Sapevo che si sarebbero presentati (tutto quello che ho fatto e che ho mancato di fare) non invitati, al mio tavolo stasera, ma è come se lo fossero da sempre.
Ceniamo insieme, come vecchi nemici sconosciuti, che hanno l’occasione di conoscersi, pur avendolo fatto un’infinità di volte. L’inutilità frequente delle cene – mi sembrava di pensare – ricordando le occasioni sprecate o, forse, lo spreco delle occasioni. Forse una di più, ma avevo la facoltà di cancellare.
Non intendevo – voglio dire avere l’intenzione di farlo - mentre sarebbe stato facile non farlo, nel senso di una totale negazione.
Si poteva ad esempio sostenere, da qualsiasi parte, che non c’era senso che noi fossimo lì (sarebbe stato identico non esserci) e se proprio avessimo voluto trovarne uno, sarebbe stato più semplice cancellare tutto e presentarsi come fosse la prima volta: magari non avremmo neppure cenato insieme.
Ci si poteva infatti limitare a uno sguardo fugace, forse un accenno, un saluto distratto, chiedendosi poi “chi era quello”, o quelli, a seconda delle circostanze, o non chiedersi nulla.
Tuttavia ci trovavamo lì, seduti allo stesso tavolo, moltissimi, come il conto degli anni.
Qualcuno aveva i capelli grigi, qualcuno li aveva scuri, qualcuno non li aveva affatto, mentre vagiva fastidiosamente da lontano. I miei erano bianchi. Qualcuno aveva una pistola in tasca, o l’ipotesi di una pistola.
La casa poteva essere una qualsiasi, o diversa. Un locale, anche: indeterminato. Sapevamo perfettamente quello che avremmo ordinato. Riconoscersi, però, era difficile. Forse bisognava procedere a qualche eliminazione, ma sarebbe servito?
Da tempo non si vedevano idee e la conversazione era laconica. Facevo la spola tra la cucina e il tavolo, prendevo le ordinazioni, le servivo. Sedevo a mangiare anch’io. Il fatto è che ognuno faceva quello che faceva l’altro e questo non ci aiutava affatto.
Non era neppure facile stabilire se quella finestra doveva essere aperta o chiusa. Quel tagliacarte doveva stare nel cassetto o sulla custodia di pelle appoggiata sulla scrivania? Poteva essere comunque: bastava controllare il tempo e le cose sarebbero andate al loro posto, a seconda del posto e dell’angolazione temporale comunque diversa.
Neppure si sapeva la stagione, ma questo, visto i tempi che corrono, non aveva importanza. Quanto alla data, bastava scriverne un’altra sopra una qualunque intestazione, cosa che tutti si affrettavano a fare.
Restavano lacune. Per avere una certa coerenza del discorso ciascuno doveva ricorrere all’altro, ma nessuno aveva voglia di farlo. Dunque, interruzioni: dei pensieri, dei ricordi, delle figure, dei pesciolini rossi al Luna Park, della vita.
Non era facile stabilire neppure quando andavano dette certe cose, finendo col non risolvere nulla. Forse quella era la parola giusta, ma non veniva pronunciata, affermandola implicitamente. Afferrarla no.
Sapevamo che qualcuno di noi era malato - era inevitabile che lo fosse - ma nessuno poteva prendere la malattia. Era lì, senza nemmeno che ci fosse.
Neppure questo ci ha permesso di distinguerci, ma forse era proprio quella mancanza di distinzione che ci distingueva, almeno in apparenza. Alla fine ci si somiglia tutti; è il tempo che divarica.
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