Ci sono le statue di Ermete Trismegisto, quelle divine, perchè contenenti il divino, simulacri di un essere celestiale, poderoso e a differenza degli umani, immortale. Le statue parlano, per il vate egiziano, sono portatrici di verità mistiche, teologiche e filosofiche.
Ma non solo le statue degli dei, illuminate da un fascio accecante al centro di templi suggestivi, anche gli oggetti divengono talismani, simulacri di una poderosità che si espande con altrettanta forza nella mano di chi li custodisce.
L'alchimia tanto palesata parlando dell'ermetismo, della sua evoluzione attraverso i secoli ed i luoghi, parte proprio da qui, dalle parole del Corpus hermeticum, che altro non è se non un testo teologico, il quale espone una teoria religiosa molto vicina a quella che sarà la dottrina cristiana, nella sua visione anche più estrema, verticale e intransigente.
Tuttavia le statue di cui accenna Ermete sono pure la chiara testimonianza di una realtà storica, quella ellenistica, quella di tantissimi popoli che facevano del culto verso i propri dei una ragione di vita. E di morte.
I numi erano reali, clementi o terribili, parlavano o tacevano ogni giorno. Si manifestavano mediante gli eventi della natura e degli uomini, in tutti i luoghi del Medio Oriente, fino alle lande più selvagge e superstiziose dell'Europa, e con essi le persone interagivano continuamente, offrendo vita e sangue.
Per un poeta come me, appassionato di storia antica e poesia, tutto ciò è estremamente affascinante e senza dubbio più complesso di quanto abbia esposto finora, ma niente di nuovo. Se non per un piccolo particolare. I simulacri divini non si riducono alle pietre sinuose o agli oggetti alchemici, o al talismano di Diomede, pastore di eroi; esistono altri due simulacri.
Il poeta è un simulacro di carne che s’immola ad una forma più alta di espressione del pensiero e di verità attraverso una sottomissione ad un sistema arcano, e ad una predisposizione capace di ampliarsi con gli anni, fino al controllo sistematico ma non totale di questo potere, che s’interpone tra il poeta ed il terzo simulacro con un vero e proprio luminoso dettato.
Se quel fascio di luce che spezzava l’oscurità dei templi degli achei si riversava sulle statue divine, di riflesso esso dilaga anche sui poeti, e da questi acquista ulteriore forza fino al suo espandersi sul componimento poetico, il quale assume al suo termine la sembianza d’una nuova statua; ininterotta, perchè a differenza della pietra destinata inesorabilmente a divenire sabbia in qualche meandro del tempo, la parola non muore, ma si tramanda. In questo senso sì, allora, la parola ermetica acquista quella profondità abissale che si sviluppa su moltitudini di livelli interpretativi.
Ecco quindi che il terzo simulacro non è fatto di pietra, né di carne, ma di versi. Tre veicoli del divino, tre indizi d’una rotta spirituale.
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