I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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Oltre il grembo
In una città senza nome, in un tempo indefinito, sei donne di trent'anni, ognuna in gravidanza, sentono che il momento è giunto per partorire. La gestazione ha raggiunto la sua corsa finale, come un treno che corre verso il capolinea. Non si parlano, non si consultano, ma ognuna di loro sente lo stesso impulso che le spinge a dirigersi verso l’unico cinema rimasto vuoto. Gli altri luoghi, come ogni altra cosa intorno a loro, sono occupati da presenze silenziose e invisibili, ma qui, tra le pareti stanche e la polvere dimenticata, c’è solo il vuoto. Nell'aria sospesa, quasi irreale, su quello schermo stanco viene proiettata "2001: Odissea nello Spazio". Un film dimenticato, giunto da chissà dove, una ricordo di un passato che non appartiene più a nessuno. Entrano senza esitazione, come se ogni altra scelta fosse stata cancellata da tempo. Si siedono una accanto all’altra, sprofondando nelle poltrone logore, simili alle panchine arrugginite di un parco abbandonato. Il proiettore si accende, e una luce fredda e distante illumina lo schermo. Le luci della sala si spengono, e il film inizia. Nessuna parola, nessuno scambio di sguardi. Solo il suono, prima leggero, poi crescente, che riempie il vuoto intorno a loro. Sul grande schermo, una scimmia curiosa armeggia tra le ossa di una carcassa, inconsapevole del significato del suo gesto. Colpisce con forza un osso e questo vola via nell’aria, danzando sulle prime note imponenti di "Così parlò Zarathustra" di R. Strauss. Le note rimbombano nella sala, e sembrano risuonare anche dentro le donne, come se bussassero alle loro pance, un richiamo profondo e inarrestabile. Il destino le chiama, e il tempo si stringe intorno a loro. Trasorre un’ora, e l’astronave sullo schermo danza nello spazio sulle note del "Danubio Blu" di J. Strauss. È in quel momento che le donne iniziano a sentire le doglie. I loro corpi rispondono a un impulso primordiale, inevitabile. Gli spasmi si intensificano, intrecciandosi alla melodia, come onde che si infrangono su una riva sconosciuta. Il dolore cresce con ogni giro della stazione orbitante, le urla che seguono si fondono con la musica, un valzer tragico, sublime. Nessuno accorre. Nessuno sente. Il mondo fuori resta immutato, distante, indifferente. Al culmine della sinfonia, proprio quando la stazione spaziale completa il suo giro, i sei bambini nascono. Sei maschi, nello stesso secondo, come se il tempo stesso si fosse piegato per permettere quell'evento. I vagiti dei neonati riempiono il cinema vuoto, ma nulla sembra cambiare oltre le sue porte chiuse. Le donne guardano i loro figli appena nati con occhi privi di emozione, come se la vita che hanno appena generato non avesse significato. Come se tutto fosse solo una scena ripetuta all’infinito, un frammento di un film ciclico, eterno, senza un vero inizio né una fine. Il silenzio è quasi assordante. E poi, accade l’impossibile. I sei bambini, adagiati sul pavimento polveroso, iniziano a crescere. A ogni giro della stazione orbitante sullo schermo, i loro corpi si allungano, le ossa si fortificano, i volti si scolpiscono in forme adulte. Ogni minuto che passa equivale a mesi della loro vita. Le donne osservano tutto questo con sguardi fissi, immobili. Non c’è stupore, non c’è terrore. Solo una calma innaturale, come se avessero sempre saputo che quel momento sarebbe arrivato. Le luci in sala si accendono per la pausa del primo tempo, e i bambini sono già uomini. Trent'anni in pochi istanti. Si guardano l'un l'altro, spaesati, nei loro occhi il peso di una vita che non hanno mai vissuto. Non conoscono ricordi, non hanno infanzia, eppure il loro corpo è quello di adulti. Si voltano verso le madri, cercando risposte, ma trovano solo volti spenti, segnati dallo stesso vuoto. La sala è silenziosa, il film sospeso tra un tempo e l'altro. Dentro di loro, i sei uomini sentono una tensione crescere, un bivio davanti a cui nessuno li ha preparati. Uno di loro si alza lentamente, le gambe rigide come se reggessero il peso di una scelta troppo grande per essere compresa appieno. “Tre di noi devono restare qui”, dice con voce spezzata dal silenzio. “E tre devono andare fuori.” Le parole riecheggiano nella sala vuota, penetrando l'aria immobile. La scelta è terribile, eppure necessaria. Rimanere nella sala, assistere al secondo tempo, forse scoprire la verità nascosta dietro quelle immagini; oppure uscire, affrontare il mondo esterno, dove la vita continua indifferente. Ma cos’è più reale? Il film o la vita là fuori? Le madri non parlano. Non è più il loro tempo. Il loro ruolo è quello di spettatrici, testimoni di un destino che non possono influenzare. Dopo un lungo silenzio, tre dei figli si alzano. “Resteremo noi”, mormora uno di loro, senza rabbia, senza paura. È una scelta silenziosa, rassegnata. Sanno che la loro storia è legata a quella pellicola che ancora non ha svelato tutto. Si siedono, pronti a guardare il secondo tempo. I loro volti sono illuminati dalla luce morbida del proiettore, mentre lo schermo nero attende. Gli altri tre si alzano, senza voltarsi indietro. Devono uscire, devono scoprire cosa c’è oltre il cinema, oltre il rifugio della la finzione onirica. Aprono la porta e un fascio di luce violento, irreale, li investe. Le loro sagome si stagliano nel chiarore, sagome di uomini che non hanno mai conosciuto davvero la vita. Quando i tre uomini varcano la soglia del cinema, vengono investiti da un’ondata di sensazioni discordanti. Il mondo esterno si rivela essere un paesaggio tanto familiare quanto straniero, un luogo sospeso tra la realtà e il sogno. La luce che li investe è di un bianco accecante, quasi irreale. Non proviene dal sole, che sembra assente dal cielo, ma emana da ogni superficie come se la città stessa fosse luminescente. Gli edifici si ergono come giganti silenziosi, le loro facciate lisce e monotone prive di finestre o dettagli architettonici. Le strade si estendono in tutte le direzioni, perfettamente dritte e vuote, come arterie di una metropoli fantasma. L'aria è densa e immobile, carica di nuvole immobili Non c'è vento, non c'è movimento, eppure i tre uomini percepiscono una vibrazione, come se la città stessa respirasse lentamente. Il silenzio è quasi tangibile, interrotto solo dal grido occasionale di uccelli invisibili. Questi suoni, però, sembrano provenire da ogni direzione contemporaneamente, rendendo impossibile localizzarne la fonte. È come se l'intero ambiente fosse un'illusione acustica, un'eco di vita in un mondo altrimenti statico. Mentre i tre avanzano cautamente, notano che le loro ombre non si comportano come dovrebbero. Si allungano e si contraggono in modo innaturale, a volte sdoppiandosi o scomparendo del tutto, indipendentemente dalla posizione della misteriosa fonte di luce. In lontananza, vedono quello che sembra essere un parco. Ma avvicinandosi, si rendono conto che gli alberi sono immobili, senza foglie che tremolano, senza rami che oscillano. Sembrano più sculture di alberi che piante vive. L'aria ha un odore sterile, privo delle fragranze tipiche di una città viva - niente smog, niente profumo di cibo, niente odore di pioggia o di erba tagliata. È come se l'intera città fosse stata sterilizzata, privata di ogni elemento organico eccetto loro stessi. Mentre esplorano questo mondo surreale, i tre uomini si rendono conto che, nonostante l'apparente vuoto, c'è una sensazione persistente di essere osservati. Non vedono nessuno, eppure sentono migliaia di occhi invisibili che seguono ogni loro movimento. Con ogni passo, cresce in loro la consapevolezza che questo mondo esterno, apparentemente vasto e vuoto, potrebbe essere altrettanto confinante quanto la sala del cinema che hanno lasciato. La domanda che si pone ora è: in questo luogo tra realtà e illusione, troveranno le risposte che cercano?
@GiuseppeLonatro2024
Id: 5797 Data: 28/09/2024 17:05:54
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Federico
Federico vagava per la città senza meta, i suoi passi erano lenti, come il respiro di un vento notturno che volgeva a scirocco, sfiorando pietre sconosciute di un mondo che non sentiva più suo. Non era sempre stato così. Un tempo, lontano, così lontano che sembrava un sogno, i suoi abiti brillavano sotto il sole del Mediterraneo, e la gente lo venerava come un dio. Federico era stato imperatore di quella città, una figura piena di luce e potere. La sua città, che sorgeva come una perla su un mare cristallino, risplendeva di giardini e pensieri. Aveva riempito le strade di intellettuali e poeti, aveva dato alla sua corte l'eleganza della conoscenza e il calore dell’arte e della letteratura. Ma ora, dopo quasi mille anni, si era risvegliato nella polvere e nell’oscurità della sua tomba regale. E la città, un tempo sua, lo osservava indifferente. "È possibile che questa sia la mia città?" si chiedeva, camminando tra quelle strade che non riconosceva più. "Dov'è finita la bellezza che ho creato? Dov'è la voce del mio mare?" Si guardava intorno, cercando disperatamente qualcosa che gli parlasse del suo passato, ma trovava solo frammenti. Una fontana in rovina, ormai silenziosa, lembi di palazzi trasformati, e un arco di pietra che si alzava come l'ombra sbiadita della sua antica grandezza. "Questo è ciò che resta di me? Di tutto quello che ho fatto?" Pensieri tristi gli affollavano la mente. Non c’era più nulla che fosse come lui lo ricordava. La città era cambiata, il mondo era cambiato. Tutto ciò che un tempo sembrava eterno ora era scomparso, dissolto come nebbia al sole. Le sue vesti funebri, la tonaca regale, la spada arrugginita alla cintura, la corona consumata dal tempo lo rendevano un'ombra tra ombre. Nessuno lo riconosceva. Nessuno capiva chi fosse. Le persone che lo vedevano passare lo scambiavano per un mendicante, uno dei tanti. "Non mi vedono," pensava. "Non vedono l’uomo che sono stato, vedono solo ciò che sono diventato. Cosa è cambiato in loro, o forse in me? Sono io che non li capisco più? O è il mondo ad essere impazzito?" Stanco, i piedi lo portarono inconsapevolmente verso la sua antica tomba. Era come se il corpo sapesse dove andare, anche se la mente rifiutava di accettarlo. Si sedette sul marciapiede, accasciandosi come un vecchio al termine del suo ultimo viaggio. Le pietre fredde sotto di lui sembravano l'unico legame con il mondo che conosceva. "Sono tornato per questo?", si chiese, fissando il nulla. "Per essere dimenticato, deriso?" Il suo sguardo vagava tra le facce anonime che lo ignoravano, tra le voci che si perdevano nell’aria, come se non avessero sostanza. "Cos'è questo mondo in cui vivo ora? Non lo comprendo… è troppo rapido, troppo caotico, troppo diverso da tutto ciò che ho conosciuto. La mia città è diventata una straniera per me e io sono lo straniero." Sentiva il peso dei secoli sulle spalle, una fatica che non era fisica, ma esistenziale. Federico si accorse allora che non c'era più alcuna differenza tra lui e quelle pietre su cui sedeva: entrambi erano relitti di un passato che non apparteneva più a nessuno. La gloria, la bellezza, la forza, tutto si era sgretolato, e ciò che rimaneva era solo silenzio. Un cane randagio si avvicinò, interrompendo il suo flusso di pensieri. Annusò la sua tunica, come cercando di riconoscere qualcosa che nessun altro poteva vedere. Federico lo osservò con uno sguardo che sembrava chiedere perdono per quella stessa indifferenza che ora lo circondava. Il cane, senza fare rumore, si sdraiò al suo fianco, come se comprendesse la stanchezza che li legava entrambi. Federico chiuse gli occhi, sentendo il calore dell'animale accanto a lui. Forse, pensò, questo era tutto ciò che restava. Quando il sole si alzò, la città si risvegliava. Le persone passavano accanto a lui, gettando sguardi distratti. Alcuni gli lanciavano una moneta, altri ridevano di quel vecchio strano, con quegli abiti fuori tempo. Nessuno vedeva l’imperatore che era stato, solo un uomo dimenticato, travolto dal tempo. "Eppure, tutto questo è stato mio," pensava ancora Federico, ma le sue parole non li ascoltava più nessuno. Così rimaneva lì, prigioniero tra due mondi: quello della gloria passata, che si sgretolava nei suoi ricordi, e quello dell'oblio presente, che lo avvolgeva senza pietà.
@GiuseppeLonatro2024
Id: 5785 Data: 20/09/2024 19:08:54
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Il viaggio
Da troppo tempo ormai ero seduto in quella macchina, non so quanto tempo era trascorso, sentivo come se la mia identità si era dispersa, come se non fossi mai stato altro che un uomo in perenne viaggio. I ricordi della mia vita passata si fermavano al momento in cui avevo imboccato quell'autostrada. Cercavo di concentrarmi, ma era impossibile ricordare il perché fossi partito o da dove provenissi. A tratti, dei fulmini di memoria mi suggerivano la presenza di qualcuno al mio fianco, una donna forse, ma il suo nome e il suo volto restavano indistinti, come il paesaggio che vedevo intorno a me. Il paesaggio fuori dal finestrino aveva qualcosa di anomalo, irreale. Non si trattava soltanto della monotonia dell’autostrada: era come se la nebbia leggera che avvolgeva tutto cancellasse ogni dettaglio, lasciando visibile solo la strada davanti a me, mentre ciò che stava oltre il guard-rail si perdeva in un vuoto grigio. Il tempo stesso non aveva più significato: ore, giorni o anni, non saprei dire quanto fossi rimasto a guidare immerso in quel nulla. Anche la radio non offriva alcun conforto: ogni stazione era un lamento di suoni striduli, privi di senso. Non avevo idea di dove mi trovassi. Il cielo era sempre lo stesso, coperto da dense nuvole grigie che impediva ai raggi del sole di andare oltre. Doveva essere giorno, pensavo, perché riuscivo a vedere chiaramente la strada. Eppure, non c'era alcun altro segno di vita, né umana né animale. Nessun altro veicolo mi sorpassava o mi precedeva, solo la lingua d’asfalto che si estendeva all’infinito. Anche la vegetazione sembrava essere stata cancellata da quel paesaggio a tratti gotico. Il cellulare era spento e non c’era verso di riaccenderlo. Il serbatoio della benzina restava fermo sul pieno. Non mi ero mai fermato a fare rifornimento, eppure continuavo a viaggiare. L’indicatore doveva essere rotto, pensavo, ma era un pensiero senza tanta convinzione. Quando gettai uno sguardo sul contachilometri, mi accorsi che avevo già percorso otto milioni di chilometri. Come poteva essere? Avrei dovuto essere morto, o perlomeno sfinito dalla fame e dalla sete. Non ricordavo nemmeno di aver mai mangiato o bevuto qualcosa o di essermi fermato in qualche stazione di servizio. Ad un tratto, mi tornò in mente la mia compagna di viaggio. Ricordavo vagamente che era stata al mio fianco per una parte del tragitto. Era giovane, più giovane di me, ma non riuscivo a ricordare quando fosse sparita, né se ci fossimo mai davvero salutati. La mia angoscia cresceva sempre di più. Perché non riuscivo a fermarmi? Ero spinto da una forza invisibile, incapace di rallentare, obbligato a proseguire sempre dritto, senza una meta. La paura montava dentro di me. Era una paura senza forma, una paura del vuoto, del silenzio, del grigio che mi avvolgeva. La radio continuava a gracchiare, un lamento distante, un segnale che non potevo decifrare, il cellulare sempre spento. Mi sforzavo di dare un senso a tutto questo, ma ogni ipotesi si scontrava con l'assurdità della situazione. Forse ero morto, pensai. Forse questo era l'aldilà, un viaggio eterno senza compagnia, un castigo inflitto per delle colpe che non ricordavo. O forse non ero mai esistito davvero o potevo essere l'anima di qualcuno mai nato, condannato a vagare in un mondo che non potevo comprendere, incapace di riconoscere il paesaggio o la musica, perché non li avevo mai conosciuti. Ma no, non poteva essere. Come avrei potuto sapere cosa fosse un’automobile o come guidarla, e se non fossi mai esistito? Una terza ipotesi mi attraversò la mente: forse il mondo stesso non esisteva più, e io ero rimasto solo in un universo di nulla. Un ultimo residuo di coscienza in un mondo svanito. Ma perché io? Perché ero io a percepire questa realtà, e non gli altri? L'angoscia cresceva, e con essa la consapevolezza che nessuna risposta sarebbe mai venuta. Ero solo, su quella strada infinita, spinto da una volontà che non era la mia, senza poter scendere, senza poter fermare il veicolo. Intanto la benzina non finiva mai. Il contachilometri continuava a salire. Il cellulare era come se non esistesse, e io, condannato a questo viaggio senza fine, mi rendevo conto che dovevo smettere di pensare, smettere di chiedermi cosa fosse accaduto, sentivo solo e semplicemente il bisogno di guidare, guidare e guardare avanti, non domandarmi più nulla. Solo la strada contava. Dovevo abbandonarmi all’oblio, lasciare che tutto questo assurdo mi avvolgesse.
