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Prusak e i semafori

di Giuseppe lonatro
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Pubblicato il 07/07/2024 19:36:39

 

    Prusak uscì all’alba, correndo sotto la pioggia che cadeva incessante. Strade e viali scorrevano sotto i suoi piedi senza fatica; i pensieri, come il battito del cuore, non gli davano tregua. Correva, e i muscoli stanchi non sentivano dolore. I polmoni, in un raro momento di alleanza, lo sostenevano, e il cuore ballerino, che un tempo sembrava volerlo abbandonare, pompava con calma e sicurezza.

    Tecla la incontrò durante una corsa al parco. I capelli di lei, bagnati di sudore e pioggia, gli coprivano parte della fronte. Lei correva avanti, leggera e determinata, mentre lui la seguiva come sospeso tra curiosità e fatica. Il primo sguardo che Prusak le rivolse non fu dei migliori: non gli piaceva.      Tecla aveva un’aria intensa, quasi troppo sicura di sé, e questa cosa lo infastidiva. La sua postura eretta e il modo deciso in cui affrontava la pioggia e la corsa gli sembravano quasi una sfida. Tuttavia, qualcosa in lei lo trattenne dal distogliere lo sguardo. Una sorta di energia, una forza silenziosa che emanava da ogni suo movimento, lo affascinava contro la sua stessa volontà.

Accelerò il passo fino a raggiungerla. Tecla si voltò, i loro occhi si incontrarono per un breve istante, sufficiente a far scattare in lui una scintilla di curiosità.

"Ciao," disse lui, con il fiato corto. "Non pensi che sia un po’ folle correre sotto la pioggia?"

Tecla sorrise, un sorriso che sembrava illuminare il grigiore del cielo. "La follia rende la vita più interessante, non credi?" rispose, continuando a correre senza mai rallentare.

Quelle parole, pronunciate con naturalezza e convinzione, rivelarono a Prusak qualcosa di inaspettato in lei. Continuarono a correre fianco a fianco, scambiando poche parole, ma con un’intensità crescente a ogni passo.

Prusak si rese conto che, nonostante il suo primo giudizio negativo, Tecla aveva qualcosa di magnetico. La sua forza, la sua determinazione e quella scintilla di follia lo attraevano irresistibilmente. Pensò, inspiegabilmente, che forse, solo guardandola e scambiando qualche parola, Tecla potesse diventare la donna della sua vita.

Quando la corsa terminò, si ritrovarono sotto un portico, riparandosi dalla pioggia che ora cadeva ancora più fitta. Prusak la guardò negli occhi, ancora in cerca di risposte. "Sei sempre così sicura di te?" chiese, più per sfidarla che per altro. Tecla scosse la testa, un’ombra di tristezza attraversò il suo sguardo. "No," ammise. "Ma cerco di vivere ogni giorno come se lo fossi. Non mi piace lasciarmi fermare dalla paura o dall’incertezza io sono fatta così".

Quella risposta lo colpì profondamente. In quell’istante, Prusak capì che Tecla non era solo una donna forte e avventurosa, ma che aveva qualcosa di vulnerabile e autentica. E fu proprio quella combinazione di forza e fragilità a fargli desiderare di conoscerla e anche di condividere con lei il suo cammino.

Così Prusak e Tecla andarono a convivere. I mesi passavano tra alti e bassi, i due erano troppo diversi tra loro, le liti e le riappacificazioni erano una costante e, in fondo, gli veniva sempre in mente che Tecla non gli era mai piaciuta del tutto. Prusak alternava momenti di grande passione a momenti di spontanea indifferenza.

Tecla non era una donna facilmente gestibile. Profonda e riflessiva, i suoi dialoghi erano sempre costruttivi e mai banali. Tuttavia, sembrava non conoscere i suoi limiti, o forse li accantonava come si fa con le vecchie lettere chiuse in un cassetto. Non si accontentava della superficialità e camminava sempre scalza dentro casa, un gesto che sembrava esprimere il suo desiderio di sentirsi radicata, autentica e allo stesso tempo anche un po' selvaggia e questo a Prusak non piaceva.

C’era sempre qualcosa in lei che la torturava, un'inquietudine che la faceva svegliare di notte all’improvviso. Era come se cercasse continuamente qualcosa da salvare, forse una parte di sé stessa, o forse gli altri. Questo tormento interiore la rendeva attraente e complessa, una donna che non smetteva mai di esplorare le profondità della sua anima e del mondo che la circondava.

