Ogni notte, Prusak si ritrovava a combattere la sua guerra solitaria contro quei maledetti gabbiani. Arrivavano sempre alla stessa ora, spuntando dal nulla, come ombre infernali che si lanciavano su di lui, invadendo il suo letto con un frenetico sbattere d’ali.
La finestra sempre socchiusa, sembrava una sorta di portale dove scappare o far sparire quegli animali. Prusak con gesti disperati e convulsi cercava in tutti i modi di cacciarli via; gli ricordavano le mosche che infestavano il letto tanti anni fa, quando era chiuso in riformatorio.
Era la sua battaglia eterna, prima le mosche adesso i gabbiani. Il suo corpo si muoveva in uno strano balletto fatto di gesti violenti e disordinati, mentre cercava di indirizzare quei fantasmi fuori dal suo letto, in direzione della finestra. Ogni movimento era un riflesso della sua mente tormentata, un simbolo della sua lotta interiore contro il mondo, tra la voglia di pace e la tempesta che lo tormentava dentro.
I gabbiani non erano semplici uccelli: come lo erano state le mosche, anche questi erano custodi dei suoi pensieri più oscuri; messaggeri di un’angoscia profonda che nel tempo non trovava ne voce ne pace.
Nella penombra della stanza, il confine tra sogno e realtà si faceva sempre più sottile, e Prusak restava intrappolato in quella sorta di danza notturna, schiavo di una battaglia che solo lui poteva vedere e combattere. Ogni notte sempre la stessa storia, e ogni notte sperava in una tregua che non arrivava mai, La finestra aperta rimaneva lì, come una promessa di libertà, eppure ogni notte Prusak, a notte fonda, quando il buio lo avvolgeva, i gabbiani tornavano a ricordargli che doveva continuare a combattere.
Finalmente, Prusak, sfinito dalla fatica, riuscì a cacciarli tutti fuori dalla finestra. Ma no, uno di quei bastardi era rimasto nel suo letto. Questo gabbiano non era feroce come gli altri. Se ne stava lì, rannicchiato nella coperta, fissandolo con quegli occhi maledetti. Prusak non disse una parola, rimase lì, fissandolo a sua volta. Avvicinandosi sempre di più all'animale e non distogliendo mai lo sguardo da quei fari accesi, continuò a fissarlo. Il gabbiano sembrava volergli dire qualcosa con quello sguardo così ravvicinato.
Prusak si lasciò cadere sul letto, il sudore gli colava dalla fronte. "Cosa cazzo vuoi da me? Cosa cazzo volete da me?" mormorò, più a se stesso che all'uccello. Il gabbiano non rispose, ovviamente. Continuava a fissarlo con quei maledetti occhi azzurri e freddi. Prusak si prese la testa tra le mani, sentiva quelle pareti che gli giravano intorno. Si alzò traballando e andò verso il comodino, afferrò una bottiglia di whisky mezza vuota e ne bevve un lungo sorso tutto d’un fiato nella speranza di fuggire da quella scena.
"Allora," disse, voltandosi verso il gabbiano, "vuoi parlarmi dei miei demoni? Vuoi dirmi cose che già so?"
Il gabbiano non si mosse, non emise un suono. Prusak tornò a sedersi sul letto, la bottiglia stretta tra le mani. Si sentiva strano, come se qualcosa stesse per accadere. Ma forse era solo l'alcol, o la stanchezza.
"Sai," iniziò a dire, "ho combattuto questa battaglia per anni. Mosche, gabbiani, non fa differenza. Sono sempre lì, a ricordarmi cosa non voglio ricordare."
Il gabbiano inclinò leggermente la testa, come se stesse ascoltando. Prusak rise, una risata amara e senza gioia. "Che diavolo sto facendo? Parlo con un uccello come se fosse un umano."
Si sdraiò sul letto, sentendo la stanchezza prenderlo. Chiuse gli occhi, ma il pensiero del gabbiano non lo lasciava in pace. Alla fine, si arrese alla stanchezza e sprofondò nel sonno, con la consapevolezza che la battaglia non era finita. Ma per quella notte, almeno, c'era una tregua.
Si svegliò dopo circa un’ora e quel pennuto del cazzo stava ancora lì, lo fissava, come se aspettasse una reazione, un cenno. Prusak a quel punto esplose: “Cosa cazzo vuoi? Perché non vai via?!”
Il gabbiano accennò a un leggero battito d’ali e Prusak sentì una voce nella mente. Sì, il gabbiano gli stava comunicando con il pensiero. “Finalmente ti ho trovato. Io conosco tutti i tuoi segreti come tu conosci i miei. Io so chi sei, la tua vita, tutto il tuo passato, come tu conosci il mio. Sono venuto a prenderti finalmente.” Disse il gabbiano.
Prusak si bloccò. "Cosa sei? Un fottuto animale della morte vestito da gabbiano?" rise amaramente, la bottiglia ancora stretta in mano. "Sei qui per ricordarmi quanto sono stato una merda, giusto?"
Il gabbiano lo fissò, senza rispondere. Ma Prusak sentì una forza oscura premere contro di lui, forzandolo a guardare indietro nella sua vita. Vide le notti passate nei bar a ubriacarsi, le donne che aveva amato e poi lasciato senza un motivo, i pianti di una sera dentro l’auto di lei… si lei che cercava solo compagnia, i volti sfocati di amici e nemici. Vide le promesse infrante, i sogni mai realizzati, i viaggi mai fatti, i treni mai presi, vide suo padre che non era un padre, vide sua madre andata via troppo presto, ogni dettaglio gli scorreva davanti agli occhi, come un film in bianco e nero che conosceva troppo bene.
"Non c'è bisogno di ripassare tutto," mormorò Prusak, gli occhi chiusi. "So esattamente chi sono. Un vile che ha pensato più volte di farla finita ma che ma non ha mai avuto le palle per farlo."
Il gabbiano non disse nulla, ma Prusak sentiva la sua presenza, incombente e inevitabile. "Ho capito, sei qui per portarmi via, vero? Sei la morte che finalmente si è decisa a venire a prendermi. Ti aspettavo.”
Il gabbiano batté le ali una volta, leggermente, come un cenno d'assenso. Prusak rise, una risata senza gioia. "Bene, allora. Forse è meglio così. Non ho più niente da perdere, non lascio nulla, niente per cui vivere."
Si alzò dal letto, la bottiglia abbandonata sul pavimento. Si avvicinò alla finestra, la aprì del tutto. "Va bene, sono pronto," disse, guardando fuori nel buio della notte. "Portami via, se è questo che vuoi."
Il gabbiano volò verso di lui, ma Prusak non si mosse. Sentì le ali battere vicino al suo volto, il vento freddo contro la pelle. Chiuse gli occhi, aspettando la fine. Ma non questa non venne.
Invece, sentì una calma strana, una pace che non aveva mai conosciuto. Forse, pensò, la morte non è la fine, ma un nuovo inizio. Aprì gli occhi, e il gabbiano era scomparso. Al suo posto, solo il silenzio della notte e una strana sensazione di libertà.
Prusak tornò al letto, più leggero di quanto si fosse sentito in anni. Forse, finalmente, aveva trovato la sua tregua. O forse, la vera battaglia era appena iniziata. Poi pensò: “ peccato… potevo rivedere il mio cane.”-
- 2019 -
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