Sulle cime bianche per la neve
spruzzata da un cielo pigro
scorgo dal terrazzo di casa
la luce tenue di un raggio di sole,
incerto e solitario.
Le nubi opprimenti si ingrossano e si alzano
lasciando respirare i monti così vicini
che stendere la mano e sentirli
è ingenuo e infantile
ma spontaneo, un desiderio, forse,
che si aggiunge all’illusione
di evadere o di fuggire, di non restare,
infine
volare.
Oltre quelle case e quei pioppi
ancora scarni e grigi,
si stende la vita
come se non ci fosse strada,
senza cammino o indicazione,
solo un mare aperto di bellezza
e il richiamo all’ignoto, colmo di speranza
e generosa inquietudine.
Poi osservare, osservare,
senza stancarsi mai di guardare con cura
per trovare le parole per raccontare
il fenomeno fisico che smaterializza
quell’ingombro minaccioso e greve
che turba e condiziona la mente e le gambe,
di quelle nuvole opprimenti
come il pensiero di un virus
di un destino breve
di una necessaria lontananza
di un bacio non dato.
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