@GiuseppeLonatro2012-2024
Id: 5783 Data: 19/09/2024 19:19:12
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L’alienazione dell’autunno
Prusak veniva sollevato in aria dal padre, le mani grandi che lo stringevano con un gesto impacciato, quasi goffo, come se tentasse di afferrare qualcosa di sfuggente. Era un modo per avvicinarsi al figlio, per cercare un contatto che non sapeva come instaurare, un tentativo maldestro di costruire un ponte tra due esistenze che si sfioravano senza toccarsi davvero. La terrazza dove si trovavano si apriva su un paesaggio che sembrava non avere fine, una distesa di alberi di mandarino che si estendeva fino all’orizzonte. Il profumo dolce e penetrante dei frutti riempiva l’aria, mescolandosi al vento che portava con sé il silenzio di un tardo pomeriggio. Poche case basse, tutte sparse come se fossero state abbandonate lì per caso, punteggiavano il terreno. Non più alte di tre piani, sembravano appartenere a un’altra epoca, a un tempo in cui la vita si muoveva con una lentezza ormai perduta. I grandi palazzi, che un giorno avrebbero invaso il paesaggio, non esistevano ancora, e il mondo intorno a loro era dominato da un silenzio atavico, quasi innaturale. Eppure, padre e figlio stavano lì, immersi in quel silenzio, senza sapere davvero cosa fare. Il gatto di casa, stava accovacciato sugli scalini che conducevano al terrazzo, li osservava con la sua curiosità distante, i suoi occhi gialli che seguivano ogni loro movimento. Sembravano manichini, immobili in una scena pronta per essere immortalata, congelati in un momento che non sapevano come riempire. L’autunno avanzava lentamente, portando con sé l’odore acre delle foglie marce e il profumo umido della terra bagnata. Prusak aveva poco meno di un anno, l’unico erede di quella casa che gravava su di lui come un fardello. Era una dimora piena di ricordi che sembravano respingere il presente, un luogo dove le pareti puzzavano di vecchiaia, impregnate di un passato che si era consumato troppo in fretta. La madre di Prusak trascorreva le giornate tra i silenzi domestici, persa in una perenne apatia. Non parlava molto, se non per scambiare qualche parola distratta con la vicina, ma anche quelle conversazioni erano svuotate di significato, ridotte a semplici suoni che riempivano il vuoto. Quando usciva per fare la spesa, lo faceva in fretta, quasi con ansia, come se fuggisse da qualcosa che non riusciva a nominare. Rientrava poco dopo, cercando disperatamente un senso che non trovava mai tra quelle mura familiari che le apparivano sempre più estranee. Spesso si sedeva nella stanza dei libri, tanti libri, dove una poltrona rossa sembrava sfidare tutto ciò che la circondava, ma anche lì non trovava sollievo, solo il peso del tempo che scorreva senza portare nulla di nuovo. Il padre di Prusak era un uomo segnato, il suo volto era la mappa di una vita fatta di sacrifici e frustrazioni. Si alzava ogni mattina all’alba per andare al mercato, sperando di trovare una fortuna che continuava a sfuggirgli. Ma le sue speranze si infrangevano contro la dura realtà, e tornava a casa la sera, spesso a mani vuote, con lo sguardo abbattuto come di un cane bastonato. Non era un uomo cattivo, solo un uomo spezzato, intrappolato nella sua stessa vita che lentamente lo stava consumando. Viveva nella speranza di un domani migliore, ma ogni giorno era uguale al precedente, e la sua vita si era ridotta a una serie di gesti meccanici, privi di significato. Prusak era ancora troppo giovane per comprendere tutto questo, ma lo sentiva, come si sente l’umidità che penetra nelle ossa durante le giornate di pioggia. Era un bambino silenzioso, spesso lo si trovava a guardare fuori dalla finestra, i suoi occhi fissavano per ore la pioggia che solcava i vetri. Non vedeva strade, solo macchie di verde, e non si faceva domande. Un innocente prigioniero di quella teatralità domestica, costretto a vivere in una casa che sembrava marcire con la stessa cadenza delle foglie che cadevano dagli alberi. Cresceva, ma la sua anima si spegneva a poco a poco, soffocata dalla noia e dall’indifferenza che lo circondava. E mentre il tempo passava, la casa continuava a deteriorarsi, come se il suo declino fosse inevitabile, inesorabile. Prusak continuava a guardare dalla finestra, il suo sguardo perso in un futuro che non riusciva a immaginare, mentre la sua vita scivolava via, come acqua sporca in un lavandino intasato. Ogni giorno era una ripetizione del precedente, e in quel mondo fatto di silenzi e ombre, l’unica cosa che sembrava avere un minimo di comprensione per la triste commedia che si svolgeva in quella casa era il gatto, che continuava a crogiolarsi sugli scalini, indifferente a tutto ciò che lo circondava. Prusak continuava a guardare dalla finestra.
@GiuseppeLonatro2024
Id: 5765 Data: 30/08/2024 17:43:30
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La sospensione del tempo
La pistola pesa nella mia mano, fredda e indifferente. La estraggo dalla tasca, un gesto meccanico privo di significato. L'ho fatto tante volte. L'odore di polvere da sparo persiste nell'aria, mescolandosi con quello della morte imminente. Tento di mascherarlo con profumi artificiali, aromi presi dai cinesi: un'inutile farsa come tante altre che riempiono le nostre vite. Cerco il corpo dell’uomo, spinto da una logica assurda che nemmeno io comprendo. Non lo trovo. Sento ancora lo sparo nella mia mente, un suono vuoto in un mondo privo di senso. La stanza mi circonda, indifferente alla mia ricerca, al mio disagio, alla mia stessa esistenza. A un certo punto però, un rumore cattura la mia attenzione. Mi volto e lo vedo: è seduto al tavolo, intento a consumare quello che sa essere il suo ultimo pasto. I nostri sguardi si incrociano e in quell'istante la verità mi colpisce con la forza di un'epifania assurda. Quell'uomo intento a cenare in solitudine sono io! Io, invecchiato, segnato dal tempo e dalle scelte, in attesa della fine che ho già stabilito. Il me stesso più giovane, che ha appena premuto il grilletto, e il me stesso più anziano, che attende la morte, si fondono in un unico essere, in un paradosso temporale che sfida ogni logica. Osservo le mie mani rugose che tagliano lentamente la carne, un gesto banale mentre un rigolo di sangue gli cala dalla testa. Il rumore delle posate assume un significato quasi ovattato e cosmico. Ogni boccone, lento, uno dopo l’altro, uno dopo l’altro, è un addio alla vita, un atto di ribellione contro l'assurdità di questa esistenza. "Qualcosa non va?!" mi chiedo, e la domanda risuona nella stanza vuota, eco dell'eterno dialogo con me stesso. La pistola cade a terra, con un tonfo sordo che segna la fine di un'illusione. Il tempo si piega su se stesso; passato e futuro collassano in un presente eterno e immutabile. In questo momento di lucida follia, comprendo che la mia ricerca era vana: il corpo che cercavo ero io stesso, da sempre seduto lì, sono stato sempre lì, in attesa di compiere l'ultimo atto di questa farsa che chiamiamo vita. L’uomo—me stesso—continua a mangiare, ogni boccone un atto di sfida contro il destino che ho scelto e al contempo subito. L'assurdità della situazione mi avvolge, ma non provo né paura né rimpianto. Solo una calma accettazione, mentre attendo che il cerchio si chiuda e che il giovane che ero diventi l'anziano che sono, in un eterno ritorno di un istante sospeso tra la vita e la morte. L'uomo vecchio, con un'aria di calma rassegnazione, finisce lentamente il suo pasto. Ogni boccone è un ultimo saluto, un rituale di addio alla vita che ha condotto. Quando l'ultimo frammento di cibo sparisce dalla sua bocca, posa con cura le posate sul piatto. Il suono metallico del coltello e della forchetta rimbomba nella stanza, segnando la fine della cena e, in qualche modo, della sua stessa esistenza. Senza esitare, il vecchio sposta lo sguardo sulla pistola appoggiata sul lato sinistro del tavolo. La prende con la mano tremante, ma decisa, come se fosse l’atto finale di un copione già scritto. Solleva l’arma, puntandola alla sua testa. I nostri sguardi si incrociano per un’ultima volta, e in quegli occhi stanchi riconosco la determinazione di chi sa che il suo destino è stato scelto e che non c’è via di fuga. Con un movimento lento ma fermo, preme il grilletto. Un lampo accecante esplode nella stanza, seguito dal rumore sordo del colpo. Il corpo dell’uomo vecchio si affloscia sulla sedia, la testa ciondola in avanti, e il sangue comincia a scorrere sul tavolo, mescolandosi ai resti del pasto appena consumato. Osservo la scena, impietrito, mentre il tempo sembra fermarsi ancora una volta. Il corpo senza vita dell’anziano resta immobile per qualche istante, ma poi la sua figura comincia a dissolversi, come sabbia soffiata via dal vento. Mentre accade, sento qualcosa di strano che mi attraversa, un filo invisibile che mi lega a quel corpo che si disintegra davanti ai miei occhi. Dopo qualche secondo, percepisco un improvviso cedimento dentro di me. Le forze mi abbandonano e, senza potermi opporre, cado a terra. Il pavimento sembra liquefarsi sotto di me, come se la realtà stessa si stesse frantumando. Il mio corpo comincia a dissolversi, proprio come quello dell’uomo anziano. Lentamente, scompaio, dissolvendomi nel pavimento, in un’ultima fusione tra il giovane che ero e l’anziano che sono stato destinato a diventare. Il cerchio si chiude, e in quell’ultimo istante sospeso tra la vita e la morte, comprendo che tutto è compiuto. Il silenzio torna a riempire la stanza, ora vuota, come se nulla fosse mai accaduto. La vita riprende il suo caos.
@GiuseppeLonatro2024
Id: 5764 Data: 28/08/2024 19:07:03
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La vita è altrove
Amare era un territorio incerto, un intervallo che poteva durare minuti, anni o una vita intera. Federico, con un sorriso paralitico, faceva sparire tutto ciò che lo circondava, ignaro che gli altri non se ne accorgessero, mentre i gatti giocavano con i gomitoli nella sua mente. Ogni passo era un sospiro, un’amnesia eterna, come un bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto, privo di speranza e senza eccezioni. Non c'era nulla di straordinario nell'amare un fiore o nel rifiutarsi di dormire per continuare a mangiare, come idioti che si ostinavano a vivere di ricordi e speranze. La vita è sempre altrove. Le persone importanti si riconoscono; sono quelle che non si perdono facilmente, anche quando se ne vanno, come poesie per pochi che rimangono per sempre. L'amore non offre mai vie d'uscita, solo un labirinto che si disegna da sé, un profumo intenso privo di vera sincerità, e Federico lo sapeva bene. Tutti possono commettere errori, ma lui ne fece uno ancora più grande: desiderare di crescere, di sentire, di respirare più a fondo la vita, ignorando il sorgere del sole a est, le opinioni altrui, l'arroganza di coloro che avevano smesso di giocare. Per lui, i legami non erano più esclusivi, ma riservati a pochi. Rifletteva sulla sua vita, una sequenza di donne perse e ritrovate, come onde che si infrangono sulla riva e poi si ritirano, lasciando solo una risacca di ricordi. Ogni incontro era stato un tentativo di sfuggire al silenzio che lo avvolgeva, un tentativo di dare un senso a quel vuoto incolmabile. Le sue giornate erano fatte di silenzi, di torte mai mangiate, di saluti forzati, di telefonate mai prese, di apparenze e case perfette, di vaffanculi mai detti, di sogni non sognati, di risvegli notturni, di frigo svuotato, di occhi di un colore che non vorrebbe, di maschere indossate per una società che si trascinava ai margini di un precipizio nichilista. Federico si era adattato a quel teatro dell'assurdo, recitando ruoli che non gli appartenevano, e gli venivano bene, sorridendo a persone che non conosceva, mentre dentro di lui si agitavano verità mai dette. La verità, pensava, era come una ferita che non guariva mai. Ogni parola non detta era un peso che cresceva, un masso che si accumulava nell'anima. Voleva urlare la sua verità, voleva liberarsi di quelle catene invisibili, di quei preconcetti, di tutte le falsità e idiozie che sentiva, ma ogni volta si tratteneva, imprigionato dalla società. La vita sta sempre altrove, come un miraggio che si allontana ogni volta che si tenta di raggiungerlo. Era tentato di farla finita, di chiudere quel capitolo di sofferenza e disillusione, ma poi un pensiero lo tratteneva: prendere un treno e andare lontano, lontano da tutto, verso un luogo dove nessuno lo conoscesse, dove potesse essere finalmente se stesso, senza maschere, senza finzioni. Federico guardava il cielo e si chiedeva se fosse possibile rinascere, ricominciare, se ci fosse un posto in questo mondo dove la verità potesse essere detta senza timore. Sentiva che la vita era altrove, in un luogo che non aveva ancora trovato, in un tempo che non aveva ancora vissuto. “Ma esiste quel posto?” pensava. Dove l'amore non era un labirinto e dove le parole potevano finalmente essere dette per quello che sono veramente.
- 2024 -
Id: 5750 Data: 05/08/2024 10:28:01
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Le Cicale spezzate
Lei, nascosta dietro l’ombra dell’albero con un bambino tra le braccia, osserva il marito che divora avidamente una pizza, impregnata del suo stesso sudore. Lui, annoiato, regge la testa stanca con una mano, mentre lei, esausta, scaccia mosche con un ventaglio strappato. Chissà se il vento di Grecale lo trapassa. Lei, in piedi, fissa i topi da lontano mentre corrono verso l’ultimo rifugio, forse in cerca di aria condizionata. Lui corre tra i tavoli, con piatti ancora caldi ma privi di anima. E le cicale osservano in silenzio. Loro, i bambini cattivi come le cicale, scalpitano senza meta tra sedie e tavoli, sbucciandosi le ginocchia. Loro, con i bicchieri rotti, versano sangue bianco per l’ennesimo compleanno non voluto. Lui, con una sigaretta in bocca, cerca un angolo dove isolarsi dal vociare e dallo strepitio delle oche, o forse solo un posto per continuare a vivere in solitudine. Lei continua a piangere, ridendo istericamente mentre scarta l’ultimo regalo, e le cicale cadono sui tavoli. Lui spegne la sigaretta sul suo braccio. Lei non sente dolore, ne ha già provato troppo nella sua vita. Parla incessantemente con se stessa, aspettando lui mentre si annega nel vino bianco, pensando alle cicale come saranno se solo fossero ubriache. Lui annaspa come una rana alla deriva, in cerca di donne affettuose. Lei vive nel suo guscio, creato a sua immagine, e pensa che il mondo fuori non le appartenga, non ha mai visto il Natale. Le cicale cantano solo in estate. Lui cammina con i piedi tra i vetri rotti, in un labirinto di ossessioni da raccontare… magari alle cicale.-
Id: 5749 Data: 03/08/2024 08:01:34
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La mantide religiosa
Tecla si svegliò. Non sapeva dove si trovasse, aveva i polsi e le caviglie legate da una robusta corda, dentro il cassone di un furgone, immerso in una foresta. Il buio e il silenzio la avvolgevano, creando un senso di smarrimento e paura. L'aria era piena di umidità e l'odore di terra bagnata riempiva le sue narici. In qualche modo, con una forza che non sapeva di possedere e che nasceva dalla disperazione, riusciva a liberarsi, a sciogliere i nodi che la imprigionavano. Con le mani tremanti e scorticate, riusciva ad aprire il portellone del furgone e scappava, inciampando sui propri passi, correndo disperatamente in mezzo agli alberi, in mezzo a quel buio insignificante. Le foglie strepitavano sotto i suoi piedi, il cuore le martellava nel petto e ogni ombra sembrava un pericolo incombente. Dopo un tempo che le sembrava infinito, si fermava, ansimante, in mezzo alle ombre degli alberi. In quell'istante, tra il respiro affannoso e il fruscio delle foglie, notava delle minuscole luci che sembravano danzare in quell’oscurità. Non erano lucciole, sebbene si muovessero come loro. Tecla rimaneva immobile, affascinata e allo stesso tempo terrorizzata, osservando quelle luci misteriose che insieme alla luna, illuminavano la notte. Tecla, presa da una strana euforia che non riusciva a controllare, cominciava a tendere le mani verso quelle luci. Ogni parte del suo corpo era attratta da quei bagliori, come se quelle luci contenessero qualcosa che le appartenesse. Con un sorriso quasi infantile, cercava di afferrarle, saltellando tra le ombre degli alberi come un folletto. Ma ogni volta che pensava di essere vicina a toccarle, le luci sfuggivano dalle sue dita. Quell’entusiasmo involontario la trascinava sempre più in là, facendole dimenticare la paura e il dolore. Rideva, una risata che suonava estranea alle sue orecchie, quasi aliena nella sua disperazione. Le luci sembravano prendersi beffa di lei, allontanandosi e riavvicinandosi, in un gioco crudele e allo stesso tempo affascinante. Tecla continuava a inseguirle, finché, esausta, inciampava su una radice di larice sporgente e cadeva a terra. Tutto intorno a lei girava vorticosamente mentre cercava di rialzarsi, ma le forze la stavano abbandonando. Si stendeva sul terreno umido, i suoi occhi ancora fissi sulle luci che continuavano a danzare sopra di lei, come se la osservassero. Il suo respiro si faceva lento e profondo, il battito del cuore rallentava. Stremata, sentiva le palpebre chiudersi, mentre una strana pace la pervadeva. In quella foresta sconosciuta, con quelle luci misteriose come unica compagnia, Tecla si addormentava, lasciandosi andare alla notte. Tecla si risvegliava lentamente, avvolta da una sensazione di freddo e umidità. Apriva gli occhi con fatica, aspettandosi di vedere i primi raggi del sole filtrare tra gli alberi, ma la luce dell'alba non c'era. Intorno a lei, l'oscurità persisteva, come se quella notte non volesse cedere il passo al giorno, anche la luna stava al suo posto. Un senso di smarrimento la pervadeva, mentre si metteva seduta e cercava di orientarsi in quel buio così innaturale. Il silenzio era opprimente, interrotto solo dal lieve fruscio delle foglie mosse dal vento. Tecla si alzava lentamente, i muscoli ancora indolenziti dalla notte precedente, e guardava intorno a sé con occhi pieni di apprensione. Nonostante l'oscurità, riusciva a distinguere vagamente le sagome degli alberi che la circondavano, ma tutto sembrava avvolto da una strana penombra che non apparteneva né alla notte né al giorno. Un tempo fermo. Il cielo sopra di lei era di un grigio scuro uniforme, senza stelle né luna. Tecla sentiva il panico risalire, ma cercava di mantenere la calma. Doveva capire cosa stava accadendo e cosa gli era accaduto, soprattutto, come uscire da quella