Il tempo è una spirale tumefatta: se la scorri ti insegue.
Il tempo è quel che sei, se ne hai uno. Un bambino, un adolescente, un uomo, un vecchio, un morto: quando non ne hai più.
Qualche volta una scelta. Dunque, puoi essere chi vuoi e dove vuoi. In genere succede per sfuggire te stesso.
Essere molti, a seconda delle circostanze, evenienze, convenienze.
Sconvenienze, anche. Questo capita spesso. Significa che ti ritrovi fuori luogo, epoca, sistema, calcolo, quadernetto, sillogismo. Anche fuori di te.
E non ricordi, non hai modo di sapere, che nei ricordi tutto sembra vero. Sei tu senza esserlo. A volte siamo solamente stati: quando il presente è vuoto.
La coscienza è un importuno singolo circondato da molti. I molti sono gli anni. Ogni anno un’età. Ogni età una persona. Ogni persona sogna.
Quando ti svegli al massimo ricordi qualche sogno importuno, ma se sogni da sveglio, tutto procede multiplo. Io mi sveglio sudato.
Difficile trattenere le mie gocce all’interno di un presente screpolato. Tutto diffonde palpiti: nell’universo ogni istante è lo stesso.
Quella mattina Vermeer si svegliò distratto. La luce che proveniva dalla finestra lo aveva colpito nell’angolo di un occhio facendoglielo socchiudere. Percepì delle voci.
Erano voci estranee, di donne. Vermeer si alzò e si diresse verso la finestra per vedere a chi appartenessero. Si affacciò e scorse, nel cortile accanto, delle donne intente a lavorare che chiacchieravano rumorosamente tra loro. Chi erano quelle donne? – si chiese. Si accorse di non conoscerle.
Un rumore d’acqua proveniente da non molto lontano gli fece pensare che doveva trovarsi vicino a uno dei tanti canali della città. Quale città, si chiese? E poi quell’odore acre di leggero marciume… sì, doveva trattarsi di un canale. Di una città.
Perplesso, Vermeer uscì dalla stanza e si trovò di fronte a un ballatoio che non sapeva si trovasse lì. Ancora voci, provenienti dal basso, lo spinsero a scendere la scala. Dove si trovava? Era sua quella casa o apparteneva a quelle donne che aveva visto nel cortile? Se era così, cosa ci faceva lì lui?
Una donna imbiancata di farina lo accolse salutandolo rispettosamente. Lo aveva chiamato “padrone” e gli aveva chiesto cosa volesse per colazione. Già, cosa voglio per colazione – si chiese Vermeer. Per cavarsi d’impaccio chiese di avere il solito, ignorando cosa quel solito fosse.
Sedette a un tavolo, mentre quella trafficava tra i fornelli. Entrò una donna. Vermeer alzò gli occhi e la osservò colmo di stupore. Sapeva che doveva trattarsi di sua moglie, ma non lo sapeva.
Si alzò di scatto e uscì dalla cucina. Risalì le scale in grande fretta. Si chiuse nel suo studio. Lo seguì una miriade di immagini.
Quell’instabilità lo sconvolgeva: doveva fermarla.
Percepì un bisogno inarrestabile: rendere tutto immoto. Cominciò a dipingere la vita.
Una mattina qualunque in un posto del tempo che doveva anche essere un luogo, Vincent si alzò privo di voglia.
Il contatto col pavimento gelato gli suggerì che doveva essere inverno e questo lo rafforzò nella mancanza che già aveva percepito aprendo gli occhi. Inverno – si disse – come sempre d’inverno.
Gli alberi lì fuori erano grigi e invariabilmente allineati. Sporgendosi dalla finestra bassa, vide che lo erano anche le pietre di quella che doveva essere una casa. Erano pietre grigie, come le pietre, soprattutto d’inverno.
