La signorina Fuzio è morta e sepolta.
Quando ci ho pensato mi è venuto un momento di sconforto. Detto così non rende giustizia al mio sentire. Sconforto è cosa seria; ti pesa addosso, ti spiaccica, ti rinserra in un angolo piccolo estremamente buio, ma detto così perde pregnanza, si assottiglia, minimizza, evapora e finisce con l'essere ridotto a semplice fatto di cronaca, come se si dicesse: "c'era uno che stava un po' giù"; "uno chi?" "uno" "e perché?" "stava giù". In pratica: tutto finisce lì (vaghezza di vago vagore: vagamente).
Sembra allora che la questione stia non tanto nel dire che sei sconfortato, ma nel come lo dici.
Occorrerebbe non tanto limitarsi all'espressione, ma trovare un modo di esprimere. Uno che se ne intendeva (Céline) sosteneva, forse esagerando un po', che la trama è roba da fruttivendole e che la letteratura riguarda la lingua, capace di rendere i fatti qualcosa di più ampio, diciamo significativo, magari simbolicamente allusivo, metaforicamente adombrato, al di là dell'apparenza di parola che si riduce a pura letteralità.
La lingua che rimanda senza dire, pur dicendo di più, libera la categoria strettissima e fine a se stessa del fatto aprendola alle infinite possibilità del simbolo significante, cosa di cui parrebbe fosse convinto Brodskij che sosteneva che è la lingua che fa la letteratura. E anche l'uomo: "Il poeta, ripeto, è il mezzo di cui la lingua si serve per esistere" (I. Brodskij, Dall'esilio". O forse viceversa.
Sia come sia, secondo Brodskij scrivere rimanda a una dimensione altra, forse un po' metafisichetta, ma non c'è dubbio che, in base a tale idea, l'espressione del mio sconforto si sentirebbe per lo meno sollevata al di sopra della pura materialità del dire e forse si interrogherebbe su qualcosa di diverso dal semplice affermare.
Tuttavia, anche tale rimando significativo non incide sulla questione pura e semplice che la signorina Fuzio è morta e pure sepolta e che tale fatto non è noto a nessuno, dato che chi ne era informato è ormai personalmente defunto a sua volta. Dunque, stiamo parlando di un fatto che non esiste. E neppure il mio sconforto.
Questo mi secca non poco. Che un sentimento così scomodo e coinvolgente, denso di gravidissime conseguenze letterarie esista al massimo a livello di semplice cronaca (giornalismo?), mi secca: non poco! Occorrerà allora dichiarare quel sentimento in altra forma, diciamo "letterariamente", in modo da dar soddisfazione per lo meno alla lingua e dunque operare un passaggio fondamentale capace di trasformare lo sconforto/fatto/(cronaca) nell'oltre uomo della letteratura.
Esempio di trasformazione letteraria.
Sconforto: un sentire cadente. Come cadere da un pensiero.
Ecco, forse avrei dovuto dirlo più o meno così. Se però fossi riuscito a passare sul "piano letterario", avrei corso un rischio fortissimo di spersonalizzazione, finendo col fare un torto a me stesso sul piano personale. Sarebbe allora stato contento Blanchot, che afferma che un autore appartiene al rischio, perché: "L'opera esige dallo scrittore che egli perda ogni "natura", ogni carattere, e che, cessando di riferirsi agli altri e a se stesso con la decisione che lo fa io, diventi il luogo vuoto dove si formula l'affermazione impersonale" (M. Blanchot, Lo spazio letterario, Einaudi, Torino, 1967, p. 41). Quanto alla morte e alla sepoltura della signorina Fuzio, dichiararle in un modo o in un altro non cambia la sostanza delle cose.
