Sotto il cielo azzurro e limpido dell’antica Grecia, dove il vento diffondeva il profumo del mare e delle olive, viveva una giovane donna, chiamata Etea, che non apparteneva a un mito, ma ne avrebbe creato uno. I suoi capelli, lunghi e neri come la notte più profonda, ondeggiavano nell’aria mentre camminava tra le colonne di marmo del tempio di Atena. I suoi occhi, verdi come le colline circostanti, scrutavano l’orizzonte con un misto di determinazione e malinconia.
Lei era la figlia del sacerdote del tempio, cresciuta tra i racconti degli dèi e le antiche profezie. Fin da bambina, aveva mostrato una connessione speciale con la natura: gli animali le si avvicinavano senza timore, e le piante sembravano fiorire al suo tocco. Gli abitanti del villaggio dicevano che la stessa Artemide, dea della caccia e della natura selvaggia, l’avesse benedetta.
Ma Etea sentiva che il suo destino era legato a qualcosa di più grande. Da anni, ogni notte, sognava un grande leone dorato che vagava per le colline di Etea, la regione che portava un nome simile al suo. Nessuno osava avventurarsi oltre quelle terre: si diceva che quella feroce fiera fosse stata inviata dagli dèi per punire gli uomini, un mostro che nessuno era mai riuscito a sconfiggere. I guerrieri più valorosi erano caduti sotto i suoi artigli, e l’intera regione viveva nel terrore.
Un dì, mentre la fanciulla raccoglieva erbe medicinali vicino al sacro luogo, udì un rumore tra i cespugli. Si voltò di scatto, pronta a difendersi, ma quello che vide la lasciò senza parole. Davanti a lei, il leone dorato delle sue visioni oniriche apparve in tutta la sua maestosità. Gli occhi della belva brillavano come fiamme e un potente ruggito fece tremare la terra sotto i suoi piedi.
Ma invece di fuggire o gridare, Etea si inginocchiò. C’era qualcosa di familiare in quell’animale. Percepiva una connessione profonda, come se non fosse un’orribile creatura, ma un messaggero delle divinità.
“Chi sei?” mormorò Etea, con il cuore che le batteva forte. “Perché mi appari nei sogni?”
Il leone si avvicinò, abbassando la testa. In quel momento, Etea capì che non era venuto per ucciderla, ma per chiedere il suo aiuto. Udì una voce nell’anima, spiegarle che la bestia era stata maledetta da Era, la regina degli dèi, per aver disobbedito alle sue volontà. L’unica speranza di riacquistare la libertà era quella di trovare un mortale che lo comprendesse, qualcuno con il cuore puro e il coraggio necessario per spezzare l’incantesimo.
Etea si alzò in piedi, avvicinandosi lentamente. Non aveva armi, né forza fisica, ma possedeva qualcosa di più straordinario: la compassione e il proprio legame con la natura. Posò la mano sul manto dorato del felino e chiuse gli occhi. Sentì il calore della sua pelliccia e il battito regolare. Allorché, un’ondata di energia la attraversò, e in quell’istante sapeva perfettamente cosa fare.
Con un mormorio appena percettibile, iniziò a recitare una preghiera ad Artemide. Invocò il suo aiuto, chiedendone la protezione e la magia per spezzare la maledizione. Le parole uscivano dalle labbra di Etea come un canto antico, mentre lo Zefiro si alzava intorno a loro.
Dopo quello che sembrò un’eternità, il leone tremò. Un aureo bagliore avvolse la creatura che, in un istante, si trasformò in un uomo. Alto, con occhi luminosi come il sole e una maestosa presenza, egli le si prostrò davanti.
“Grazie,” disse con voce squillante. “Mi hai liberato dal maleficio che mi imprigionava. Io sono Leo, il guardiano delle terre selvagge, e ti sarò per sempre debitore.”
Etea lo guardò con un misto di stupore e gratitudine. Aveva compiuto l’impossibile, eppure non si sentiva una semplice mortale. Intuiva che il legame con gli dèi era più intenso che mai, seppure il suo destino non fosse ancora compiuto.
Da quel giorno, divenne leggenda, non solo come figlia di un sacerdote, ma persino protettrice delle terre selvatiche, da tutti venerata.
N.d.A.: Nomi e fatti sono frutto di fantasia, ogni riferimento è puramente casuale.
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