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L’alienazione dell’autunno

di Giuseppe lonatro
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Pubblicato il 30/08/2024 17:43:30

    Prusak veniva sollevato in aria dal padre, le mani grandi che lo stringevano con un gesto impacciato, quasi goffo, come se tentasse di afferrare qualcosa di sfuggente. Era un modo per avvicinarsi al figlio, per cercare un contatto che non sapeva come instaurare, un tentativo maldestro di costruire un ponte tra due esistenze che si sfioravano senza toccarsi davvero.

     La terrazza dove si trovavano si apriva su un paesaggio che sembrava non avere fine, una distesa di alberi di mandarino che si estendeva fino all’orizzonte. Il profumo dolce e penetrante dei frutti riempiva l’aria, mescolandosi al vento che portava con sé il silenzio di un tardo pomeriggio.

     Poche case basse, tutte sparse come se fossero state abbandonate lì per caso, punteggiavano il terreno. Non più alte di tre piani, sembravano appartenere a un’altra epoca, a un tempo in cui la vita si muoveva con una lentezza ormai perduta. I grandi palazzi, che un giorno avrebbero invaso il paesaggio, non esistevano ancora, e il mondo intorno a loro era dominato da un silenzio atavico, quasi innaturale. Eppure, padre e figlio stavano lì, immersi in quel silenzio, senza sapere davvero cosa fare.

    Il gatto di casa, stava accovacciato sugli scalini che conducevano al terrazzo, li osservava con la sua curiosità distante, i suoi occhi gialli che seguivano ogni loro movimento. Sembravano manichini, immobili in una scena pronta per essere immortalata, congelati in un momento che non sapevano come riempire.

L’autunno avanzava lentamente, portando con sé l’odore acre delle foglie marce e il profumo umido della terra bagnata. Prusak aveva poco meno di un anno, l’unico erede di quella casa che gravava su di lui come un fardello. Era una dimora piena di ricordi che sembravano respingere il presente, un luogo dove le pareti puzzavano di vecchiaia, impregnate di un passato che si era consumato troppo in fretta.

     La madre di Prusak trascorreva le giornate tra i silenzi domestici, persa in una perenne apatia. Non parlava molto, se non per scambiare qualche parola distratta con la vicina, ma anche quelle conversazioni erano svuotate di significato, ridotte a semplici suoni che riempivano il vuoto. Quando usciva per fare la spesa, lo faceva in fretta, quasi con ansia, come se fuggisse da qualcosa che non riusciva a nominare. Rientrava poco dopo, cercando disperatamente un senso che non trovava mai tra quelle mura familiari che le apparivano sempre più estranee. Spesso si sedeva nella stanza dei libri, tanti libri, dove una poltrona rossa sembrava sfidare tutto ciò che la circondava, ma anche lì non trovava sollievo, solo il peso del tempo che scorreva senza portare nulla di nuovo.

     Il padre di Prusak era un uomo segnato, il suo volto era la mappa di una vita fatta di sacrifici e frustrazioni. Si alzava ogni mattina all’alba per andare al mercato, sperando di trovare una fortuna che continuava a sfuggirgli. Ma le sue speranze si infrangevano contro la dura realtà, e tornava a casa la sera, spesso a mani vuote, con lo sguardo abbattuto come di un cane bastonato. Non era un uomo cattivo, solo un uomo spezzato, intrappolato nella sua stessa vita che lentamente lo stava consumando. Viveva nella speranza di un domani migliore, ma ogni giorno era uguale al precedente, e la sua vita si era ridotta a una serie di gesti meccanici, privi di significato.

     Prusak era ancora troppo giovane per comprendere tutto questo, ma lo sentiva, come si sente l’umidità che penetra nelle ossa durante le giornate di pioggia. Era un bambino silenzioso, spesso lo si trovava a guardare fuori dalla finestra, i suoi occhi fissavano per ore la pioggia che solcava i vetri. Non vedeva strade, solo macchie di verde, e non si faceva domande. Un innocente prigioniero di quella teatralità domestica, costretto a vivere in una casa che sembrava marcire con la stessa cadenza delle foglie che cadevano dagli alberi. Cresceva, ma la sua anima si spegneva a poco a poco, soffocata dalla noia e dall’indifferenza che lo circondava.

     E mentre il tempo passava, la casa continuava a deteriorarsi, come se il suo declino fosse inevitabile, inesorabile. Prusak continuava a guardare dalla finestra, il suo sguardo perso in un futuro che non riusciva a immaginare, mentre la sua vita scivolava via, come acqua sporca in un lavandino intasato. Ogni giorno era una ripetizione del precedente, e in quel mondo fatto di silenzi e ombre, l’unica cosa che sembrava avere un minimo di comprensione per la triste commedia che si svolgeva in quella casa era il gatto, che continuava a crogiolarsi sugli scalini, indifferente a tutto ciò che lo circondava.

Prusak continuava a guardare dalla finestra.


@GiuseppeLonatro2024

 


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