foresta. Camminava lentamente, attenta a ogni suono, a ogni movimento intorno a lei. I suoi pensieri correvano veloci, cercando di mettere insieme i pezzi di quel mistero. Le luci della notte precedente erano scomparse e Tecla continuava a camminare, sperando di trovare un segno, una traccia che le indicasse la strada. Ogni passo era un atto di volontà, un tentativo di non cedere alla disperazione che minacciava di sopraffarla. Mentre avanzava, l'oscurità sembrava farsi sempre più densa, quasi palpabile. Ma Tecla non si fermava. Doveva trovare una via d'uscita, doveva scoprire cosa stava accadendo. Ogni passo era un atto di sfida contro l'oscurità che la circondava. Ad un certo punto, tra gli alberi, notava di nuovo quelle piccole luci danzanti. Il loro bagliore era ipnotico, quasi confortante, in mezzo a quel buio incessante. Si avvicinava cautamente, il cuore che batteva forte nel petto. Man mano che si avvicinava, una delle luci sembrava separarsi dalle altre, fluttuando verso di lei. In quell'istante, Tecla sussultava: in quella luce, distingueva il viso di un uomo che in passato aveva amato, Prusak. I suoi lineamenti erano chiari, illuminati da una luce impalpabile e surreale. I suoi occhi la guardavano con un'espressione di dolcezza e malinconia, risvegliando in Tecla ricordi che credeva di aver sepolto per sempre. La loro storia riaffiorava nella sua mente con una vividezza dolorosa. Si erano incontrati in un periodo difficile della sua vita, e l'amore tra loro era stato intenso, travolgente e al contempo violento. I loro momenti felici erano stati brevi, interrotti da lunghe liti, gelosie e incomunicabilità, con intermezzi di serenità che duravano poco. Ma si amavano, di un amore tossico. Prusak non ne poteva più, non sapeva come lasciarla al suo destino di “mantide religiosa”. Tutte le sue storie erano finite con la fuga disperata di uomini che erano finiti nei suoi artigli. Non sapeva come porre fine a quel supplizio, a quella tortura quotidiana, anche se provava per lei un’attrazione che non riusciva a spiegare. La vista di Prusak in quella luce danzante la riempiva di emozioni contrastanti. Una parte di lei voleva fuggire, scappare da quei ricordi dolorosi. Ma un'altra parte, più forte, sentiva il bisogno di avvicinarsi, di comprendere cosa significasse quella visione. Si avvicinava lentamente, mentre allungava un dito verso il volto di Prusak. "Prusak," sussurrava, sentendo le lacrime riempirle gli occhi. "Perché sei qui?" La luce non rispondeva, ma sembrava avvolgerla. Tecla iniziava a piangere, di un pianto convulso e inarrestabile. Sentiva dentro di sé tutto il male che aveva fatto a quell’uomo, sentiva la disperazione che traspariva da quel volto e rivedeva il suo suicidio avvenuto anni prima. Lei era stata la causa della sua morte. Prusak aveva sempre cercato di vedere il lato migliore di Tecla, convinto che dietro la sua apparente crudeltà si nascondesse una donna vulnerabile e ferita, ma era solo una donna sola. Col passare del tempo, le sue speranze si erano trasformate in delusione e disperazione. Le continue liti, le accuse ingiuste, le scene di gelosia avevano consumato la sua forza vitale. Ogni tentativo di riconciliazione si concludeva con nuovi conflitti, ogni gesto d'amore da parte di Prusak, veniva distorto e manipolato dalla donna che pensava di amare. Una notte, dopo l'ennesima discussione violenta, Prusak si era ritirato nella sua solitudine, avvolto in un dolore insostenibile. La sua mente era un vortice di pensieri oscuri, il suo cuore un peso insopportabile. Aveva scritto una lettera, cercando di spiegare il suo gesto, ma le parole sembravano vuote, incapaci di esprimere la profondità di quella sofferenza. Si era tolto la vita sparandosi un colpo di pistola in bocca, convinto che solo così avrebbe trovato la pace che Tecla non poteva dargli. Tecla, ora, comprendeva la portata del suo comportamento, la devastazione che aveva causato a quell’uomo. Le lacrime scendevano copiose, lavando via anni di dolore represso. La visione di Prusak, avvolto in quella luce, sembrava offrirle una possibilità di redenzione, un ultimo addio che le permettesse di andare avanti. Con un ultimo sguardo a quel volto amato, Tecla sussurrava una richiesta di perdono. Poi, con il cuore pesante ma deciso, si voltava e continuava a camminare. L'oscurità intorno a lei sembrava meno opprimente, come se la luce di Prusak l'accompagnasse nel suo cammino. E in quel silenzio, tra le ombre degli alberi, Tecla trovava la forza di cercare la sua via d'uscita. Camminava senza una meta precisa, i suoi passi guidati solo dalla speranza di trovare una fine al suo tormento. Il bosco sembrava interminabile, un labirinto di alberi e ombre che non offriva alcuna via d’uscita. Ogni tanto, la luce di Prusak appariva tra i rami, come una guida silenziosa che la spingeva avanti. Tecla sentiva il peso del passato gravare su di lei, ogni ricordo un colpo al cuore, ogni rimorso una catena invisibile. Infine, giunse a un dirupo che dava sul mare. Il vento iniziava a soffiare forte, portando con sé il profumo salmastro delle onde che si infrangevano contro le rocce sottostanti. Tecla si fermava al bordo del precipizio, guardando giù verso l'acqua scura. Il cuore le batteva freneticamente, ma in quel tumulto trovava una strana calma, una pace che non aveva mai conosciuto. Si voltava per un ultimo sguardo verso il volto luminoso di Prusak. I suoi occhi la fissavano con dolcezza, come a incoraggiarla. Non c'era giudizio in quello sguardo, solo comprensione e un silenzioso addio. Tecla sentiva il legame tra loro finalmente sciogliersi, come se il suo spirito fosse finalmente libero di andare oltre. Con un profondo respiro, si preparava al suo ultimo atto di liberazione. Ogni passo che la avvicinava al bordo del precipizio era un atto di volontà, un abbandono definitivo al destino che aveva scelto. Sentiva le lacrime scorrere lungo il viso, ma non c'era più dolore, solo una risoluta determinazione di farla finita. Corse, con una frenesia che sembrava alimentata da una forza sovrumana. Gli alberi si sfocavano intorno a lei, il suono del mare diventava sempre più forte. Con un urlo liberatorio, Tecla si lanciava dal precipizio. L'aria le frustava il viso, il mare si avvicinava rapidamente. In quegli ultimi istanti, sentiva una leggerezza, come se tutti i suoi tormenti e le sue colpe fossero lavati via. Il volto di Prusak si dissolveva nella luce, e Tecla capiva che anche lui era finalmente libero da quella catena. L'impatto con l'acqua era violento, ma Tecla non sentiva più dolore. La sua coscienza si spegneva lentamente, avvolta dal freddo abbraccio del mare. E così, in quel momento, trovava la pace che aveva cercato per così tanto tempo. La “lupa maledetta” era finalmente libera, e con lei, Prusak trovava la pace oltre i ricordi e il dolore di questa vita.- - 2024 -
Id: 5744 Data: 17/07/2024 11:44:29
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Dio sa dove trovarmi
Dio mi sta cercando. Io lo sto aspettando. Ormai i piatti si accumulavano sul lavello della cucina da giorni, forse settimane. Il frigo vuoto tranne per qualche lattina di birra scadente. Formiche correvano come pazze per l’ultimo pezzo di pizza abbandonato forse la sera prima. Il rubinetto della cucina perdeva, ogni goccia era come un colpo di martello sulla testa, una goccia cinese e questo mi faceva impazzire. E io? Io avevo bisogno di dormire, ma il sonno era un lusso che non potevo permettermi. Da quanto non dormivo? Vagavo per la casa come un cadavere, appena risorto dalla tomba. Non mi sembrava nemmeno più casa mia quella. Ero sempre stato solo? O vivevo con qualcuno? Non ricordavo nulla del giorno prima, né degli altri ancora, sentivo solo questo bisogno disperato di dormire. Così decisi di mettermi a letto. Nudo fissai le pareti spoglie della stanza, solo qualche sedia sgangherata, un lenzuolo sporco per terra, un armadio senza ante e senza vestiti. Il soffitto mi fissava, quasi a giudicarmi. In un lato del letto un comodino bianco macchiato di chissà cosa, una foto di una donna che non riuscivo a riconoscere, e quell’odore acre che non sapevo da dove arrivasse, forse dalle viscere stesse del mio stomaco o della mia anima. Guardavo il soffitto come se fosse uno schermo maledetto, sembrava proiettare un film in bianco e nero: immagini sfocate che lentamente diventavano sempre più nitide. Visi di donne si susseguivano, un corteo di donne dimenticate? “Quante ne sono passate nella mia vita?” pensai. Alcune le ricordavo bene, erano frammenti nitidi, altre no. Sono state poche cose o deliri a colori, nella mia testa frullavano come arance con tutta la buccia, alcune confessavano i loro peccati altre ne accendevano, di peccati o forse non le avevo mai viste, fantasmi della mia mente. L'angoscia mi stringeva la gola. Chi ero? Cosa facevo? Non ricordavo nemmeno il mio nome, non mi riconoscevo più nemmeno nello specchio incrinato alla sinistra del mio tormento. Quelle figure di donne, alcune familiari, altre estranee, mi facevano sentire ancora più perso, ancora più solo. Come potevo essere così straniero a me stesso? Non trovavo risposte, solo quel bisogno disperato di scivolare nel sonno e sfuggire da ogni cosa. “Laura, quella è Laura!” Me la ricordo bene Laura. Era una di quelle bellezze che ti colpiscono subito, occhi grandi da cerbiatta e un sorriso solare. Ricordo il suo altruismo, sempre pronta a dare tutto agli altri, sempre lì, per chiunque ne avesse bisogno, o forse lo faceva solo per liberarsi l’anima da libertina con il velo. Non ricordo come ci siano conosciuti, ma rammento che dentro di lei c’era anche una tempesta. Era come un vulcano pronto ad esplodere da un momento all’altro. Diceva di essere felice con me, e a volte ci credevo anche. Ma poi, senza preavviso, scoppiava il temporale. Urlava, piangeva, e poi spariva, così, senza motivo. Spariva per giorni, settimane. E quando tornava, era come se nulla fosse accaduto, “Ho preso un treno qualsiasi”, mi diceva. Così, come la cosa più naturale al mondo. E poi il ciclo ricominciava. Era una contraddizione costante, altruista, generosa ma piena di demoni che non riusciva a domare. E io? Io ricordo che ero solo uno spettatore impotente, succube del suo uragano, incapace di lasciarla andare, perché ero affascinato dalla sua bellezza ma soprattutto dalla sua follia. Poi, un giorno, Laura sparì, come sempre, così all'improvviso, ma stavolta non prese un treno. Non ricordo nemmeno cosa fosse successo. Forse una delle sue solite tempeste, forse una delle sue fughe improvvise. Ma c’era più. Il suo posto sul letto era vuoto, il suo profumo nell’aria e i suoi vestiti svaniti. Ogni traccia di lei, evaporata. Cercai di ricordare l’ultima cosa che ci dicemmo, l’ultimo sguardo, l’ultimo tocco. Niente. Solo un vuoto insopportabile. Era come se fosse stata solo un sogno, un’allucinazione. E io? Io restavo lì, con i miei demoni e quella stanza da fissare, cercando di capire cosa fosse andato storto. Quell’odore acre alle narici diventava insopportabile e avevo sonno, una terribile voglia di dormire o di morire. Sarà la stessa cosa? Le immagini sul tetto scorrevano a volte lente, altre veloci. Intravedevo momenti di vita che mi tornavano alla mente: un uomo alla finestra che piange, una donna che partorisce, un bambino che gioca con il lego, tante mosche, un prete, una chiesa, una sirena, sangue, mentre altre immagini non mi dicevano nulla, non mi appartenevano. Poi la sequenza rallenta, fino a a fermarsi sul viso di una donna. “Tecla, questa è Tecla! Santo Dio, da quanto tempo… quanto tempo è passato dall’ultima volta che siamo stati insieme!” Di lei rammento tutto. Conobbi Tecla una sera mentre camminavo solo lungo il viale della città, durante le mie solite passeggiate serali a rubare i pensieri degli altri. Era inverno e piovigginava, una di quelle sere in cui il freddo ti entra nelle ossa e la pioggia ti martella il cranio. Già, il cranio. Lei mi si piantò davanti all’improvviso, con i vestiti fradici e un’aria impaurita. Mi chiese di accompagnarla a casa, diceva di sentire qualcuno alle sue spalle che la seguisse. La guardai per un attimo: occhi azzurri, capelli castani lunghi e ondulati, sembrava appena uscita dal parrucchiere. Una donna minuta, ma con un corpo carnoso che non si dimentica facilmente. Le dissi di sì. Camminammo in silenzio, le nostre ombre danzavano sotto i lampioni. La pioggia cadeva incessante, rimbalzava sui marciapiedi e formava pozzanghere che riflettevano la nostra immagine distorta. La mia ombra lunga, la sua corta. Sentivo il suo respiro affannoso, a metà tra il sollievo e la paura. Finalmente arrivammo al portone di casa sua. Mi ringraziò con un filo di voce, mi prese la mano e ci salutammo. Quel tocco era caldo, un contrasto assurdo con la notte gelida. Tecla era una donna diversa dalle altre. Mentre tornavo a casa, il suo viso mi restava impresso nella mente. Pensai che poteva stare chiusa in una valigia e portarla a spasso. Una donna da tenere stretta, da proteggere. Non riuscivo a togliermela dalla testa. C’incontrammo altre volte, per caso, dato che abitavamo a poche centinaia di metri l’uno dall’altra. Alla fine, ci davamo appuntamento ogni mattina per fare colazione insieme. Le nostre soste duravano un’ora, forse meno, forse più, non lo so, il tempo con lei si fermava. Parlava, parlava, e io ascoltavo. Mi piaceva ascoltarla. Aveva una voce rauca, rovinata dalle troppe sigarette, ma allo stesso tempo dolce e bassa, quasi musicale. Parlava con pause studiate, sapeva come tenere alta l’attenzione, sembrava che recitasse. Era un piacere ascoltarla, qualsiasi cosa dicesse, anche una banalità era come una melodia e in maniera sottile stava nascendo qualcosa tra noi. Decidemmo di andare a vivere insieme. Lei lasciò la sua casa solitaria, un rifugio pieno di ricordi. Io, invece, la accolsi nella mia, una prigione di solitudine dove ero stanco di vivere come un eremita. In quell’atto c’era una speranza, forse un’illusione, di riempire probabilmente il vuoto che entrambi ci portavamo dentro nonostante la sua loquacità, nonostante i miei silenzi. Non furono giorni felici quelli con Tecla. Inizialmente si, ma dopo venne fuori quell’ordine mentale che sfidava continuamente il caos. Ogni cosa doveva essere al suo posto, ogni pensiero incastrato come un tassello di un puzzle. Barattoli, pane, uova, persino la polvere sotto al letto, tutto aveva una sua precisa collocazione. Era una maniaca del controllo, calcolava ogni dettaglio, ogni eventualità. Controllava anche me che, certo non ero un santo. Io avevo voglia spasmodica di libertà. Non mi sono mai piaciuti gli schemi imposti, ogni tanto avevo bisogno di stare per i fatti miei, magari a non fare nulla, magari solo a pensare. A volte Tecla combatteva con se stessa, lottando contro quel lato di lei che odiava: un desiderio ribelle di fuggire dalla sua prigione fatta di logica e metodo. Quando quella macchina di meticolosità la soffocava, spegneva il cervello e si perdeva in viaggi mentali, disprezzandosi per quella debolezza. Tecla doveva avere il controllo su tutto, sempre. Eppure, in quei momenti di vulnerabilità, sentivo di amarla ancora di più. Non amava essere sorpresa dal nulla, sempre un passo avanti al destino. Quando ci innamorammo, fu come un pugno nello stomaco, un ubriaco che inciampa su un marciapiede sconnesso. Diede tutta se stessa, e in quel caos di emozioni trovò finalmente un po' di quella disordinata libertà che aveva sempre evitato. Tecla aveva mani belle e abili, capaci di creare ordine anche nel più grande disordine. Eppure, nel profondo, sentivo che c'era sempre un piccolo demone. Chi non ha demoni dentro? Tecla ogni tanto ascoltava questo folletto e si lasciava andare. Ricordo anche il periodo quando la mia fiducia nei suoi confronti iniziò a vacillare. Tecla ogni tanto aveva dei comportamenti strani, usciva all’improvviso, chiudeva il telefono di colpo, rientrava tardi senza una vera spiegazione plausibile, così un giorno, decisi di seguirla. La pedinai con molta descrizione, cercando di non farmi notare. Tecla camminava con passo svelto, l’aria di chi ha qualcosa da nascondere. Continuava a guardarsi intorno, nervosa. La seguii lungo una strada vecchia della città, le cui pietre erano consunte dal tempo. Si fermò davanti a una porta fatiscente, le mani tremanti. Gettò un'ultima occhiata intorno, assicurandosi di non essere osservata, poi entrò rapidamente. Aspettai qualche minuto, il cuore martellava nel petto, poi mi avvicinai con cautela. La finestra accanto alla porta, ad altezza d’uomo, offriva una vista parziale dell'interno. Mi chinai leggermente e sbirciai dentro, trattenendo il respiro. Quello che vidi mi lasciò di stucco. Tecla era inginocchiata a un bambino che giocava sul pavimento. Un bambino con i capelli ricci e gli occhi grandi, simili a quelli di Tecla. Intuì immediatamente che quello era suo figlio; quel segreto tenuto nascosto. Il cuore mi si riempì di emozioni contrastanti: sorpresa, rabbia, tristezza. Come aveva potuto nascondermi una cosa del genere e così importante? Decisi di aspettarla fuori. Quando finalmente la vidi uscire di casa, con lo sguardo dolce e sereno, le andai incontro. Tecla, vedendomi, abbassò lo sguardo e iniziò a piangere. “Perché non me l’hai detto?” dissi, cercando di trattenere la rabbia. Tecla non fu capace di rispondermi subito. Poi, con voce tremante, spiegò che aveva avuto paura. Paura del giudizio, paura delle conseguenze, paura di perdere lui. La mia rabbia montava come una bestia furiosa. "Paura? E io dovrei crederci? Tecla, non puoi tenermi nascosto un figlio e poi aspettarti che ti capisca." Lei continuava a piangere, senza riuscire a guardarmi negli occhi. "Mi dispiace... Non sapevo cosa fare." Mi sentii come se stessi per esplodere. "Sai cosa? Non mi interessa più. Te la sei cercata. Non tornare più a casa. Hai capito? Sei fuori dalla mia vita." La lasciai lì, sul marciapiede, le spalle pesanti di un tradimento che non potevo perdonare. Mentre mi allontanavo, le sue lacrime erano l'unica cosa che risuonava nel silenzio di quella strada. Ero incazzato, e quella rabbia mi bruciava dentro come un fuoco eterno. Non c’era redenzione, solo un vuoto che non riuscivo a colmare e un bisogno di vendetta che montava dentro inarrestabile. Il disordine nella mia mente cresceva di pari passo con l’intensità dell’odore che riempiva la stanza. Non capivo cos’era né da dove provenisse, ma impregnava ogni angolo, soffocandomi. Scesi dal letto lentamente, il piede sinistro toccò per primo il pavimento, freddo e scivoloso. La casa era un porcile; non ricordavo l'ultima volta che avevo pulito, forse non l'avevo mai fatto. Mi alzai, la schiena dritta, il letto dietro di me. L'odore mi riempiva le narici, impregnando il mio corpo nudo. Mi chinai e guardai sotto al letto. C’erano i resti di Laura. Non ci avevo pensato da giorni, forse settimane. Avevo perso il conto del tempo da quando l'avevo fatta a pezzi. Il sangue, ormai secco, si era fuso con il pavimento, e i brandelli di carne erano diventati parte dell’oscurità sotto il letto. La sua testa, con i capelli ancora attaccati, era nascosta dietro un vecchio paio di scarpe lise. C'era Tecla. Anche lei sotto il letto, più lontana, quasi nascosta. I suoi occhi vuoti mi fissavano ancora, come se volessero ricordarmi qualcosa che non volevo ricordare. Mi ero divertito con lei, più che con Laura. Le avevo fatto cose che non avrei mai immaginato. E poi c’erano pezzi di altre donne, sconosciute, forse Giulia o Asia. Ossa spezzate come un vecchio giocattolo. Gambe in un angolo, il tronco in un altro. Ogni tanto mi chiedevo se qualcuna di loro avesse lasciato un segno. Ma chi se ne frega? Il mondo è pieno di cadaveri, alcuni solo più evidenti degli altri. Mi sedetti di nuovo sul letto, l'odore acre sempre lì, a ricordarmi chi ero. Ero vivo, in un certo senso. Ma la mia vita era quella, un buco nero di morte e decadenza. Non c'era redenzione, solo una discesa lenta negli inferi. E sotto il letto, il mio passato mi guardava, fatto a pezzi e abbandonato. Forse Dio mi stava cercando. Io lo stavo aspettando. 2024 -