Dunque, nulla di speciale. Magari, pensò, erano grigie anche le pietre delle case della città che doveva trovarsi lì fuori. Grigie ed allineate, una sopra l’altra, invariabilmente uguali. Quel pensiero gli risultò insopportabile.
Si avvicinò al catino poggiato sul cassettone e vi versò dell’acqua da quella che pensò doveva essere una brocca. Era una brocca ed era un cassettone, come quello era un catino e quella era acqua. Si spruzzò il volto con brividi leggeri di ristoro.
Sollevato lo sguardo, vide la sua faccia allo specchio. Sì, quella era la sua faccia e quello era uno specchio, come quella era una parete e quello un chiodo. Quella faccia era sua – si confermò – o meglio era suo quel riflesso. Si toccò il volto per consolidare.
Tutto era sempre uguale al tutto uguale – si disse. Si guardò di nuovo; non si piacque affatto. Due occhi, due zigomi, una bocca, sempre lo stesso naso. Quella simmetria lo disturbò. Come il riflesso, cui di nuovo si immerse. Tutto è riflesso di un identico e tutto è identico a un riflesso. Quel sempre uguale gli parve insopportabile.
Aveva bisogno di asimmetria – si disse. Afferrò un rasoio che si trovava accanto al catino e si tagliò un orecchio. Sbirciando tra il sangue, quella diversità lo rallegrò. Dunque, non era più simmetrico all’identico immutabile di sé. La sua faccia gli parve meno spigolosa; liscia, almeno da un lato, forse più femminile.
Fuori dall’immutabile, si disse che bisognava cambiare anche luogo. Decise di recarsi in ospedale. Prima, però, bisognava passare al bordello. Le abitudini andavano conservate, almeno quelle.
In un altrove non molto distante ma forse lontanissimo, quella mattina il capitano Van Dyke si svegliò pieno di ottimismo. Generalmente statico, si sentì invaso da una formidabile energia: prevedeva guadagni luminosi. Per la maggior gloria di Dio e per la sua, pensò.
Si alzò dal letto e si preparò per uscire. La casa era ancora silenziosa, come il mondo lì fuori (doveva esserci un mondo lì fuori, si disse, nonostante il silenzio).
Preparandosi, non smetteva di pensare al viaggio. Non sarebbe andato verso le Indie, su quella vecchia rotta ormai sfruttata che facevano tutti. No, lui si sarebbe diretto a nord, a pescare sardine. Ne avrebbe riportato milioni, sì, milioni di sardine e migliaia di barili di olio con cui avrebbe illuminato l’intera città. Tutta la avrebbe illuminata la città. Tutta. Sarebbe diventato ricchissimo e, forse, sarebbe anche riuscito ad acquistare uno di quei quadri di quei muovi pittori che davano così lustro alle abitazioni. Magari avrebbe acquistato… sì, come si chiamava…? Un Vermeer! Uscì soddisfattissimo e si diresse a passo rapido verso il porto.
Le strade erano ancora deserte (doveva essere molto presto, pensò, ma cercando nel panciotto si accorse di aver dimenticato l’orologio). Erano vuote le strade, totalmente deserte e non c’era ancora nessuno in giro.
Giunto al porto, si diresse verso la banchina dove era ormeggiata la sua nave. L’equipaggio sarebbe sicuramente stato in quelle bettole lì intorno. Lo avrebbe radunato immediatamente a furia di urlacci. Aveva fretta di partire. Tuttavia, nel deserto di quella mattina deserta, quando il capitano van Dyke raggiunse il luogo d’imbarco, restò esterrefatto. Restò esterrefatto il capitano van Dyke quando raggiunse il luogo d’imbarco: la sua nave non c’era.
Era un tono un po’ sfumato di minore; quindi un bemolle. J. S. sollevò le mani dalla tastiera.
Se Dio è puro spirito – pensò – perché sono circondato da materia?
Quindi si disse il suono non ha corpo: Dio si nasconde in una nota. E se Dio è infinito – pensò ancora – fin dove si può svolgere una nota? La lasciò fluttuare nella stanza.