    Viveva in un mondo fatto di pensieri e sensazioni profonde, di piccoli particolari in cui ogni gesto e ogni parola avevano un significato speciale. Figlia unica di una famiglia medio borghese, a vent'anni aveva deciso di lasciare la casa paterna, spinta da una sete insaziabile di libertà e scoperta. La sua inquietudine era il riflesso di una mente che non si fermava mai, di un cuore che batteva forte per le piccole e grandi cause. Ogni giorno era una nuova avventura, una nuova opportunità per sfidare se stessa e il mondo che la circondava. Era una donna forte, capace di affrontare con coraggio ogni cambiamento, ma anche amante dell’incertezza e della sorpresa. La sua vita era un continuo esplorare luoghi lontani o semplicemente incontrare gente di ogni genere. Tuttavia, nonostante il suo spirito avventuroso, Tecla non aveva mai perso il contatto con la realtà, era capace di provare empatia verso gli ultimi, verso tutti coloro che la società egoisticamente rigettava.

     La sua empatia era radicata in una sensibilità rara, che la portava a guardare oltre le apparenze, a cogliere quelle sfumature e quei volti che gli altri non vedevano. Ogni incontro, ogni sguardo scambiato, arricchiva il suo mondo interiore, alimentando la sua voglia di comprensione e connessione verso gli altri.

    Era una donna capace di sfidare se stessa e gli altri, di mettere in discussione le proprie certezze e di affrontare con serenità le proprie paure. Tecla viveva ogni giorno come se fosse un'opera d'arte in divenire, un capolavoro fatto di esperienze e di emozioni, sempre pronta a trasformare ogni ostacolo in una nuova opportunità, ogni caduta in un nuovo inizio. Poi, quando si stancava, correva via, fuggiva, magari in un posto lontano, o anche vicino ma con l’intento di isolarsi da tutti per poter correre senza pensare. E tutto questo a Prusak dava fastidio, egli cercava una stabilità nel rapporto con la vita e verso gli altri.

    Quella sera, Prusak ricordava nonostante tutto quanto Tecla fosse stata tutto per lui, e gli faceva male. Era la prima volta che non riusciva a pensare a lei sorridendo. Ricordava quando l’aveva colpito a fondo, una forza che non credeva di possedere. Così, per gioco. Correvano insieme, come sempre: lui dietro, lei davanti.

"Non mi prenderai mai!" gli urlava Tecla. Era molto più veloce di lui, e intanto la pioggia continuava a battere chiodi sulla terra rossa. Prusak, inciampando su una pietra, rischiò di rovinare a terra. Raccolse la pietra tra le mani e, guardando Tecla che nel frattempo si era fermata, gliela lanciò contro. Tecla, colpita in viso, cadde a terra, in una pozza di sangue.

Prusak rimase inginocchiato, ipnotizzato da quella scena. Non riusciva a capacitarsi del perché l’avesse fatto, l’unica cosa che pensò che gli piacevano i semafori. Quei momenti, sospesi nel tempo, erano per lui come finestre aperte su un mondo in continuo movimento, una pausa che gli permetteva di osservare la vita che scorreva intorno a lui. Amava questi attimi di attesa, quando poteva soffermarsi sui dettagli dei passanti, ognuno con la propria storia, il proprio destino, ognuno immerso nei pensieri che li separavano e li univano agli altri.

    Alla sua destra, una madre stringeva la mano di un bambino, proteggendolo dal caos del traffico. I loro passi erano in sintonia, un piccolo universo fatto di affetto e cura. Poco più in là, un uomo parlava al telefono, completamente assorbito dalla conversazione, ignaro delle macchine che gli sfrecciavano accanto. La sua indifferenza appariva quasi ironica, come se il rumore e il frastuono della città non potessero toccarlo. Una donna anziana che trascinava con fatica una borsa della spesa. Ogni suo passo sembrava una lotta contro il tempo e lo spazio, il suo volto segnato dalla stanchezza e da una tristezza profonda, come se aspettasse la fine dei suoi giorni con una rassegnazione che faceva male solo a guardarla.

    Attorno a lui il caos della città era un'orchestra dissonante, quasi un blues. C’era chi urlava, chi non ascoltava, chi si perdeva nella musica che sgorgava dalle cuffie. Una ragazza attraversava le strisce pedonali con passo deciso, indossava una camicetta bianca e una gonna sopra il ginocchio. Sembrava concentrata, come se ogni passo fosse una dichiarazione di indipendenza. Bambini rincorrevano una palla, le loro risate erano un eco di felicità.

    In mezzo a tutto questo, c'era chi aspettava. Prusak li vedeva, le persone in sosta, persi nei loro pensieri, forse in attesa di qualcuno che non sarebbe mai arrivato. Quell’attesa era palpabile, un filo invisibile che legava tutte quelle vite per un istante, sotto il semaforo rosso, Prusak si sentiva parte di quel quadro, un osservatore silenzioso, immerso nei propri pensieri e in quelli degli altri, consapevole che ogni semaforo rosso era una pausa nella corsa della vita. E intanto Tecla rimaneva lì, per terra in una pozza di sangue.

    A lei non piacevano i semafori.-

 

-        2024 -


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