Id: 5720 Data: 11/07/2024 07:10:39
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Prusak e i semafori
Prusak uscì all’alba, correndo sotto la pioggia che cadeva incessante. Strade e viali scorrevano sotto i suoi piedi senza fatica; i pensieri, come il battito del cuore, non gli davano tregua. Correva, e i muscoli stanchi non sentivano dolore. I polmoni, in un raro momento di alleanza, lo sostenevano, e il cuore ballerino, che un tempo sembrava volerlo abbandonare, pompava con calma e sicurezza. Tecla la incontrò durante una corsa al parco. I capelli di lei, bagnati di sudore e pioggia, gli coprivano parte della fronte. Lei correva avanti, leggera e determinata, mentre lui la seguiva come sospeso tra curiosità e fatica. Il primo sguardo che Prusak le rivolse non fu dei migliori: non gli piaceva. Tecla aveva un’aria intensa, quasi troppo sicura di sé, e questa cosa lo infastidiva. La sua postura eretta e il modo deciso in cui affrontava la pioggia e la corsa gli sembravano quasi una sfida. Tuttavia, qualcosa in lei lo trattenne dal distogliere lo sguardo. Una sorta di energia, una forza silenziosa che emanava da ogni suo movimento, lo affascinava contro la sua stessa volontà. Accelerò il passo fino a raggiungerla. Tecla si voltò, i loro occhi si incontrarono per un breve istante, sufficiente a far scattare in lui una scintilla di curiosità. "Ciao," disse lui, con il fiato corto. "Non pensi che sia un po’ folle correre sotto la pioggia?" Tecla sorrise, un sorriso che sembrava illuminare il grigiore del cielo. "La follia rende la vita più interessante, non credi?" rispose, continuando a correre senza mai rallentare. Quelle parole, pronunciate con naturalezza e convinzione, rivelarono a Prusak qualcosa di inaspettato in lei. Continuarono a correre fianco a fianco, scambiando poche parole, ma con un’intensità crescente a ogni passo. Prusak si rese conto che, nonostante il suo primo giudizio negativo, Tecla aveva qualcosa di magnetico. La sua forza, la sua determinazione e quella scintilla di follia lo attraevano irresistibilmente. Pensò, inspiegabilmente, che forse, solo guardandola e scambiando qualche parola, Tecla potesse diventare la donna della sua vita. Quando la corsa terminò, si ritrovarono sotto un portico, riparandosi dalla pioggia che ora cadeva ancora più fitta. Prusak la guardò negli occhi, ancora in cerca di risposte. "Sei sempre così sicura di te?" chiese, più per sfidarla che per altro. Tecla scosse la testa, un’ombra di tristezza attraversò il suo sguardo. "No," ammise. "Ma cerco di vivere ogni giorno come se lo fossi. Non mi piace lasciarmi fermare dalla paura o dall’incertezza io sono fatta così". Quella risposta lo colpì profondamente. In quell’istante, Prusak capì che Tecla non era solo una donna forte e avventurosa, ma che aveva qualcosa di vulnerabile e autentica. E fu proprio quella combinazione di forza e fragilità a fargli desiderare di conoscerla e anche di condividere con lei il suo cammino. Così Prusak e Tecla andarono a convivere. I mesi passavano tra alti e bassi, i due erano troppo diversi tra loro, le liti e le riappacificazioni erano una costante e, in fondo, gli veniva sempre in mente che Tecla non gli era mai piaciuta del tutto. Prusak alternava momenti di grande passione a momenti di spontanea indifferenza. Tecla non era una donna facilmente gestibile. Profonda e riflessiva, i suoi dialoghi erano sempre costruttivi e mai banali. Tuttavia, sembrava non conoscere i suoi limiti, o forse li accantonava come si fa con le vecchie lettere chiuse in un cassetto. Non si accontentava della superficialità e camminava sempre scalza dentro casa, un gesto che sembrava esprimere il suo desiderio di sentirsi radicata, autentica e allo stesso tempo anche un po' selvaggia e questo a Prusak non piaceva. C’era sempre qualcosa in lei che la torturava, un'inquietudine che la faceva svegliare di notte all’improvviso. Era come se cercasse continuamente qualcosa da salvare, forse una parte di sé stessa, o forse gli altri. Questo tormento interiore la rendeva attraente e complessa, una donna che non smetteva mai di esplorare le profondità della sua anima e del mondo che la circondava. Viveva in un mondo fatto di pensieri e sensazioni profonde, di piccoli particolari in cui ogni gesto e ogni parola avevano un significato speciale. Figlia unica di una famiglia medio borghese, a vent'anni aveva deciso di lasciare la casa paterna, spinta da una sete insaziabile di libertà e scoperta. La sua inquietudine era il riflesso di una mente che non si fermava mai, di un cuore che batteva forte per le piccole e grandi cause. Ogni giorno era una nuova avventura, una nuova opportunità per sfidare se stessa e il mondo che la circondava. Era una donna forte, capace di affrontare con coraggio ogni cambiamento, ma anche amante dell’incertezza e della sorpresa. La sua vita era un continuo esplorare luoghi lontani o semplicemente incontrare gente di ogni genere. Tuttavia, nonostante il suo spirito avventuroso, Tecla non aveva mai perso il contatto con la realtà, era capace di provare empatia verso gli ultimi, verso tutti coloro che la società egoisticamente rigettava. La sua empatia era radicata in una sensibilità rara, che la portava a guardare oltre le apparenze, a cogliere quelle sfumature e quei volti che gli altri non vedevano. Ogni incontro, ogni sguardo scambiato, arricchiva il suo mondo interiore, alimentando la sua voglia di comprensione e connessione verso gli altri. Era una donna capace di sfidare se stessa e gli altri, di mettere in discussione le proprie certezze e di affrontare con serenità le proprie paure. Tecla viveva ogni giorno come se fosse un'opera d'arte in divenire, un capolavoro fatto di esperienze e di emozioni, sempre pronta a trasformare ogni ostacolo in una nuova opportunità, ogni caduta in un nuovo inizio. Poi, quando si stancava, correva via, fuggiva, magari in un posto lontano, o anche vicino ma con l’intento di isolarsi da tutti per poter correre senza pensare. E tutto questo a Prusak dava fastidio, egli cercava una stabilità nel rapporto con la vita e verso gli altri. Quella sera, Prusak ricordava nonostante tutto quanto Tecla fosse stata tutto per lui, e gli faceva male. Era la prima volta che non riusciva a pensare a lei sorridendo. Ricordava quando l’aveva colpito a fondo, una forza che non credeva di possedere. Così, per gioco. Correvano insieme, come sempre: lui dietro, lei davanti. "Non mi prenderai mai!" gli urlava Tecla. Era molto più veloce di lui, e intanto la pioggia continuava a battere chiodi sulla terra rossa. Prusak, inciampando su una pietra, rischiò di rovinare a terra. Raccolse la pietra tra le mani e, guardando Tecla che nel frattempo si era fermata, gliela lanciò contro. Tecla, colpita in viso, cadde a terra, in una pozza di sangue. Prusak rimase inginocchiato, ipnotizzato da quella scena. Non riusciva a capacitarsi del perché l’avesse fatto, l’unica cosa che pensò che gli piacevano i semafori. Quei momenti, sospesi nel tempo, erano per lui come finestre aperte su un mondo in continuo movimento, una pausa che gli permetteva di osservare la vita che scorreva intorno a lui. Amava questi attimi di attesa, quando poteva soffermarsi sui dettagli dei passanti, ognuno con la propria storia, il proprio destino, ognuno immerso nei pensieri che li separavano e li univano agli altri. Alla sua destra, una madre stringeva la mano di un bambino, proteggendolo dal caos del traffico. I loro passi erano in sintonia, un piccolo universo fatto di affetto e cura. Poco più in là, un uomo parlava al telefono, completamente assorbito dalla conversazione, ignaro delle macchine che gli sfrecciavano accanto. La sua indifferenza appariva quasi ironica, come se il rumore e il frastuono della città non potessero toccarlo. Una donna anziana che trascinava con fatica una borsa della spesa. Ogni suo passo sembrava una lotta contro il tempo e lo spazio, il suo volto segnato dalla stanchezza e da una tristezza profonda, come se aspettasse la fine dei suoi giorni con una rassegnazione che faceva male solo a guardarla. Attorno a lui il caos della città era un'orchestra dissonante, quasi un blues. C’era chi urlava, chi non ascoltava, chi si perdeva nella musica che sgorgava dalle cuffie. Una ragazza attraversava le strisce pedonali con passo deciso, indossava una camicetta bianca e una gonna sopra il ginocchio. Sembrava concentrata, come se ogni passo fosse una dichiarazione di indipendenza. Bambini rincorrevano una palla, le loro risate erano un eco di felicità. In mezzo a tutto questo, c'era chi aspettava. Prusak li vedeva, le persone in sosta, persi nei loro pensieri, forse in attesa di qualcuno che non sarebbe mai arrivato. Quell’attesa era palpabile, un filo invisibile che legava tutte quelle vite per un istante, sotto il semaforo rosso, Prusak si sentiva parte di quel quadro, un osservatore silenzioso, immerso nei propri pensieri e in quelli degli altri, consapevole che ogni semaforo rosso era una pausa nella corsa della vita. E intanto Tecla rimaneva lì, per terra in una pozza di sangue. A lei non piacevano i semafori.- - 2024 -
Id: 5706 Data: 07/07/2024 19:36:39
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La casualità della nebbia
Aveva con sé la luce della sera senza luna, illuminata soltanto dai bagliori dei fari delle auto che sfrecciavano su uno sterrato in lamiera vagante, in una città sempre al crepuscolo e mai doma. Lei, con le sue scarpe rosse, aperte e strette, le gambe scomposte, diventavano un rifugio delle mie fantasie. Le calze chiare, come il pallore del suo viso d’arancia. Chi era quella donna dall’aria triste che guardava senza guardare fuori dal finestrino? La vidi scendere alla fermata e scomparire nella pioggia incessante. Nessun ombrello a proteggerla, l’acqua la inghiottì all’istante. I miei occhi piccoli nulla poterono contro il rimedio di un vetro appannato né contro l’azzardo di un momento e quell’ansia di seguire sino all’ultimo tratto i suoi capelli umidi e scomposti mi divorava la mente. Vedere quel momento rubato, mi fece fremere di pazzia. Le mie braccia ridotte a fragili artigli contro un vetro opaco, e lei era già andata via. Decisi di scendere alla fermata successiva; volevo ritrovarla, anche solo per un momento, per guardarla anche da lontano. Corsi disperato tra le pozzanghere colme d’acqua, girai il primo angolo che trovai e mi riparai sotto un vecchio portone. Dall’altra parte della strada, sotto una pensilina, la vidi, era lei. Teneva le braccia strette attorno alla vita e il capo chino; l’acqua incessante si mescolava con la sua figura. Alzò la testa e si accorse di me. I nostri sguardi si incontrarono. Eravamo solo noi due in quella strada, noi e il ticchettio della pioggia. Tutto ciò che stava accadendo non faceva più parte di quell’istante. Noi, la pioggia, e una strana musica che arrivava da lontano. Attraversai la strada, attratto da qualcosa di magico e irreale. Anche lei si mosse verso di me, come se fosse spinta da una forza strana. Senza alcun motivo apparente, ci abbracciammo. Era come se non aspettassimo altro. Le mie braccia intorno a lei, le sue intorno a me, e in quell’abbraccio il mondo smise di girare. Non c’erano più domande, né dubbi. In quell’attimo eterno, eravamo tutto ciò che esisteva. La pioggia continuava a cadere, ma non ci toccava più. E così, stretti l’uno all’altra, trovammo un rifugio, un senso, in quel momento magico e irreale. L’abbraccio, intenso e carico di significato, cominciò a sciogliersi lentamente. Ci guardammo negli occhi, i volti bagnati dalla pioggia, consapevoli che qualcosa di indefinibile e profondo stava accadendo. Poi, quasi simultaneamente, come guidati da un istinto primordiale, iniziammo a correre. La pioggia battente trasformava le strade in specchi luccicanti, riflettendo i lampioni tremolanti. I nostri passi veloci spruzzavano acqua tutt’intorno, ma non ce ne curavamo. Ridevamo, una risata libera e spontanea, mentre correvamo fianco a fianco, lasciando alle spalle il portone e la pensilina. La città sembrava sfumare ai nostri lati, un insieme di ombre e luci sfocate. La nebbia cominciò a calare, densa e avvolgente, inghiottendo i contorni degli edifici e i pochi passanti che cercavano riparo. Le nostre figure, ormai indistinguibili nella foschia, correvano senza meta precisa, guidate solo dalla voglia di restare insieme, di esplorare quel momento che ci aveva uniti, così, senza un motivo; non sapevamo il perché delle cose ma accadevano. La nebbia ci avvolse completamente, e ci sentimmo come in un mondo diverso, dove il tempo e lo spazio sembravano non avere più alcun significato. Le risate divennero un sussurro, e rallentammo il passo, finalmente fermandoci in un piccolo parco deserto. La pioggia si fece più lieve, quasi un mormorio che cadeva sopra di noi, sempre più sottile. Ci guardammo di nuovo, e in silenzio ci avvicinammo. L’incantesimo di quell’istante ci aveva portato qui, lontano da tutto, avvolti solo dal suono della pioggia e dal silenzio della città nascosta nella nebbia. Ci sedemmo su una panchina zuppa d’acqua, le mani intrecciate, ci rendemmo conto di essere diventati parte di qualcosa di più grande, un intreccio di destini che si era manifestato in quella serata piovosa. E così, senza sapere dove ci avrebbe portato quella strada, restammo lì, abbracciati, in attesa che la nebbia ci portasse via.- 2024 –
Id: 5693 Data: 03/07/2024 19:44:19
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Senza un ordine preciso
Ricordi quegli amori che hai vissuto, prima che il desiderio di spegnere la tua esistenza si facesse strada? Quei momenti sotto i tavoli, osservando minigonne troppo corte, ingenue evasioni che inghiottivano la fantasia. Poi hai compreso che un uomo può piangere solo in silenzio, in attesa che tutto svanisca, che tutto si dissolva, oppure trovare la giusta occasione per diventare cattivo. Ora la sera inizia, libera da inibizioni, priva di regole, senza controlli, unicamente in un orgasmo d’ebbrezza. Sei pronto. Ricordi il muretto davanti alla porta di casa, la birra e la macchina da scrivere sulle ginocchia, e un vecchio vinile che girava stancamente, proprio come amanti giunti al termine della loro storia, alla fine della notte. Quei momenti sembravano eterni, eppure brevi, una nostalgia che riaffiora tra le pieghe che mormorano nella memoria. Non hai mai trovato gratitudine né nell’odio né nell’amore né nell’amicizia. Ti sei mai chiesto se hai conosciuto davvero l’amore? Forse sì, forse no, ma alla fine erano solo pietre che rotolavano lungo il cammino. Rammenti un tramonto vicino al mare, una pizza fredda al faro che illuminava un manto nero? Le sue storie poi, poco interessanti, erano solo parole scappate da una bocca troppo grande, un eco di vuote promesse. In quei momenti, un grido nell’arcobaleno sfiorava campi infiniti di ortiche, e la vostra casa sembrava esplodere dentro il corpo di lei. Ma quello sparo era solo un solco in un buco nero, un corpo colmo di biografie frammentate, composto di tante donne che sono andate e tornate, a volte fasciate in coperte, altre come fiumi in piena, e la notte rincorreva il giorno; un ciclo infinito di emozioni contrastanti. “Ma quanto mi sei stata vicina?” ti chiedi ancora, con mille fitte allo stomaco e alle ossa, il peso di giorni interi trascorsi tra capricci, poesie e fame. Ora la notte è senza luna, forse è scivolata dall’altra parte del cuore, senza mai toccare terra, come una mano amputata, e tutt’attorno la guerra, un bicchiere di Negroni sbagliato e nessuna paura di tornare a casa. Addossato tra la parete e il letto disfatto, senza chiederti il senso di tutto questo, come fanno le foglie secche di un’estate inoltrata alla ricerca di un tempo che la vita non ti ha dato. Le spighe nelle ginocchia provocano dolore, un dolore che conosci fin troppo bene. Finalmente è giunta la sera, l’ultimo pasto, l’ultimo Natale di cartone, e aspettare che l’anima maturi dentro; voci, gesti, passi e quell’elemosina del caos che non arriva mai.- 2024 -
Id: 5675 Data: 29/06/2024 07:23:56
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Un tempo qualsiasi
