.” (L'elisir d'amore. Atto Secondo. Nemorino)
Bergamo, 8 aprile 1848.
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