Proviamo. Potrei, ad esempio, dire: ella morì e fu sepolta. O ancora: morta e sepolta. O: morse (forse, morette?) O anche sbrigarmela sinteticamente con un “amen” (in questo caso, però, farei poesia: essa è, per dirlo sinteticamente, sintesi! Ahimè raramente sintetica: avete mai letto quelle poesie interminabili tipo io mammeta e tu - oh sant'iddio!). Potrei persino non parlarne per niente, travasando tutto nella categoria del trascendente cui il fatto della morte senz’altro ci consegna. Non cambia. Potrei affrontare la cosa da un punto di vista critico, ma vi sconsiglio dal fare i critici letterari, anche se vi invitano a discutere un testo. La cosa migliore che può capitarvi è che dopo vi si rivoltano contro per giustificare in ogni modo il loro fatto e, francamente, senza un lauto compenso, non vedo proprio perché dovrei sottopormi alla seccatura (leggere, cioè, il loro fatto per sentir poi smentire la mia lettura).
Resta però incontestabile che, come affermava Manganelli, la letteratura è menzogna. Come intendere tale dichiarazione? Decifrare una menzogna rischia di precipitare l'incauto che vi si provi in mondi paralleli di universi improbabili. Mantenendomi più al sicuro, posso soltanto azzardare un dubbio: siamo sicuri che i romanzi che leggiamo raccontino proprio di quello che ci sembra di leggere e che i personaggi che li rappresentano siano proprio le figure che appaiono e che fanno e dicono quel che fanno e dicono? Non sarà magari che essi parlano d'altro, come lo stesso romanzo e che, come sosteneva Blanchot, ciò che ci appare su un piano inequivocabilmente personale non lo è affatto? Non sarà che il dire dell'autore è un dire apparente, mentre è un non dire che rimanda a un altrove che non percepiamo ma che inspiegabilmente dovrebbe riguardarci? Forse la cosa migliore sarebbe lasciar perdere. Resta però che la signorina Fuzio è morta e sepolta e resta il mio sconforto.
Mi è venuto per caso, che come tutti sanno domina casualmente i fatti di un universo casuale (significa che casualmente fa letteratura).
Mi trovavo in auto, diretto verso un luogo di rifornimento. Non per l'automobile: per me, cioè un bar. Venni a trovarmi (trovaimi - è più letterario? -) nel quartiere della mia infanzia (ci sono andato apposta: mi piace) e anche perché so che lì troverò un bar aperto. E lì la signorina Fuzio mi folgora con la sua scomparsa. Intendiamoci: non è scomparsa al bar; casomai è ri-comparsa.
Abitava nel mio stesso stabile, al quinto piano (fa molto romantico) di un palazzo d'epoca umbertina (mai rimpianto abbastanza). Era signorina perché era irrevocabilmente zitella, promessa ad un fidanzato fantasma che nessuno ha mai visto, ed era zitella perché era irrimediabilmente ordinaria. Piccola e grassottella, si affacciava alla porta di casa nella sua vestaglietta a fiori d’ordinanza, con un sorriso stemperato sulle labbra accennate di rossetto e gli occhi stretti (per vedere meglio), velati appena di blu. Ciglia a battente. Dietro di lei, immancabile: la madre. Risparmio descrizione.
Ci si affacciava reciprocamente alle porte per chiedere qualche favore (quelli soliti da inquilini): un pochetto di zucchero, una scorzina di limone, e giù di lì giù di lì, con la promessa di una pronta restituzione che non avveniva mai. Eravamo tutti perennemente in debito. Lei lo era con la vita, cui non concedeva nulla. Anche in credito, però: non riceveva. Era come fluttuasse in un mondo confinato tra il pianerottolo e la soglia. Per questo mi faceva un po’ pena e un po’ tenerezza, nonostante avessi solo dieci anni. La signorina Fuzio mi ispirava sentimenti cadenti: incontrarla si traduceva in un inevitabile cadere.
Anche gli altri inquilini mi ispiravano sentimenti stile precipizio. I signori Aliquò, infinitamente fuori moda e fuori tempo, se non proprio fuori dalla vita. Morirono in un incidente d'auto appena lui prese la patente. Il dr. Strollo, che mi cavò un dente, con la figlia Pucci, più grande di me di qualche anno ed infinitamente inguardabile. I signori Polidori - tristissimi - perennemente chiusi in un silenzio atavico come il loro impenetrabile appartamento, alla cui porta sostavo a volte in attesa di un qualche suono, preda di fantasie irriferibili. L'ing. Berlingeri, tralasciato allora come adesso: meglio tralasciare.