Notte. Un albergo, un luogo senza tempo. Osservo. La luce del neon penetra ogni angolo della stanza, rivelando l'essenza nuda dell'arredo: l'armadio bianco panna alla mia destra, immenso e opprimente, la scrivania con i cassetti di fronte al letto, le gambe del letto a castello alla mia sinistra, di un nocciola chiaro, quasi irrealmente luccicanti. Un piccolo televisore appeso in alto domina la parete spoglia, proiettando immagini in bianco e nero di storie che non mi appartengono. Per un istante, mi perdo in questo teatro dell’assurdo, un gioco di ombre che dissolve al momento i ricordi di quel viaggio, della cena, dell’inutilità di quel tempo, delle chiacchiere ipocrite, di ogni frammento della giornata. Ma è un'illusione breve. La mente ritorna al suo vagare inquieto, alla ricerca di un tempo, di un significato in questo luogo sospeso tra il velo della realtà e la verità della solitudine. Scosto lo sguardo a sinistra, inciampando sullo spigolo della parete. Oltre la porta vetrata del balcone, il buio esterno si apre come un abisso, per poi arrestarsi contro l'ampia figura della luna. L'oscurità si ferma sull’uscio, respinta dalla luce artificiale della stanza. Fuori, nel silenzio della notte, le onde si infrangono sulla riva, un frastuono che si espande come un eco interminabile. Il suono dell’acqua che si abbatte mi riporta alla mente la vastità e la verità che solo il mare di notte può dare, la sua forza, un simbolo del moto perpetuo e dell'inquietudine che da sempre mi abita. Come un calice di vino bianco eternamente agitato, il mare riflette la mia stessa irrequietezza, una ricerca incessante di significato in un mondo in perenne movimento. La luna proietta il suo bagliore sul mare, creando una passerella che si snoda dalla riva fino all’orizzonte, dove sembra sospesa come un faro nell'oscurità. Su questo sfondo luminoso, una piccola barca con la vela mossa dal vento appare come un puntino solitario, aggiungendo movimento al paesaggio. Osservo questo spettacolo notturno nella sua semplicità, e la mia mente rallenta, i pensieri scorrendo uno ad uno, come onde su un mare interiore. Poi, inevitabile, emerge una domanda: lei dov’è? Ma subito mi rendo conto dell’insignificanza di questa inquietudine; è andata via da troppo tempo ormai, o forse non è mai esistita davvero. Mi chiedo se l'ho mai amata, se è stata solo un sogno o solo un'illusione nata dalla mia solitudine. Le risate leggere e stanche dei miei amici mi raggiungono dall’interno della stanza. Meglio rientrare adesso, prima che questo mare scuro, questo silenzio, questa notte fuori dal tempo mi porti via per sempre. - 2009 -
Id: 5666 Data: 26/06/2024 08:33:20
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I Gabbiani
Ogni notte, Prusak si ritrovava a combattere la sua guerra solitaria contro quei maledetti gabbiani. Arrivavano sempre alla stessa ora, spuntando dal nulla, come ombre infernali che si lanciavano su di lui, invadendo il suo letto con un frenetico sbattere d’ali. La finestra sempre socchiusa, sembrava una sorta di portale dove scappare o far sparire quegli animali. Prusak con gesti disperati e convulsi cercava in tutti i modi di cacciarli via; gli ricordavano le mosche che infestavano il letto tanti anni fa, quando era chiuso in riformatorio. Era la sua battaglia eterna, prima le mosche adesso i gabbiani. Il suo corpo si muoveva in uno strano balletto fatto di gesti violenti e disordinati, mentre cercava di indirizzare quei fantasmi fuori dal suo letto, in direzione della finestra. Ogni movimento era un riflesso della sua mente tormentata, un simbolo della sua lotta interiore contro il mondo, tra la voglia di pace e la tempesta che lo tormentava dentro. I gabbiani non erano semplici uccelli: come lo erano state le mosche, anche questi erano custodi dei suoi pensieri più oscuri; messaggeri di un’angoscia profonda che nel tempo non trovava ne voce ne pace. Nella penombra della stanza, il confine tra sogno e realtà si faceva sempre più sottile, e Prusak restava intrappolato in quella sorta di danza notturna, schiavo di una battaglia che solo lui poteva vedere e combattere. Ogni notte sempre la stessa storia, e ogni notte sperava in una tregua che non arrivava mai, La finestra aperta rimaneva lì, come una promessa di libertà, eppure ogni notte Prusak, a notte fonda, quando il buio lo avvolgeva, i gabbiani tornavano a ricordargli che doveva continuare a combattere. Finalmente, Prusak, sfinito dalla fatica, riuscì a cacciarli tutti fuori dalla finestra. Ma no, uno di quei bastardi era rimasto nel suo letto. Questo gabbiano non era feroce come gli altri. Se ne stava lì, rannicchiato nella coperta, fissandolo con quegli occhi maledetti. Prusak non disse una parola, rimase lì, fissandolo a sua volta. Avvicinandosi sempre di più all'animale e non distogliendo mai lo sguardo da quei fari accesi, continuò a fissarlo. Il gabbiano sembrava volergli dire qualcosa con quello sguardo così ravvicinato. Prusak si lasciò cadere sul letto, il sudore gli colava dalla fronte. "Cosa cazzo vuoi da me? Cosa cazzo volete da me?" mormorò, più a se stesso che all'uccello. Il gabbiano non rispose, ovviamente. Continuava a fissarlo con quei maledetti occhi azzurri e freddi. Prusak si prese la testa tra le mani, sentiva quelle pareti che gli giravano intorno. Si alzò traballando e andò verso il comodino, afferrò una bottiglia di whisky mezza vuota e ne bevve un lungo sorso tutto d’un fiato nella speranza di fuggire da quella scena. "Allora," disse, voltandosi verso il gabbiano, "vuoi parlarmi dei miei demoni? Vuoi dirmi cose che già so?" Il gabbiano non si mosse, non emise un suono. Prusak tornò a sedersi sul letto, la bottiglia stretta tra le mani. Si sentiva strano, come se qualcosa stesse per accadere. Ma forse era solo l'alcol, o la stanchezza. "Sai," iniziò a dire, "ho combattuto questa battaglia per anni. Mosche, gabbiani, non fa differenza. Sono sempre lì, a ricordarmi cosa non voglio ricordare." Il gabbiano inclinò leggermente la testa, come se stesse ascoltando. Prusak rise, una risata amara e senza gioia. "Che diavolo sto facendo? Parlo con un uccello come se fosse un umano." Si sdraiò sul letto, sentendo la stanchezza prenderlo. Chiuse gli occhi, ma il pensiero del gabbiano non lo lasciava in pace. Alla fine, si arrese alla stanchezza e sprofondò nel sonno, con la consapevolezza che la battaglia non era finita. Ma per quella notte, almeno, c'era una tregua. Si svegliò dopo circa un’ora e quel pennuto del cazzo stava ancora lì, lo fissava, come se aspettasse una reazione, un cenno. Prusak a quel punto esplose: “Cosa cazzo vuoi? Perché non vai via?!” Il gabbiano accennò a un leggero battito d’ali e Prusak sentì una voce nella mente. Sì, il gabbiano gli stava comunicando con il pensiero. “Finalmente ti ho trovato. Io conosco tutti i tuoi segreti come tu conosci i miei. Io so chi sei, la tua vita, tutto il tuo passato, come tu conosci il mio. Sono venuto a prenderti finalmente.” Disse il gabbiano. Prusak si bloccò. "Cosa sei? Un fottuto animale della morte vestito da gabbiano?" rise amaramente, la bottiglia ancora stretta in mano. "Sei qui per ricordarmi quanto sono stato una merda, giusto?" Il gabbiano lo fissò, senza rispondere. Ma Prusak sentì una forza oscura premere contro di lui, forzandolo a guardare indietro nella sua vita. Vide le notti passate nei bar a ubriacarsi, le donne che aveva amato e poi lasciato senza un motivo, i pianti di una sera dentro l’auto di lei… si lei che cercava solo compagnia, i volti sfocati di amici e nemici. Vide le promesse infrante, i sogni mai realizzati, i viaggi mai fatti, i treni mai presi, vide suo padre che non era un padre, vide sua madre andata via troppo presto, ogni dettaglio gli scorreva davanti agli occhi, come un film in bianco e nero che conosceva troppo bene. "Non c'è bisogno di ripassare tutto," mormorò Prusak, gli occhi chiusi. "So esattamente chi sono. Un vile che ha pensato più volte di farla finita ma che ma non ha mai avuto le palle per farlo." Il gabbiano non disse nulla, ma Prusak sentiva la sua presenza, incombente e inevitabile. "Ho capito, sei qui per portarmi via, vero? Sei la morte che finalmente si è decisa a venire a prendermi. Ti aspettavo.” Il gabbiano batté le ali una volta, leggermente, come un cenno d'assenso. Prusak rise, una risata senza gioia. "Bene, allora. Forse è meglio così. Non ho più niente da perdere, non lascio nulla, niente per cui vivere." Si alzò dal letto, la bottiglia abbandonata sul pavimento. Si avvicinò alla finestra, la aprì del tutto. "Va bene, sono pronto," disse, guardando fuori nel buio della notte. "Portami via, se è questo che vuoi." Il gabbiano volò verso di lui, ma Prusak non si mosse. Sentì le ali battere vicino al suo volto, il vento freddo contro la pelle. Chiuse gli occhi, aspettando la fine. Ma non questa non venne. Invece, sentì una calma strana, una pace che non aveva mai conosciuto. Forse, pensò, la morte non è la fine, ma un nuovo inizio. Aprì gli occhi, e il gabbiano era scomparso. Al suo posto, solo il silenzio della notte e una strana sensazione di libertà. Prusak tornò al letto, più leggero di quanto si fosse sentito in anni. Forse, finalmente, aveva trovato la sua tregua. O forse, la vera battaglia era appena iniziata. Poi pensò: “ peccato… potevo rivedere il mio cane.”- - 2019 -
Id: 5651 Data: 20/06/2024 07:33:23
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Una notte di dicembre
Era un anno qualsiasi, ma sicuramente era dicembre, poco prima di Natale. Prusak decise di recarsi a Petralia Soprana, un borgo incastonato tra le montagne delle Madonie. Lì, anni prima, casualmente aveva conosciuto Tecla, una donna che lo aveva folgorato come mai nessun'altra, le toglieva il respiro. Una sera inoltrata, senza un motivo preciso se non il richiamo dei quei ricordi, Prusak decise di andare a trovarla, dopo tanto tempo che non la vedeva né sentiva. Così, salì in macchina e si diresse verso le Madonie. Tecla era figlia di contadini, gente semplice e genuina. Aveva due fratelli che si spaccavano la schiena lavoravano la terra dall'alba al tramonto con il padre, mentre lei rimaneva a casa o girava per il paese sbrigando incombenze burocratiche. Tecla era di una bellezza scioccante, quando camminava per le strade acciottolate del borgo, tutti si giravano a guardarla, ammirandola in un silenzio quasi sacrale, dava l’impressione di una madonna solitaria, una presenza quasi spirituale che attraversava il paese come se fosse avvolta da un'aura di mistero intoccabile. Ma era semplicemente lei, Tecla: la donna più bella del paese. Prusak ricordava quel primo incontro casuale, con una nitidezza che lo sorprendeva. Ogni dettaglio di lei era inciso nella sua testa: il modo in cui la luce del tramonto si rifletteva nei suoi occhi grandi, il modo in cui guardava, il suono della sua voce che sembrava sussurrare le parole, quella camminata e il suo cervello così cerebrale; quando stavano insieme Prusak quasi stava zitto, rimaneva in silenzio rapito da quella mente dai suoi discorsi così evoluti e mai banali. Come si poteva non innamorarsi dei quella mente? In quelle sere fredde di dicembre, il pensiero di Tecla lo tormentava, come un fuoco lontano che ardeva solo per lui. Doveva rivederla per forza. Così le fece sapere che quella sera sarebbe arrivato. Mentre guidava verso Petralia Soprana, Prusak rifletteva sulla sua vita e sui sentieri che lo avevano condotto fino a quel momento. Tecla non era solo un ricordo casuale del passato, ma una presenza che continuava a influenzare la sua vita. Era come se il tempo si fosse fermato, lasciando intatto quel legame profondo che li univa. Eppure si videro solo un paio di volte e ogni tanto si telefonavano. Prusak amava sentirla parlare. Ogni volta che riponeva la cornetta era come vivere una vita nuova. E ora, in quella notte di dicembre, sentiva che era giunto il momento di ritrovarla, di dare un senso a quelle emozioni che lo avevano segnato così profondamente. Le montagne delle Madonie lo accolsero con il loro silenzio maestoso, e mentre si avvicinava al borgo, Prusak sentì il cuore battere più forte. Tecla lo aspettava seduta su una panchina come un faro nella notte. Prusak giunse a notte inoltrata. Il luogo dove si vedevano era sempre lo stesso, la panchina della via centrale. Scese dalla macchina e una folata di freddo lo investì. ma non importava. La figura di Tecla era lì, seduta, con gli occhi grandi e radiosi che brillavano nella luce dei lampioni e la neve che iniziava a cadere silenziosa ed impalpabile. Prusak si avvicinò, e senza bisogno di parole, si sedette accanto a lei. Si abbracciarono a lungo, in un silenzio carico di tanti significati, mentre gli sbuffi di vento gelido e i fiocchi della neve li colpivano invano. Dopo un tempo che sembrò eterno, Prusak prese la mano di Tecla e la condusse verso l'auto. Salirono e, con un gesto deciso, chiuse le portiere, lasciando fuori il freddo e quel mondo che in quel momento non gli apparteneva, nessuno sapeva di loro e di quell’amore che non aspettava altro che esplodere. Si avviarono dal borgo, le luci delle case diventavano punti sempre più piccoli nello specchietto retrovisore. Guidarono in silenzio, immersi nei loro pensieri. Il paesaggio notturno scorreva intorno a loro, la neve raccolta ai lati della strada, poi Prusak trovò uno spazio appartato e spense il motore. Nell'intimità dell'auto, il silenzio era rotto solo dai loro respiri. Si guardarono negli occhi, e in quel momento, il tempo sembrò fermarsi. La distanza che li aveva separati si eliminava lasciando spazio solo a loro due, solo a quel momento. Si avvicinarono l'uno all'altra, e fecero l'amore con un'intensità che sembrava destinata a sfidare ogni cosa. Quella macchina, quel luogo, in quella notte si trasformò in un rifugio sicuro, dove nulla poteva toccarli. Le mani di Prusak tracciavano il profilo di Tecla, come per imprimere nella memoria ogni dettaglio di quel momento. E mentre il mondo fuori continuava il suo corso, loro rimanevano sospesi in una dimensione propria, fatta di sussurri, carezze e promesse mai dette. Alla fine, rimasero lì, stretti l'uno all'altra, avvolti nel silenzio complice la notte. Senza parlare, in silenzio ma felici. Le prime luci dell'alba iniziarono a filtrare attraverso i finestrini appannati, e il tempo riprese il suo corso. Ma per Prusak e Tecla, quella notte sarebbe rimasta per sempre un frammento d'infinito, un attimo di eterno, un ricordo di un amore che forse non avrebbe mai avuto un seguito ma che li avrebbe accompagnati ovunque andassero. Per tutta la vita. 2021
Id: 5647 Data: 17/06/2024 18:41:14
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Anime intrappolate
Le nuvole scure sopra Palermo non se ne vanno mai, anche quando c’è il sole. Una città devastata, illuminata e malinconica allo stesso tempo. Lo Stupor Mundi è sempre stata così. Laura osservava la città dalla finestra del suo piccolo appartamento al centro. Sentiva il peso di un'angoscia che non riusciva a definire. Ogni giorno si svegliava con il cuore pieno di un desiderio insoddisfatto, un desiderio di fuga, di libertà, forse da se stessa. Le vie di Palermo erano familiari ma opprimenti, le ricordavano le catene invisibili che la tenevano legata a una vita che non le apparteneva più. Laura era figlia di genitori separati e in perenne combutta. Le loro liti interminabili avevano riempito la sua infanzia di urla, porte sbattute e vetri rotti, lasciandola con un vuoto profondo e un senso di incertezza che non riusciva a scrollarsi di dosso. Questa tensione costante l'aveva portata, da adulta, a cercare conforto e comprensione in analisi da uno psicologo. Ma ogni seduta sembrava solo scavare più a fondo nella sua insoddisfazione, svelando strati di dolore e confusione che non riusciva a risolvere. Prusak era altrettanto prigioniero dei suoi pensieri e del suo caos. Figlio unico, non aveva mai conosciuto i suoi genitori ed era cresciuto in un orfanotrofio, tra preti e suore che non avevano riguardo per lui. Gli mancava l'amore, il calore di una famiglia e spesso si sentiva un numero, una pratica burocratica e niente più. Ogni giorno era una lotta per mantenere un po' di dignità e speranza in un ambiente che tendeva a soffocarle. In età più adulta, quando ormai la vita nell'orfanotrofio era diventata insostenibile, decise di scappare. Iniziò a lavorare in una libreria polverosa nel centro storico. Viaggiava lui; in quei libri viveva storie di uomini in fuga e vite diverse. Aveva conosciuto Laura lì, tra gli scaffali di libri dimenticati, polverosi e mai letti. Lei cercava un volume di poesie di Baudelaire, lui glielo aveva trovato, ed era bastato uno sguardo per capire che erano anime affini, di quelle affinità elettive che rare volte si verificano, entrambi in cerca di qualcosa che questa città non poteva più offrire loro. Prusak, frustrato da tempo perché la vita da libraio non gli stava più bene, sognava di scrivere lui stesso la sua storia di fuga e libertà, ma si sentiva intrappolato in una routine senza via d'uscita. “Dobbiamo andare via,” disse Laura una sera, mentre camminavano lungo la costa di Mondello, con il vento che portava l'odore del mare. Prusak la guardò, con un'espressione grave e dolorosa. “Non possiamo continuare a vivere così, senza speranza.” Laura si fermò e fissò l'orizzonte, poi guardò Prusak negli occhi. “Sì, hai ragione. Ma dove andremo? Cosa faremo?” Prusak sentì il peso di ogni parola come un macigno. “Non lo so, Laura. Non lo so davvero. Ogni giorno mi sembra una prigione, ogni ora che passa mi sento più soffocato. La libreria, i libri... tutto questo non è abbastanza. Ho bisogno di sentire che c'è qualcosa di più, qualcosa che valga la pena.” Laura strinse la mano di Prusak più forte, sentendo la sua disperazione rispecchiarsi nella propria. “Ovunque, purché sia lontano da qui. Non possiamo restare in un luogo che ci sta uccidendo lentamente. Vivremo giorno per giorno, troveremo la nostra strada. L'importante è che saremo insieme. Solo così possiamo sperare di essere liberi.” Prusak annuì lentamente, sentendo una lacrima scendere lungo la guancia. “Hai ragione. La libertà non è un luogo, è uno stato d'animo. Se restiamo qui, continueremo a morire dentro. Se andiamo via, almeno avremo una possibilità.” Laura lo abbracciò, sentendo il suo corpo tremare. “Partiamo, Prusak. Non importa dove, non importa come. L'importante è che partiamo insieme, che affrontiamo questa fuga insieme. Solo così possiamo sperare di trovare la pace.” La decisione era stata presa. Le settimane successive furono un susseguirsi di preparativi furtivi e addii silenziosi. Nessuno dei due aveva una famiglia che li trattenesse, ma lasciare Palermo era come staccarsi da una parte di sé stessi. Eppure, sapevano che non c'era altra scelta se volevano essere veramente liberi. Il giorno della partenza, il cielo era ancora coperto da quelle nuvole scure, come a voler ricordare loro che la malinconia di Palermo li avrebbe seguiti ovunque andassero. Ma Laura e Prusak non si voltarono indietro. Salirono su un treno diretto verso nord, la loro meta era raggiungere Capo Nord, con la speranza di un nuovo inizio in un’altra terra e la promessa di un amore che avrebbe resistito a qualsiasi tempesta. E mentre il treno si allontanava, lasciando dietro di sé la città e le sue ombre, Laura e Prusak si strinsero l'uno all'altra, consapevoli che la vera fuga non era solo dalle strade di Palermo, ma da tutto ciò che li aveva tenuti imprigionati nei loro stessi cuori.