Vermeer si era quasi abituato e lasciava che i ragazzini che si aggiravano per la casa lo chiamassero papà.
Chiuso nel suo studio, parlava fittamente con una ragazza. Le aveva fatto indossare un turbante e degli orecchini di perla. Diceva di averglieli fatti indossare per poterla riconoscere.
Capisci – le diceva – devi girare per la città, raccogliere impressioni, fare schizzi… Io non posso uscire altrimenti mi sperdo… Devi uscire tu per me e riferirmi tutto!
Quella lo guardava perplessa. Cosa ci guadagno? – chiede. Vermeer la osservò per un istante, quindi rispose: l’immortalità.
Era tutto dannatamente sempre uguale: il sole, gli uccelli, le pareti di quella stanza sporca.
Tra le sue mani c’erano due cosce, due natiche, due seni: la solita soffocante simmetria.
Quando Vincent tirò di nuovo fuori il rasoio, quella urlò. Lo trasportarono di peso in ospedale.
Quella mattina il vento soffiava forte. Dritto sulla tolda del veliero, il capitano Van Dyke lanciava sguardi tristi nel suo mare. Erano quasi arrivati nella zona di pesca e il capitano Van Dyke già vedeva un oceano ribollente di sardine. Dio sarebbe stato fiero di lui: avrebbe illuminato tutta la città!
Proteso, tentò di afferrarle con le mani, quando la moglie entrò nella stanza e gridò: Karl scendi dalla sedia e chiudi la finestra che fa freddo!
L’alba indicava il limite del cielo tra la notte e il pensiero quando il pensato torna dentro il giorno. Quella mattina un professore si svegliò confuso.
Una questione antica, si disse, ma non ha molto senso. Tra l’altro, si accostava novembre.
Scese dal letto e dall’ultimo riflesso della notte.
Dopo una breve colazione, entrò nel suo studio. Sedette alla consueta scrivania. Radunò le sue carte.
Quella mattina doveva tenere la sua ultima lezione. Anni di studio e adesso la pensione; quella lezione sarebbe stata l’ultima.
Avrebbe dovuto illustrare il già pensato; quanto al nuovo, non lo aspettava più.
Uscì tenendo sottobraccio una cartella colma di spartiti. Dimenticati per duecento anni, tornavano alla luce insoddisfatti. Occorreva deviare dall’ignoto e compiere un riconoscimento dovuto. Sembrava spettasse a lui.
La strada era ancora semivuota e un autunno quasi inverno trasportava nuvole distanti. Il professore si sentiva distante. Quando arrivò, gli venne voglia di andarsene.
L’aula era ovale, con banchi a semicerchio disposti verso l’alto, come un teatro antico. Il professore si accomodò al centro e distribuì gli spartiti sulla cattedra. Inforcati gli occhiali, diede un rapido sguardo al suo discorso: in fin dei conti, era semplicissimo.
La musica di Bach, disse, sfiora l’assurdo, ma è una matematica perfetta. Sembra disgiungere, sorvolare, affidare l’incauto che la ascolta a un viaggio senza fine verso nulla. Ineffabile e pura, induce matematici terrori: non c’è mai un risultato, almeno in apparenza. Tuttavia è affermazione: esiste l’indicibile.
La fuga cui si affida rasenta l’infinito e ad esso tende, ma c’è sempre un ritorno. Qualsiasi scala, qualsiasi serie di scale, apertura o distanza, qualsiasi sia la fuga o sovrapposte fughe in alternanza, c’è sempre una nota che ritorna. L’infinito si chiude.
Dunque, anche il suo tentativo di oltrepassare il corpo dell’umano, per quanto ci introduca nel sublime, dal sublime decade: l’umano ha la sua fine. E l’infinito.
Richiuse tutto, scese dalla cattedra, se ne andò. Non si sa dire dove.
(Tratto da "Per giorni eventuali")
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