Sostavo, quando non mi lanciavo per i gradini a balzi di cinque, chiaro segno del primo manifestarsi di un DNA di fuga, evidente anche nel rifiuto di recarmi ai giardinetti, dove avrei potuto fare incontri serrati, mentre preferivo passare interi pomeriggi a giocare al teatro con le mie marionette, dove il mondo lo inventavo io e, nell'invenzione, non ero più me stesso. E neppure il mondo.
A scuola però andavo. E lì c’era la signora Borrelli, più piccola del mazzo di fiori col quale si inerpicava per le scale il primo giorno di lezioni, mentre io mi sentivo abbandonato da mia madre alla mercé di quella che allora mi appariva come la summa della streghità. Ovviamente non era così; la letteratura è menzogna, ricordate?
Dunque, nessuna verità né luogo certo. "Questo esilio che è proprio del poema fa del poeta l'errante, il sempre smarrito, colui che è privo della presenza stabile e della vera sosta. E ciò deve essere inteso nel senso più grave: l'artista non appartiene alla verità, perché l'opera è ciò che sfugge al movimento del vero, perché sempre, da qualche parte, essa lo revoca, si sottrae alla significazione, designando la regione dove niente resta, dove ciò che è avvenuto non è tuttavia avvenuto, dove ciò che ricomincia non è ancora mai cominciato, luogo della più pericolosa indecisione, della confusione da cui niente sorge. Questo di fuori eterno è evocato efficacemente dalle tenebre esterne, in cui l'uomo è messo alla prova di ciò che il vero deve negare per divenire la possibilità e la via" M. Blanchot, op. cit., p. 207).
Dunque, un non dire che dice: qui ci ha condotto la morte della signorina Fuzio. Mi convinco allora sempre di più che non se ne sarebbe dovuto parlare. Ma se il luogo è il non luogo, parlare dove?
Questa alterità radicale è un luogo vuoto, come lo definisce Lacan nel Seminario VII, irriducibile alla significazione, che tuttavia proprio perché vuoto può far scaturire da sé ogni rappresentazione e dunque aprire al godimento del significare. Questo non vuol dire che la Cosa sia capace di parola, ma come l’Apollineo Nietzschiano si ridurrebbe a sterile forma organizzativa senza il Dionisiaco, lo stesso Dionisiaco non sarebbe altro che caos senza il sistema formale rappresentato dall’Apollineo. La sintesi non è un fatto; e neppure la lingua.
Santo cielo, questo dire il non dire per dire l'indicibile da dire rischia di trascinarmi nel silenzio; ma forse è da lì che si scrive: il silenzio del mondo.
E la signorina Fuzio?
La Pucci abita ancora lì: ho visto il suo nome sul citofono. Tale visione mi ha causato un sentimento talmente cadente da farmi precipitare in uno sconforto di cui non parlo, altrimenti ricominciamo da capo, col rischio di sprofondare in una saga familiare o, peggio, in un romanzo storico, di quelli infiniti celeberrimi che hanno avvilito la mia infanzia e indebolito il cervello di chi li ha letti e che non si dovrebbero scrivere mai, a meno di essere deboli di cervello e aver bisogno di indebolire quello degli altri per rassicurarsi. O a meno di essere Roth, che ti narra i fatti del signor Trotta ma in realtà parla della fine del mondo; o Marquez che ti racconta cent'anni senza che te ne accorgi; o Bernhard, che mentre ti fa fare una camminata ti conduce tranquillamente in manicomio. E neppure che la signorina Fuzio è morta. Ed è stata sepolta. Dove non so. O se sia vero.
I testi, le immagini o i video pubblicati in questa pagina, laddove non facciano parte dei contenuti o del layout grafico gestiti direttamente da LaRecherche.it, sono da considerarsi pubblicati direttamente dall'autore Giovanni Baldaccini, dunque senza un filtro diretto della Redazione, che comunque esercita un controllo, ma qualcosa può sfuggire, pertanto, qualora si ravvisassero attribuzioni non corrette di Opere o violazioni del diritto d'autore si invita a contattare direttamente la Redazione a questa e-mail: redazione@larecherche.it, indicando chiaramente la questione e riportando il collegamento a questa medesima pagina. Si ringrazia per la collaborazione.