Id: 5640 Data: 13/06/2024 17:37:44
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Un Uomo Una Donna
Strada bordata di alberi, un corridoio naturale. Una linea bianca centrale, forse illuminata dal tramonto o dalla notte. Lo sguardo si perde nell’indistinto orizzonte. Tutto sembra parte di una ricerca di senso. L’uomo camminava da ore lungo quella strada deserta, il suono dei suoi passi riecheggiava tra i tronchi degli alberi, come un’eco distante della sua solitudine. Era una notte senza luna, il cielo di velluto con stelle troppo lontane per cercare conforto. Lei apparve all’improvviso, un viso nascosto dall’ombra dei capelli che il vento scompigliava appena. L’uomo e la donna si avvicinarono attratti da una forza invisibile, come due destini che si incrociano sulla sottile follia della vita. Si fermarono a qualche passo di distanza, guardandosi attraverso il buio. Lui vide nei suoi occhi un riflesso della propria inquietudine, una tristezza familiare che gli parlava di notti insonni, di ubriacature gratuite, di piatti sporchi e di domande senza risposta. Lei lesse nel suo sguardo la stessa malinconia, un dolore condiviso che non aveva bisogno di parole. In quel silenzio carico di significative affinità, la vita sembrò fermarsi. La strada, che fino a un momento prima era solo un percorso solitario, diventò un punto d’incontro, un crocevia di anime alla ricerca di se stesse. Si sorrisero appena, un gesto lieve che racchiudeva tutta la comprensione e la solidarietà di cui erano capaci. Ripresero a camminare insieme, senza bisogno di parlare, mano nella mano, senza dirsi nulla, nemmeno il loro nome, andando via così, come se si aspettassero da tempo. La presenza dell’altro bastava a rendere quel viaggio meno pesante, la strada meno infinita. E mentre le prime luci dell’alba cominciavano a disegnare i contorni del nuovo mondo, capirono che, in quella notte, avevano trovato finalmente una risposta a tutte le loro domande Non importava quale fosse la risposta e quanto lunga fosse la strada o quante ombre li avrebbero accompagnati: finché camminavano insieme, nessuno dei due sarebbe stato veramente solo. Mentre camminavano, il mondo attorno a loro sembrava trasformarsi. Gli alberi che fiancheggiavano la strada iniziarono a farsi più vicini, i loro rami protesi come braccia li accoglievano. Il cielo, ormai chiaro con le prime luci del giorno, sembrava avvolgerli in un abbraccio tiepido. Sentivano i loro corpi diventare più leggeri, come se ogni passo li stesse rendendo meno corporei. Le loro mani, che fino a poco prima si tenevano strette, ora erano avvolte da un’energia quasi eterea. Le dita si intrecciavano non più come carne, ma come luce e ombra, come essenza pura. Lui la guardò un’ultima volta, vedendo il riflesso del proprio volto nei suoi occhi, ora pieni di pace. Lei sorrise, un sorriso che sembrava racchiudere tutte le risposte che avevano cercato. Senza dire una parola, si strinsero più forte, sapendo che quel momento sarebbe durato per sempre. Con un ultimo passo, i loro corpi iniziarono a dissolversi, diventando tutt’uno con la strada e con gli alberi che la fiancheggiavano. Le loro sagome si sfumarono lentamente, fino a diventare pura energia, una scintilla di vita che si univa al flusso eterno del mondo naturale. Diventarono parte del vento che sussurrava tra le foglie, parte della luce che filtrava tra i rami, parte della terra che sorreggeva la strada. L’alba completava il suo corso, l’uomo e la donna scomparvero tra gli alberi, diventando uno con la natura, come se non fossero mai esistiti. Ma il loro incontro, quel momento di pura connessione, rimase inciso nell’essenza stessa del luogo, un ricordo eterno di due anime che si erano trovate e unite nella loro ricerca di significato.
Id: 5636 Data: 11/06/2024 13:11:25
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I Nottambuli
Giuseppe e Francesco
LONATRO
I Nottambuli
- 2013 -
Alla notte…
“Ma tu chi sei che avanzando
nel buio della notte inciampi
nei miei più segreti pensieri?”
( W. Shakespeare)
Alberto Loi ha voltato pagina e spento lo specchio ha ripreso a guardare.
Finalmente era giunto e non inatteso il dovuto riconoscimento verso il suo lavoro. Aveva lavorato sodo per mesi a quel film e finalmente, adesso, qualcosa gli veniva attribuito e anche dovuto.
Il teatro Argentina era gremito in ogni suo posto e Alberto con il suo abito scuro e atteggiamento sornione sedeva in prima fila. La proiezione del corto era terminata, i titoli di coda e la scritta FINE sullo schermo scorrevano lenti come lo erano stati i suoi pochi anni; trentacinque in tutto, ma vissuti con l’intensità di un leopardo che ogni giorno è in cerca della preda per sfamarsi. Schermo nero. Luci accese in sala e un pubblico in delirio si alzò tutto in piedi ad acclamare quell’opera prima in un capolavoro vero e proprio e Alberto non aspettava altro. Si girò verso il pubblico e con un sorriso tra lo sprezzante e il commosso, allargò le braccia e accennando a un inchino ringraziò tutti mantenendo comunque sempre un atteggiamento distaccato, si perché lui era fatto così: tutto o niente, e quella sera aveva vinto su se stesso e su tutti.
Alberto non amava per niente le felicitazioni, i complimenti, le pacche ipocrite sulle spalle, i sorrisi falsi stampati sulle facce, ma stavolta aveva avuto ragione lui. Era stato criticato per anni per quel suo cinema d’autore che nessuno in fondo non capiva o forse non voleva capire: “ è un cinema solo per lui, ma chi si crede di essere!” dicevano, ma stavolta la sua visione onirica e surreale della vita aveva trionfato, ma aveva anche tanta paura; pensava che dopo quel successo, la massa iniziasse a seguirlo. Rabbrividiva al pensiero di essere considerato uno tra i tanti, e lui non lo era.
Alberto volle andare via. Voleva andare incontro al suo destino; quella strada che porta crudelmente gli artisti a una sorta di solitudine atavica.
Fuori il teatro lo aspettava il solito taxi. Alberto non possedeva la patente, andava in giro solo in taxi o racimolava qualche passaggio da un amico, quei pochi che ormai gli erano rimasti. Quella di non prendere la patente fu una sua scelta, diceva che guidare l’auto lo intrappolava, lo imprigionava nello squallore del traffico, andare a piedi invece lo liberava, si sentiva cittadino dei suoi pensieri.
Sedette dietro e con impazienza disse all’autista di accompagnarlo in fretta alla stazione. Doveva andare a Palermo, sua città natale ove i genitori anziani lo stavano aspettando. Lungo il tragitto ricevette una chiamata dalla madre la quale volle assicurarsi dell’orario di arrivo. Alberto rispose alla madre di non sapere di preciso quando sarebbe giunto a casa.
<<sarò a Palermo nella mattinata di domani, come arrivo in stazione ti chiamo.>>
Alberto liquidò la madre con il suo solito vagare, era nella sua natura di non dare mai per scontato quello che faceva.
Il taxi andava veloce. La città, nonostante l’orario non proprio notturno sembrava svuotata, senza anima, svuotata, solo una taxi che corre.
<< tutto a posto dottore come andiamo? >> disse il tassista guardano dallo specchietto Alberto.
Alberto alzò gli occhi verso lo specchietto e rispose: <<non sono un dottore comunque a posto… va tutto bene.>> Alberto sembrava infastidito da quella domanda, forse anche disturbato dal fatto che in quel momento qualcuno gli rivolgesse la parola, voleva stare solo con i suoi pensieri, osservare la strada vuota o forse non pensare affatto. Estrasse dalla tasca il solito taccuino, ove puntualmente da anni dava colore alle sue idee. Le prime due pagine sempre vuote, le altre sporche da una calligrafia meticolosa e ordinata, quasi maniacale. Non scrisse nulla dal tragitto che dal teatro porta alla stazione, si limitò solo a osservare i fogli bianchi.
Giunse alla stazione in tempo e senza alcun bagaglio. Odiava fare le valigie e comunque pensava di stare via solo un paio di giorni. Percorrendo il viale che costeggia le carrozze, la sua attenzione venne catturata dallo squillo proveniente da un telefono pubblica. Si fermò e non vide nessuno, solo uno squillo dall’ultima cabina telefonica ancora rimasta integra. Alberto rimase qualche secondo immobile, dopo… improvvisamente quella sinergia silenziosa tra lui e il trillo venne squarciata dal metallico annuncio del megafono della stazione.
“dal binario quattro è in partenza l’espresso 1234 diretto a Palermo…i signori passeggeri sono pregati di affrettarsi”
Alberto svegliatosi da quello strano intontimento che poco prima lo aveva invaso, riprese il cammino in direzione della carrozza e prese posto nella solita seconda classe. Il vagone era quasi vuoto. Scelse uno scompartimento ove non c’era nessuno nella speranza che lungo il viaggio non sarebbe salito alcuno, amava stare da solo. Già, ormai solo lui riusciva a prendere un treno per percorrere mille chilometri; “l’aereo è troppo veloce, non da il tempo di pensare” soleva dire. Nessun bagaglio, una stecca di Camel che avrebbe fumato solo nel cesso sporco del treno, un telefonino sempre scarico e un blocco notes era l’unica cosa di qui aveva bisogno. Dopo la sua attenzione venne catturata dalle grida festose di alcune ragazze che passarono frettolosamente davanti lo scompartimento. Alberto guardò lo scorrere breve di quella gioia senza molta importanza, si limitò solo a pensare che forse erano state ad una festa o chissà che…
Il treno partì in orario.
Amava andare in treno. Lì, gli venivano sempre delle buone idee e poi era affascinato dalle immagini che veloci correvano davanti ai suoi occhi. Adesso le montagne, le pianure, i tetti delle case, le luci scivolose e ammassi di abitazioni che sfuggivano al suo sguardo ma che riusciva comunque a ingabbiare nella sua mente. Le luci notturne fluivano come stelle impazzite; un uccello in picchiata batté contro il vetro. Il treno poi fermò la corsa ad una stazione di transito e sui marciapiedi dei cani vagabondi sembrava che lo salutassero. Un paese, una fontana, una casa solitaria su una piazza troppo grande. Alberto ricordò che aveva vissuto qualche anno prima in quella località e la sua casa era proprio sulla via centrale. Piombarono in quella breve attesa dei pensieri nella sua mente, ricordi di rossetti e rimmel, di dita e labbra e un giardino vuoto. Con un gesto nervoso cacciò via quel passato ostile e il treno ritornò a fischiare lungo i binari.
Sulla tratta che porta a Villa San Giovanni, il treno aumentò la sua corsa. Sembrava mordesse la terra, che squarciasse le gallerie buie dove al di là un futuro sembrava svanire. Binari sempre uguali, forse un po’ indifferenti com’era lo stato d’animo di Alberto in quel momento, in quella notte. Eppure doveva essere appagato dalla serata trascorsa al teatro, del degno riconoscimento della sua opera, ma… Alberto aveva sempre dentro di sé un malessere di vivere.
Mezzanotte passata e il treno giunse finalmente Villa San Giovanni. Le operazioni d’imbarco e la sistemazione dei vagoni snodati all’interno del traghetto durarono circa mezz’ora. Alberto aspettò che il suo vagone si fosse liberato e percorrendo la ripida scala salì sulla balconata del traghetto. Buio tutt’intorno e una leggera brezza gli invase il viso percorrendo tutto il corpo e facendolo tremare. Si sistemò su una poltroncina bianca cingendosi con le braccia e tenendo stretto il cappotto. Accese e fumò avidamente una Camel. Dopo un po’ il traghetto mollò gli ormeggi e iniziò la sua traversata in direzione della Sicilia. Si sedette sulla poltroncina bianca alla ricerca di quelle luci dall’altra parte della costa ma la Sicilia era ancora molto lontana. Quel mare sembrava assecondare lo stato d’animo di Alberto ma faceva paura, somigliava ad un ballerino che danza con la notte, vorrebbe le tue mani, boccheggiare con te, toccarti sfiorarti, portarti con lui. Alberto guardava il mare e pensò da quanto tempo non tornava nella sua terra, quanto tempo fosse trascorso dall’ultima volta che vide sua madre. Rimase fermo con le braccia a cingere le spalle anche quando un’onda indispettita lo lambì di acqua gelida. La sua mente, i suoi pensieri erano altrove, a cosa avrebbe trovato al di là di quel mare, al di là di una terra quasi dimenticata e mai abbandonata. Guardava il fumo della Camel che gli cedeva il passo e per un attimo in quella che era diventata una nebbiolina, immaginò il volto di lei… Sofia. Una donna libera ma senza un Dio. Sofia che si esaltava al vento come le foglie d’ulivo, che amava bagnarsi sotto la pioggia e adorava farsi attraversare dal sole. Sofia sempre con la gola impastata di sudore come la sabbia del deserto. Sofia meretrice di una vita senza confini. Sofia primo amore di Alberto.
I vagoni del treno furono rimessi a posto sulla stazione di Messina pronti a partire ma, uno sciopero improvviso dei macchinisti fermò il viaggio per molte ore. Alberto, che nel frattempo si era sistemato in carrozza, irritato scese dal treno inferendo chiunque si fosse trovato davanti a lui. Trascorse tutto il tempo nei pressi della stazione, non si allontanò più di tanto, aveva paura che all’improvviso il treno ripartisse e lui sarebbe rimasto a terra.
Verso le sette di sera, dopo aver oziato in un’attesa angosciante, lo sciopero terminò e il treno riprese la sua marcia verso Palermo. Intorno mezzanotte l’espresso giunse alla stazione, Alberto scese lentamente gli scalini e si diresse verso l’uscita percorrendo il lungo viale degli addì, simulacro di una ipocrisia senza ritegno. Ad un tratto sentì una voce provenire alle spalle:
<< Alberto! Alberto! >>
Alberto si girò di scatto come se intuisse di chi fosse la voce.
<< Alberto sono ore che ti aspetto, ma cosa è successo?! >>
Sofia era venuta a prenderlo alla stazione.
<<Sofia!>> quasi urlò Alberto, << scusami ma non ho potuto avvertirti in tempo dello sciopero dei macchinisti a Messina, tra l’altro avevo il cellulare scarico e non c’è stato modo di poterlo ricaricare. Ma come stai?! >>
Sofia non rispose. Si avvicinò a lui. Troppo tempo era trascorso dall’ultima volta che si erano visti. In quei secondi di silenzi e sguardi Alberto vide i fotogrammi di un replay impazzito che lo riportava indietro a quando i due si amarono. Sofia era stata per un periodo la donna di Alberto; una passione agitata la loro, fatta di continui litigi, di allontanamenti e ritorni. Si amavano di un amore e odio della stessa intensità. Sofia era come una farfalla cieca, scappava per raggiungere altri fiori, poi ritornava ed esplodeva la passione, gli rubava la vita e Alberto la lasciava fare, forse perché aveva bisogno di questi dolori, di frammenti di carne bruciata, di fiamme rotolanti. Poi la cacciava via. “ stammi lontano per sempre! Non cercarmi più!” gli diceva ma in cuor suo sapeva che non era così.
Alberto e Sofia uscirono dalla stazione e si diressero lungo via Roma. Garibaldi sul cavallo troneggiava alle loro spalle invaso dalle luci notturne che rischiaravano le loro ombre. Chissà cosa si dissero lungo quel tragitto. Lui, Alberto, trascinava a fatica i passi, lei, Sofia, a passi lenti guardava Alberto ciondolando le braccia e parlando in continuazione mentre lui lo ascoltava. Alle volte guardandola altre gettando lo sguardo lungo il confine di quella vecchia strada.
Tra il Cassaro e la Vucciria dove le statue marmoree di San Domenico benedicono ogni notte le vecchie puttane, Alberto e Sofia continuarono a camminare e a parlare sino a quando una leggera e improvvisa foschia li accompagnò. Dopo un pò si separarono. Sofia incespicando in sanpietrino alzò le mani in segno di saluto o forse di un addio. Alberto pensò se corrergli dietro per un ultimo sguardo, ma in silenzio alzò una spalla e fece un cenno con la mano e dopo si girò scomparendo tra i ciuffi di quella inaspettata foschia.
Forse non si vedranno più o forse un giorno, in una vita qualsiasi si cercheranno. Ma una cosa è certa, sia lui che lei, aspettavano questo momento. Erano come le chiavi disperse nelle tasche, come le stanze buie dove ascolti le anime della notte, come le maschere che danzano nel caos dei nostri pensieri, come quel demone che striscia e rovescia ogni cosa riportandoti al punto di partenza poiché sa che ogni tanto hai bisogno di rinascere.
Alberto camminò lentamente. Si sentiva stanco, il cellulare scarico, aveva fame e sete. A quell’ora della notte Palermo dorme, solo le statue ti osservano e ti stanno a sentire, sembra che ti accompagnino a casa. Giunto nei pressi di via Dante, ogni tanto si soffermava a guardare per terra e il fumo della Camel dietro. La paglia della sigaretta in quell’oscurità sembrava un faro. Una, due boccate, il grigio fumo andava in direzione contraria al vento, sommerge i pensieri, brucia nel buio mentre una voce roca in quella penombra lo chiamò:
<<Scusi…>>
Alberto sorpreso si girò in direzione della voce senza vedere nessuno. Poi un’ombra prese la forma di un uomo che si avvicinò lentamente in direzione di Alberto.
<<scusi è più di un’ora che sono qui perché sto aspettando un corriere… deve consegnarmi un pacco… si, un’ora insolita per consegnare un pacco ma… sa arriva da lontano ed ho finito le sigarette… sarebbe così gentile da offrirmene una? Maledetto vizio!>>
Alberto rimase immobile per qualche secondo davanti a quell’uomo, in silenzio, non sapeva cosa dire si sentiva spiazzato e confuso dal quella presenza nel cuore della notte. Non si aspettava che qualcuno potesse invadere così i suoi pensieri. Poi, si riprese. Del resto cosa aveva chiesto? Solo una sigaretta. Alberto estrasse dalla tasca dei pantaloni il pacchetto spiegazzato delle Camel e ne diede una allo sconosciuto.
Vincenzo Damiani, così si chiamava, aveva circa cinquant’anni. Capelli grigi e piuttosto lunghi, sino alle spalle. Un tipo strano e curioso. Di notte, in quella desolata strada, aspettava un pacco. Indossava una vestaglia di seta rossa e pantofole nere. Alberto rimase quasi folgorato da quell’uomo, non gli sembrava reale, uno di quegli uomini venuto da chissà dove, forse non esisteva, forse era solo frutto della sua fantasia o forse la stanchezza che gli giocava brutti scherzi.
<<scusi la domanda ma come mai solo di notte… per strada. Non riusciva a dormire?>> disse Vincenzo.
<<no… sto tornando a casa da un lungo viaggio, non ci sono mezzi in giro, ne bus ne taxi o almeno io non ne vedo e ho deciso di andare a piedi. >> rispose Alberto.
Vincenzo accennò ad un sorriso e gli porse la mano: <<io mi chiamo Vincenzo…Vincenzo Damiani, piacere.>>
Anche Alberto accennò ad un sorriso, quell’uomo lo incuriosiva e ricambiò la presentazione:
<<io sono Alberto Loi piacere, sono nato a Palermo ma vivo da molti anni in un’altra città. Oggi, dopo tanto tempo vado a fare visita ai miei genitori…>>
<<ah… viaggio, amo viaggiare.>> disse Vincenzo con enfasi. <<Se avessi potuto avrei viaggiato sempre caro mio ma… sono qui, ad aspettare un pacco che non arriva, lui si che ha fatto un lungo viaggio!>>
Mentre Vincenzo dipanava le virtù del viaggiare, Alberto lo ascoltava in silenzio. Gli piaceva quel suo scandire le parole, quelle pause, l’intercalare tra l’italiano e il dialetto, sembrava musica anche se la voce di Vincenzo non era proprio musicale ma piuttosto roca e resa ancor di più dall’impasto del fumo della sigaretta. Parlava di viaggi e cose mai viste, di un malessere continuo a stare fermo in quella terra e la frenesia di andare via, di evadere da quella routine di sentirsi profondamente diverso agli altri. Ad un tratto si sentì lo stridere di gomme, era arrivato quasi all’improvviso davanti a loro un furgone.
<<oh finalmente! Ecco il pacco che aspettavo.>> disse Vincenzo.
Il fattorino aprì lo sportello centrale del furgone ove all’interno era custodito un solo pacco. Quello di Vincenzo. L’uomo lo afferrò tra le mani e lo diede a Vincenzo il quale, guardando Alberto disse:
<< scusa…ah … va bè diamoci del tu dai… pionieri della notte! Tienilo un attimo tu per favore questo cazzo di pacco…>>
Alberto sorridendo a quella battuta prese il pacco tra le mani e aspettando che Vincenzo finisse di parlare con il fattorino pensò che era stato fortunato quella notte ad incontrare quell’uomo; Vincenzo Damiani.
Vincenzo aspettò che il furgone andasse via e prima che questi girasse l’angolo lo salutò con un cenno della mano. Dopo invitò Alberto a salire a casa sua:
<< mi aiuti a portare questo pacco a casa Alberto? Sai alle volte faccio molta fatica a salire le scale… adesso con un pacco così pesante…>>
Alberto non disse nulla ma con un cenno del capo fece intendere di si. L’abitazione di Vincenzo era a pochi passi, proprio di fronte Villa Malfitano. Una palazzina liberty a tre piani di fine ottocento. I balconi per ogni piano erano comunicanti tra loro da una scala a chiocciola esterna, mentre i piani all’interno da una scala poligonale e Vincenzo viveva all’ultimo piano. Salì lentamente gli scalini mentre Alberto da dietro lo seguiva con una certa fatica a causa del peso del pacco. Mentre i due aggredivano i vecchi scalini, Alberto non poté fare a meno di osservare le mura di quella scala, disegni floreali di donne danzanti affioravano dallo stucco increspato delle pareti, all’altezza dei gradini e sin sopra il tetto. Un’eternità di gradini e uno strano odore di antico, quasi di abbandono e l’eco dei loro passi che rimbombavano tra le pareti. Vincenzo mentre saliva estrasse dalla tasca della vestaglia delle chiavi e senza guardarle, ma solo con il tatto delle dita, separò quella di casa dalle altre. Aprì la porta e fece cenno a Alberto di entrare:
<<Alberto… lì dove c’è la porta aperta, puoi poggiare la scatola lì…>>
Alberto si diresse verso la porta che dava all’interno di una stanza buia, entrò all’interno e poggiò la scatola per terra ma non potè fare a meno di guardare in quella penombra, tante scatole tutte uguali. Scatole accatastate una sopra l’altra su pile di tre o di quattro, tutte sistematicamente in ordine. Alberto dopo qualche attimo di esitazione tornò sui passi e chiuse la porta. Dal corridoio Vincenzo lo chiamò:
<<Alberto dai vieni, vieni a sederti qui… un bicchiere di un buon whiskey per ringraziarti e dopo se vuoi vai via.>>
Un corridoio interminabile. Le luci soffuse di alcune abat-jour rischiaravano appena il parquet che crepitava ad ogni passo e un buon odore di legno ovattato sembrava custodire chissà quale segreto. Fuori la notte tra gatti investiti e cani che urlano alla luna, le grida di una donna picchiata dal marito ubriaco, ma in quel corridoio tutto sembrava diverso. Alle pareti, senza un ordine preciso quadri di artisti sconosciuti, monili in legno e vasi in porcellana, un crocevia di stili, dal Liberty al Rococò.
A metà del corridoio Alberto si soffermò davanti ad una credenza in noce massello invecchiata stile 700’ e sopra di essa un quadro di Hopper: “ I Nottambuli … ma è originale! “ pensò con stupore. I suoi occhi si accesero di entusiasmo, gli erano sempre piaciuti i quadri di Hopper e poi i Nottambuli era il suo preferito. Come i protagonisti del quadro anche lui amava la notte, il rifugiarsi dentro un bar notturno era come dare un riposo ai suoi tormenti, dove l’anima dei poeti dava sfogo alle emozioni, dove le risposte incontravano le incertezze, dove hai la certezza di incontrare la vita vera. Su un lato della credenza un libro con la copertina rossa molto invecchiata. Alberto notò il capitello con la bordura in seta come non se ne facevano più e il titolo illeggibile, sbiadito dal tempo. Aprì una pagina a caso e ne lesse un brano: “ …rallentò i passi per osservare meglio quell’esplosione di cose e non cose, di piccoli cimeli e foto in bianco e nero su cornici d’argento, di monili in ebano e un persistente odore di tabacco antico e pensò che fuori la città dorme profondamente nel suo silenzio, nel fruscio del vento che accarezza gli alberi, nelle bottiglie rotte e qualche ciotola scaraventata nell’asfalto…”.
La voce di Vincenzo lo destò dalla lettura:
<<Alberto ma cosa fai… dai vieni. Ti aspetto di là!>> disse Vincenzo affacciatosi dalla porta del salone e agitando nella mano un bicchiere in vetro.
<<ah quel quadro… Hopper si… l’unica cosa a cui tengo. Tutto il resto buttalo via, cianfrusaglie di poco conto… dai sbrigati!>>
Il salone di Vincenzo non era molto grande, ma abbastanza confortevole e raccolto, sembrava una fotocopia del corridoio. Lui, Vincenzo, seduto su una delle due poltrone in Chesterfield color porpora e davanti un tavolinetto in massello di noce con colonna a tre piedi con sopra un bicchiere in vetro, una bottiglia di Jack Daniel’s Old seven, delle barrette di cioccolato e un piccolo vassoio di polvere di cacao, un gatto angora turco dagli occhi chiari che fissava il suo padrone come in attesa di un premio e infine una boccettina in vetro contenente dell’assenzio. Alberto afferrò il bicchiere e si accomodò nella poltrona. Sedendosi avvertì un gran senso di benessere. Sprofondò in quella poltrona rilasciando completamente i muscoli e la mente. Anche quel blues in sottofondo che sembra arrivare da sotto i piedi e ti entra dentro; il whisky impastato al cioccolato e trattenuto per qualche secondo in bocca… chiuse gli occhi e per un attimo dimenticò tutto; la serata al teatro, gli applausi, i fischi, il treno, la nave lo sciopero e anche Sofia. Volle trattenere a se quel silenzio, farlo suo e non condividerlo con nessuno. Tutto sembrava perfetto e così irreale.
<<ottimo questo whisky, sento ancora l’odore di quercia, aperto proprio adesso per l’occasione. Un amico… si… un nuovo amico direi, appena arrivato.>> disse Vincenzo guardando Alberto e riponendo la bottiglia sul tavolo.
Vincenzo vuotò il suo bicchiere frettolosamente ritornando a riempirlo.
<<amo stare con me stesso. Alle volte anche il gatto mi da fastidio. Guardare il colore di queste stanze e pensare che forse avrei dovuto condividerle con qualcuno. Forse hanno ragione gli altri a dirmi che sono un po’ misogino… ma il tempo credo sia con me.>>
<<non hai una moglie, dei figli insomma una donna…>> disse Alberto.
<<le donne… già. No, non ho una donna nel senso che non mi sono mai sposato, qualche avventura si… ma nulla di che. Amo stare troppo da solo per avere una donna tra i piedi e figurarsi poi dei figli.>> rispose Vincenzo.
Alberto prese il suo bicchiere tra le mani e lo guardò sospirando e assentendo con un cenno della testa a quello che aveva detto Vincenzo.
<<per certi versi posso dire che siamo simili, anche a me piace stare con me stesso. Non ho una donna fissa e ogni volta che si presenta l’occasione di un incontro, spero che la mattina al risveglio di non trovarla nel letto. Non mi sento un moralista ne odio le donne anzi…solo amo vivere e ragionare da solo…>>
Vincenzo si fece una gran risata piena e tracannò un altro bicchiere. Alberto lo seguì ridendo insieme a lui. Il ghiaccio era rotto e si sentiva sempre più a suo agio, si era creata una specie di complicità tra i due, Vincenzo prese un cucchiaio di polvere di cacao e lo versò nel bicchiere di Alberto.
<<fiumi di inchiostro sono stati consumati da poeti, scrittori ecc. per descrivere la donna e i suoi molteplici aspetti senza mai analizzare veramente di cosa fosse capace, di scoprirne la vera identità e la responsabilità che hanno su noi uomini… coglioni ma sempre uomini! E poi i sentimenti… ah cosa troppo complicata, ma forse sono un egoista… forse l’ultimo degli egoisti!>> Vincenzo prese un sorso trattenendolo qualche secondo in bocca e riprese quella specie di orazione. <<la mia vita non è trascorsa molto in fretta o forse no, ho creato e non mi sono fatto mancare problemi e tanti ne ho risolti ma non ho mai avuto la frustrazione di avere una donna accanto che mi svegliasse la mattina.>>
Alberto non disse nulla, non parlò, si limitò solo ad ascoltarlo. Era completamente preso da quell’uomo conosciuto qualche ora prima, una specie di Bohemien dei nostri giorni. Un uomo apparentemente stanco della società perché la considerava piatta, un anticonformista, forse anche un artista. Lui si sentiva proprio così quella notte: un uomo che aveva preso in prestito le ali di Icaro.
<<nulla è come sembra, anche in questa stanza… pare che ci sia tutto ma alla fine non c’è nulla. Io, tu, i nostri bicchieri e un mondo fuori che spesso non ci appartiene, anche adesso… sto fumando la mia ennesima sigaretta scroccata al primo che incontro… no… tranquillo non mi riferisco a te. Il bicchiere mezzo vuoto, il gatto sul tavolino che freme di giocare l’ultima partita a scacchi… chissà cosa cazzo pensano i gatti!>> concluse Vincenzo bevendo d’un colpo tutto il whisky.
Alberto tornò ad osservare il suo bicchiere e notò che era ancora mezzo pieno. Amava sentire il sapore, la robustezza, lo tratteneva in bocca tra la lingua e il palato, bloccarne la furia, tranquillizzarlo con il cacao.
<<Sto bene, si sto proprio bene.>> disse Alberto guardando dritto a se in direzione di una tenda che copriva l’unica finestra di quella camera e la voce di Ella Fitzgerald nelle note di Suppertime, sembrava avvolgere la stanza sottolineando immortali pensieri. Vincenzo e Alberto chiusero gli occhi per qualche secondo, solo le note di quel blues che sembrava camminare nelle loro teste.
L’atmosfera venne spezzata dal trillo di un telefono.
Quel suono sembrava arrivare da molto lontano. Non riusciva a capire, guardando il lungo corridoio, da dove arrivasse il suono. Vincenzo con aria infastidita riaprì gli occhi, si alzò, poggiò il bicchiere vuoto sul tavolinetto e dopo essersi scusato con l’amico si diresse verso il corridoio.
<<chi cazzo sarà a quest’ora che rompe i coglioni!>> sentenziò quasi urlando.
Alberto poggiò anche lui il suo bicchiere osservando Vincenzo che scompariva nella luce opaca del corridoio, ma il telefono ancora non smetteva di suonare, insistente e Vincenzo ancora non era giunto a destinazione.
“ ma dove sarà mai questo telefono “ pensò Alberto; quindi si alzò dalla poltrona e scostando la tenda e guardò fuori dalla finestra.
Una puttana sotto un lampione, un uomo a bordo di una bicicletta, nessuna macchina, nessun rumore e una strana predominanza di blu notturno fasciava il tutto e sempre… sempre quel trillo di telefono che non smetteva di squillare. A un tratto un tonfo fece girare Alberto di scatto in direzione del corridoio. Un rumore come di qualcosa di pesante che cade per terra. Corse verso la fine del corridoio, entrò nell’ultima stanza e vide Vincenzo riverso per terra con la cornetta in mano. Un telefono bianco come si usava una volta, poggiato su un tavolino di radica, anch’esso scaraventato per terra. Alberto si chinò per aiutare Vincenzo a sollevarsi ma nel frattempo questi aveva già risposto alla chiamata.
<<Lara… Lara ma dove cazzo sei? Stai calma non gridare fammi parlare cazzo! Ma cosa ti è successo? Dove?...okay ho capito vedo come posso raggiungerti… ciao a dopo.>>
Vincenzo aveva bevuto troppo e quasi non si reggeva in piedi ma la sua dignità era più forte del suo ego. Non volle essere aiutato e si rialzò da solo, lasciando per terra cornetta, telefono e tavolino. A passi lenti, ritornarono in salone mentre Vincenzo farfugliava qualcosa d’incomprensibile, non riusciva a sostenere i suoi pensieri.
<<era Lara al telefono… stronza! Una donna con la quale ogni tanto mi sento, nulla d’importante… alle volte ritorna…>>
<<è successo qualcosa?>> disse Alberto.
<<ma che cazzo ne so! Dalla voce sembrava più ubriaca di me… dice che è stata malmenata da alcuni sconosciuti che le hanno rubato l’auto, dice di trovarsi in un autogrill poco fuori città… mi accompagneresti a riprenderla io non sono in condizione di guidare.>>
Alberto non era più padrone della sua vita, era totalmente coinvolto da quell’uomo, da quella casa, dalle stanze, dall’odore di cacao e dalla musica che continuava a suonare sempre le stesse note e da una storia che non gli apparteneva.
<<si, certo d’accordo, dimmi dove dobbiamo andare…ti accompagno.>> Alberto quasi fremeva, una inspiegabile impazienza lo assaliva, ma gli sembrava del tutto naturale continuare in quel vortice di disordine che lo attraeva così tanto, quello stato di cose che stava travolgendo la sua sfera, da quel fanciullo forse un po’ cresciuto, da quell’essere fragile e d’acciaio allo stesso tempo, da quella paura e arroganza che lo ammaliava così tanto da essersi dimenticato di cosa avrebbe dovuto fare a Palermo.
Alberto salì in auto e si mise alla guida. Tentò di mettere in moto l’auto ma questa non ne voleva sapere. Accanto a lui Vincenzo, con addosso sempre la vestaglia rossa e le pantofole nere, chino su un lato, farfugliava delle cose: <<l’ultima ora è arrivata ho sonno sono stanco non avresti avuto bisogno di me non ho rimorsi…>> Alberto continuava nella sua opera di persuasione nei confronti di quell’auto che non ne voleva sapere di partire.
<<fa’ sempre così… ogni volta ogni santissima volta cazzo! Devi aspettare…aspettare…>> disse Vincenzo con voce impastata. L’auto finalmente si decise a partire e Alberto fece un sospiro di sollievo mentre Vincenzo con gli occhi chiusi e sempre riverso su un fianco, sembrava dormire. La città era vuota, quasi irreale, nessun mezzo o persona per strada, solo la loro macchina che sfrecciava in direzione di non si sa cosa e dove.
<<che strada devo prendere?>> disse Alberto continuando a guardare la strada davanti a se. Vincenzo borbottando qualcosa fece intendere di prendere l’autostrada e che l’autogrill si trovava a pochi chilometri fuori città. In effetti ci vollero circa dieci minuti e finalmente giunsero a destinazione e lì, videro Lara.
Stava lì, seduta su una panchina arrugginita, chinata con il corpo in avanti e la testa tra le mani, una parte del vestito ridotto a brandelli, indossava una sola scarpa, un decolté in pelle nera e una parte del collant arrotolato sulla gamba destra. Lara non si accorse dell’arrivo dell’auto e di Vincenzo che la osservava in silenzio. Dopo sollevò la testa e vide Vincenzo e quell’uomo. Si alzò di scatto dalla panchina abbracciando al collo l’amico.
<<Vincenzo dio mio sei qui!>>
<<si… ma che cosa di cazzo è successo?! Questo è un mio amico…Alberto… mi ha accompagnato altrimenti io non sarei riuscito a venire, non sto proprio bene…>>
Lara cercò in qualche modo di rimettere a posto i brandelli del vestito, si strofinò le mani in viso nella speranza di ripulirlo dal rimmel che lo rigava e si accorse che da un lato della bocca fuoriusciva del sangue.
<<cazzo! Mi hanno spaccato un labbro! Bastardi maledetti!>> e iniziò a piangere. Alberto e Vincenzo in qualche modo cercarono di calmarla e di farsi raccontare l’accaduto, ma Lara, in preda al pianto e allo sconforto e anche un po’ brilla, riuscì solo a dire che si era fermata a fare benzina, e mentre stava andando via, un’auto con a bordo degli uomini, poco dopo l’uscita dall’autogrill, iniziarono ad inveire contro di lei prendendola a schiaffi e calci ed infine rubandogli l’auto. Vincenzo in un attimo di controllo sulla sua sbornia l’abbracciò: <<tranquilla adesso sono qui, lascia perdere tutto…adesso andiamo via…>>. I tre salirono in auto dirigendosi verso la città. Vincenzo si sedette dietro con Lara e Alberto ogni tanto li osservava dallo specchietto.
Lara come Sofia per Alberto, era una donna che fugge e ritorna, quella delle sere fredde, quando sei in autostrada e non vuoi stare da solo con l’autoradio, quando ti viene voglia di ballare, quando ti rintani nel tuo angolo buio e cerchi lacrime, quando vorresti condividere i fumi dell’alcool, quando vorresti guardarti e non trovi lo specchio, quando vorresti farti del male. Tutto questo era Lara.
<<voglio andare al mare!>> urlò Vincenzo. <<voglio andare al mare! Alberto svolta a destra e prendi quella cazzo di strada che ci porta dritti in spiaggia…>> incalzò ancora Vincenzo. Alberto guardò l’amico dallo specchietto con una faccia da punto interrogativo e Vincenzo rispose con un breve cenno della mano come per dire “vai”. Alberto era ormai in preda a quel vortice ma non se ne curava, anzi, assecondò l’amico e con una sterzata improvvisa girò a destra per quella strada dove alla fine c’era una grande spiaggia.
La luna piena illuminava una striscia del mare creando delle ombre sulle piccole dune di sabbia e sui visi dei tre scellerati. Vincenzo in preda ad una sorta di pazzia rincorreva Lara la quale, nel frattempo, aveva parte del vestito e l’ultima scarpa rimasta. Alberto se ne stava seduto sulla sabbia abbracciando i ginocchi e li osservava sorridendo. Pensò che quella notte aveva riacquistato una felicità perduta e che il tempo si era affrettato in una corsa senza fine a donargli quegli attimi di illusione e di grande intimità con se stesso. Vincenzo in una corsa senza respiro raggiunse Lara afferrandola per i fianchi, la sollevò con le ultime forze che gli erano rimaste e la scaraventò in mare seguendola anche lui in quelle acque gelide. Lara andò giù, infondo al mare, per un tempo interminabile per poi risalire in superficie con un balzo urlando e ridendo come una invasata. Vincenzo si avvicinò a lei a fatica anche per via della vestaglia fradicia e le diede uno schiaffo violento. Lara perse l’equilibrio ritornando immersa nel fondo per riapparire subito dopo. Nel frattempo Vincenzo era uscito dall’acqua e girandosi verso la luna disse: <<VOGLIO BERE! DATEMI DA BERE! Laraaaaa dove cazzo sei… voglio bere!>>. Sembrava un lupo che urlava tutta la sua rabbia alla luna. << Luna del cazzo dammi da bere!>>. Vincenzo cadde sfinito sulle ginocchia con lo sguardo fisso verso quel fascio di luce.
Scalzo e con la vestaglia gocciolante d’acqua, Vincenzo si allontanò barcollando in direzione della strada. Alberto e Lara rimasero seduti nella sabbia l’uno accanto all’altra ad osservarlo mentre andava via. Sembrava cantasse o dicesse qualcosa, ma il vento scompaginava quelle parole dissolvendole nel nulla. Poi la figura di Vincenzo sparì, tra la sabbia e la luce fioca di un solitario lampione che costeggiava la strada.
Lara si distese rannicchiandosi come un feto in attesa di vedere la prima luce. Alberto la osservò scostandole una ciocca di capelli dalle palpebre serrate. Accese una sigaretta e osservò il cielo. Fuggente, irripetibile, una lucentezza mai vista, il volo pesante di un gufo, un’onda più lunga che lambiva le scarpe, una bottiglia in vetro che scivola tra la battigia e le onde e un chiarore improvviso già appariva all’orizzonte. Quella foca luce rossa dava inizio a un nuovo giorno… un giorno da uccidere.
Vincenzo…
Vincenzo era andato via.
Aveva lasciato quella compagnia. Il mare, la luna, Alberto e… Lara. Non fece più ritorno. Passeggiò a lungo e trovò anche da bere in un bar appena aperto: <<mi dia quella bottiglia per favore, quant’è?...>>, disse al barista. Forse voleva tornare dai suoi amici o forse ritornare a casa ma non aveva più il senso della direzione e… camminò a lungo.
Un viale lungo e desolato, un ponte. Il viola di un giorno che nasce e il confine di una nuova luce. Una bottiglia che dondola, una penisola nella testa e il battito del cuore che scandisce i secondi, le ore i giorni. Vincenzo si fermò ad ascoltarlo, il suo cuore. Si appoggiò alla balaustra del ponte e guardò sotto. Il fiume Oreto scorreva lento verso la sua foce. Dal suo letto affioravano melma e carcasse di ogni specie ma il corso lento dell’acqua superava ogni cosa compreso i battiti del suo cuore. Vincenzo pensava alla sua vita, a quello che era diventato, a Lara e a tutte le donne che aveva amato e anche all’uomo del giorno prima…Alberto. Si sentiva solo, e milioni di spilli gli trafiggevano la testa, sentiva la realtà lentamente sciogliersi e un nodo in fondo alla gola, non avvertiva più il tempo, aspettava solo l’urlo di quel silenzio che lo invadesse definitivamente e intanto la melma continuava a emergere sul letto del fiume e le carcasse della vita di ogni uomo ad attendere lo scorrere del tempo.
Aveva quasi svuotato la bottiglia Vincenzo, gli occhi gli si erano offuscati; seduto per terra con le spalle appoggiate alla balaustra, completamente ubriaco e fradicio gli venne in mente una nenia che la madre gli cantava la sera prima di addormentarsi e rammentando il motivo iniziò con parole mute a canticchiarla. Si alzò da terra continuando a camminare e a rigirarsi su se stesso come una specie di ballo solitario, sempre con la nenia tra le labbra e la bottiglia nella mano che oscillava. Ad un tratto si girò di scatto sbattendo violentemente sul cornicione, adagiò la parte superiore del corpo sul cornicione per evitare di cadere sotto. Il braccio che tratteneva la bottiglia oscillava e lo sguardo rivolto verso l’esterno a guardare sotto, verso il letame del fiume. Dopo, aprì la mano e lasciò scivolare la bottiglia e anche lui con un balzo decise di seguirla.
I due corpi, uno in vetro l’altro in carne si confusero tra i rottami e la melma.
Lara dalla spiaggia, come Vincenzo si allontanò, lasciando Alberto che dormiva. Dopo qualche ora il sole era già abbastanza alto e Alberto si risvegliò e notò che sia Lara che Vincenzo non erano più in spiaggia, non se né curò; quindi raccolse le sue cose e s’incamminò in direzione della strada. Si fermò in un bar e prese un caffè e notò che l’auto di Vincenzo era rimasta lì, aperta e con le chiavi inserite. Salì, mise in moto e si diresse verso casa di Vincenzo nella speranza di trovarlo lì con Lara. In effetti giunto sotto casa trovò Lara ad attenderlo. I due non si dissero nulla, salirono su per le scale frettolosamente notando che la porta d’ingresso era già aperta.
<<Vincenzo, Vincenzo!>> urlò Lara, nella speranza che l’amico fosse a casa, ma non ebbe nessuna risposta. Anche Alberto provò a chiamarlo e anche lui non ebbe risposta. I due si divisero nel corridoio, Lara si diresse verso il salone mentre Alberto verso le altre stanze. La stanza dove la sera prima aveva riposto il pacco, Alberto notò che era aperta, entrò all’interno, accese la luce, ma di Vincenzo nemmeno l’ombra, la sua attenzione venne catturata solo dai pacchi messi in ordine su pile di tre o quattro file. Spense la luce, chiuse la porta e ripercorse il corridoio. Giunto all’interno del salone, illuminato dalle abat-jour, notò Mosè, il gatto, sopra il tavolino accanto gli scacchi; stava lì immobile, come in attesa di qualcosa. Alberto si girò e rigirò in quella stanza non notando neanche la presenza di Lara,”eppure doveva essere qui lei” pensò. Ad un tratto un botto: Mosè con un balzo dal tavolinetto alla credenza, aveva fatto rotolare per terra un grosso vaso mandandolo in mille pezzi e le persiane dell’unica finestra si chiusero violentemente da sole sbattendo l’una contro l’altra. Alberto si fermò al centro della stanza. Rimase immobile, quasi pietrificato e lentamente come i dadi del domino, le abat-jour iniziarono a spegnersi, ad una ad una.
<<Lara Lara!>>urlò Alberto.
Nessuna risposta. Solo silenzio e buio.
Ad un tratto da lontano, gradualmente avvertì dei rumori, come degli applausi che, mano a mano diventavano sempre più forti e vicini e da un lato della stanza, una debole luce iniziava a schiarire quel buio. Una luce fioca che dal basso risaliva sulle pareti attraversando mobili e quadri sino ad arrestarsi davanti a Alberto il quale la osservò con lo sguardo di chi appena nato non sa di essere al mondo, di chi deve imparare a parlare, a guardare anche a camminare…la stanza si illuminò completamente e dietro sentì quel diluviare di applausi e un vocio incomprensibile e incessante. Le voci andavano da un capo all’altro e Alberto sempre con lo sguardo rivolto verso quel bagliore, si sentiva quasi prigioniero, ostaggio di se stesso. Poi, lentamente si girò…, Le poltrone rosse di quella sala sembravano interminabili, anche allungando lo sguardo, non si riusciva a vederne la fine. Alberto si alzò in piedi curvando il corpo in avanti e poggiando le mani sui braccioli di legno e tutto era più chiaro.
Un sobbalzo lo colse inatteso. Un tremito lungo la schiena lo fece raddrizzare e gli applausi e i cori e anche qualche fischio sembravano aumentare d’intensità ma quelle poltrone erano vuote! Il rosso del camoscio era perfetto, nessuna piega o increspatura, tutto in ordine, nessuno sedeva su quelle poltrone, nessuno era in quella sala, anche l’odore rendeva l’idea di un teatro appena aperto in attesa di riempirsi. Nessuno in quell’istante eterno viveva all’interno del teatro ma Alberto continuava a sentire il vociare e le mani invasate che si percuotevano l’una contro l’altra: “ Bravo! Bravo! Bravo! “.
Alberto continuò per un tempo interminabile a guardare dritto davanti a se, poi lentamente si rigirò e si diresse verso l’uscita.
Una leggera nebbiolina rendeva l’asfalto bagnato. Alberto alzò il colletto del cappotto, accese la solita Camel, il fumo si mescolava al suo alito. La mano destra chiusa in un pugno immersa nella tasca destra, l’altra andava su è giù tra la bocca avida di fumo e il precipizio del catrame bagnato.
Una città qualunque, senza spazio, irreale, nessuno in giro a condividere con lui questo momento. Fece pochi passi fuori l’ingresso del teatro, si fermò sulla soglia dei marciapiedi gettando lo sguardo verso un lampione che colorava d’oro la pece della strada, guardò l’orologio e la strada, un furgone giunse dalla sua destra e si fermò davanti a lui.
Dal furgone scese un uomo piuttosto basso il quale senza dire nulla, tese un pacco tra le mani di Alberto. Questi lo poggiò per terra e ne strappò un lembo dall’angolo. Si avvicinò lentamente e guardò dentro per assicurarsi che tutto fosse a posto; l’ammasso di nastri di triacetato di cellulosa fuoriuscivano da quel lembo scoprendo alcuni fotogrammi di chissà quale pellicola.
“ E’ tutto a posto “ pensò Alberto. Richiuse alla meglio il lembo lacerato, tirò su il pacco ringraziando e girandosi verso il teatro iniziò a camminare. L’uomo del furgone lo chiamò:
<< scusi, ha dimenticato di firmare. >> disse l’uomo allungando tra le mani un foglio e una penna.
<< si… ha ragione dimentico sempre. >> rispose Alberto tornando in direzione dell’uomo. Poggiò il foglio sopra il pacco firmando la distinta.
VINCENZO DAMIANI
Il fattorino ringraziò, accennò a un sorriso e risalì sul furgone scomparendo tra la foschia e la fine della strada. Alberto seguì con gli occhi il furgone sino a quando non fosse scomparso del tutto, riprese il pacco tra le mani e si diresse in direzione opposta al teatro.
Andò via lentamente, con quel pacco tra le mani. Come un’anima sgualcita nell’asfalto consumato e le luci di una notte qualsiasi.-
Id: 1718 Data: 15/01/2013 09:58:52
*
Parole e silenzi
Non mi ricordo più quando è successo l'ultima volta in cui
mi sono soffermata a guardarti.
Forse mentre giocavi a calcio oppure l'ultima volta che hai
dormito da me. Comunque, mi chiedevo se per caso tutte le
mie opinioni su di te sono essenzialmente fondate su un
equivoco.
Mi chiedevo se era stata come una storia d'amore, quando
vedi nell'altra persona qualità straordinarie che poi
svaniscono man mano che la conosci meglio, fino a
dissolversi del tutto. Mi chiedo, ancora, cos'è stato a
farmi vedere in te, per così tanto tempo, il mio ideale di
uomo e farmi arricchire questo ideale di elementi ogni
volta che scoprivo un particolare della tua natura
complessa; se ti sei mai reso conto DAVVERO di quello che
significavi per me, se ci hai giocato. Se sapevi come
continuavo a confrontare con te gli altri uomini della mia
vita, solo per vederli SEMPRE uscire male dal confronto.
Ti sei immaginato il terribile senso di carenza che mi
susciti ad intervalli ricorrenti?
Mi sono innamorata di te, mi passera con il tempo.....Ma
se non passa? Si fa presto a dire che il tempo sistema le
cose, ma a volte non basta!
Tutti si lasciano. Io e te non ci siamo mai neanche messi
insieme. Mi sembrerà impossibile non vedersi più.
Ci si innamora sempre delle persone sbagliate....Forse solo
di quelle.
Ti ricordi? Da un bacio. Inizia tutto così. I grandi amori
e i grandi odi. Un bacio!
La nostra è stata una storia d'amore. Almeno per me lo è
stata. Te lo dico ora. Ho sbagliato, dovevo scappare. Adesso
sto annegando dentro le parole che ti ho scritto e urlato
contro in silenzio. Potevo scegliermi una storia più
sincera ed invece decisi di scendere in questo imbuto di
mezze frasi e nascondigli.
A volte il Sabato rientro a casa, salendo le scale, gli
occhi mi si riempiono di lacrime. Credevo che quelle
lacrime non sarebbero mai finite.
Penso spesso alla nostra amicizia. Alle sigarette accese e
scroccate, le chiacchiere notturne, le risate, il boato dei
nostri pensieri.
Adesso? Come stai? Come ti vedi in questa lettera d'amore?
Per cent'anni rimarrai intrappolato in queste righe ed io
avrò anche il coraggio di dirti che le ho scritte per te.
La cosa che più mi rende difficile dimenticarti è il fatto
che ho passato momenti splendidi, sono stata felice, anche
se solo per pochi attimi.
Avevi il meglio e te lo sei fatto scappare.
Si dice che : " NULLA E'PIU'DOLCE NELLA VITA DI UN GRANDE
SOGNO D'AMORE".
Io posso dire di averlo vissuto.
Palermo, Febbraio 2005
Id: 1654 Data: 25/10/2012 17:14:17
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Impotenza
E' passato un'anno e il suo cervello non riesce ancora ad assimilare quello che è successo. I problemi fisici non sono insormontabili anche se molto intensi e persistenti, non è da molto che l'hanno messa seduta...ma quello che ancora fa più male alla sua esistenza è questo non riuscire ad adattarsi a questa nuova situazione, il mondo attorno è fuori, lei continua a girare noiosamente su se stessa e nonostante tutto vorrebbe fare parte di questa noia ma allo stesso tempo vorrebbe essere morta per non sobbarcarsi il peso di questa esistenza... A volte vedo sua madre piangere...capire la situazione ma essere felice che lei sia ancora viva e lei guarda...guarda il suo futuro e lo vede inguardabile, pensa al passato e sà che è impensabile, ormai sepolto con i suoi progetti, ascolta il presente e sente solo un potente e prolungato urlo di disperazione e soprattutto di...impotenza…-
Id: 1653 Data: 25/10/2012 17:11:12
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Memorie dal Sottosuolo
MEMORIE DAL SOTTOSUOLO
(Il vorticoso flusso di coscienza) … Us and them andafter all we’re only ordinary men me and you quante volte Leo sentì questo motivodei Pink quante volte rimise indietro questa musica anche quando Lara glidisse: ma chi sono? E Leoinfastidito dall’ignoranza di quella donna uscì fuori da quella scatola dicarne e non parlò più per ore e Lara non capì non capì cosa stava accadendo aquel suo amore perso non capì che la sublimazione di una nota alle volte contapiù di un orgasmo… … quante foto in bianco e nero sul quel divano di quel salottino eLeo era confuso non sapeva cosa scegliere foto anche a colori ma l’indecisioneera troppa allora decisa di andare via e si scontrò con una bianca e teneraWolkswagen dove un cagnolino abbaiava senza un perché forse era geloso pensò ea Leo quella giornata in Wolk gli costò troppo ma ne valse la pena… …Lara voleva sposarsi era sempre stato il suo sogno ma Leo non lastava a sentire poi un giorno Lara si ruppe la gamba e Leo sorrise e corse traquelle corsie dell’ospedale che tale non era perché troppo pulito el’infermiera scalza inferocita corse per le scale ma Leo aveva già consumato escappò via lo ritrovarono a ubriacarsi altrove con altro Jack Danielsinvecchiato… … Leo sempre alla ricerca di se stesso o alla ricerca di cosa nonsi sa e non è dato saperlo ma al “Roney” di una città come tante vide Lara dasola che si dondolava al suono del contrabbasso e partenze e ritorni e suoni nella mente e spari involuti emare e montagna ma anche pianure con la luna semiseria e abbastanza grande dasembrare vera e Leo prese paura al ritorno di quel viaggio ma Lara seppe comeprenderlo e andò via no anzi andò via lui come aveva fatto tante altre volte… …Lara aspettava sui binari del treno come diceva una vecchiacanzone e Leo troppo lontano come sempre per indolenza o per tedio non fece intempo la rivide su altri binari stavolta quelli di un’altra città e fece unacorsa stavolta tra panchine e pioggia si dissero tutto quello che c’era da direpoi Leo andò via… … Leo fece tutto quello che lei gli chiese e sulla vespaarrugginita spostò le nuvole grigie dalla strada ma queste erano talmente tanteche lo inondarono d’acqua dalla testa ai piedi e davanti alla fermata del tramcon il solito omino di sempre si abbracciarono come non mai ma erano anchefradici e Leo così si ammalò e andò via… …saltava sul letto Lara e sembrava un cagnolino impazzito e Leonon sapeva cosa dire al portiere dell’albergo ma questi con molta discrezionelo accompagnò al terzo piano e trovòLara seduta ai bordi di quel letto con le braccia raccolte a proteggere la suavita e Leo passò la notte domandandosi se doveva andare via… …gli scogli e il mare di notte senza luna è meglio ma a volte famale non ci si vede e Leo non vide nulla ma toccò il fondo di quelle acquescure e dopo riposò sulle sue braccia tra la sabbia e l’umido di una sera cometante di una notte come tante e i fuochi e gli sputi e i Pink Floyd cheaccompagnavano quei momenti in macchina e Leo e Lara decisero che forseera meglio andare via… …Lara vedova vestita di rosso faceva le carte per diecimila lireper un tozzo di pane per dirti cosa volevi sentirti dire e aveva unafiglia ma non di rosso ma ancora vestita di rosa e un giorno volle dire ciò chela sua mente costruì ma Leo scappò via e lo ritrovarono con la cartomante rossain un treno per chissà dove… …via Libertà e i suoi alberi via Croce Rossa e i suoi ricordi eLeo cambiò opinione su quei momenti di pacata euforia e non capì che Laravolesse un figlio come tutte le altre lo avevano chiesto e Leo non era prontocome figlio figuriamoci come padre esui viali della Favorita e sulle ville Liberty di Mondello tentò di andare viama Lara lo fermo’ in tempo prima chefosse troppo tardi… …Lara era una contraddizione vivente forse anche per necessità eviveva con fierezza la sua vita ma alle volte era terribilmente vera scoprivala sua anima ogni volta che aveva un nuovo amore e Leo era quello di turno ungiocattolo da rompere e riparare ogni volta che lo voleva e Leo si smarrivadavanti a lei non era più se stesso alternava come un ossesso solitudine edebbrezza depressiva o soffocava nel suo petto pensieri di evasione ma speravaogni volta di non essere sempre lì… … continua… …Lara volle dimagrireLara prese un taxi Lara scappò via quella sera di pioggia come sempre a Palermoe una notte due ore e mezza non furono sufficienti per aver concesso a Leoun’ultima opportunità il giudizio di quella donna famelica e avida di corpoprese il sopravvento e ancora una volta Leo fuggì via… …. Leo non poteva mai dimenticare cosa aveva alle spalle e ognivolta era come un viaggiare a ritroso nel tempo rivivere sempre tuttodall’inizio e sopportare tutta la trasparenza di una vita vissuta con Lara mail destino immediato era fatto di mura bianche e trappole irresistibili eancora una volta Lara lo aspettava al varco quella notte nascose il viso e isoliti affanni e la gabbia divenne opaca e Lara si sedette sul muricciolodavanti ad un fuoco innaturale e sigillò il suo amore con un ago… ….Lara pianse e Leo era assente poi un giorno attraverso cavistanche le disse che tutto era finito altre nuvole stavano accorrendo al suodestino gente crudele e persone inadatte forse insensibili ma nonostante tuttoquesto Lara era ancora una volta pronta a servire il piatto la sponda ancorauna volta… …la gente giudica e non sopporta e Lara si inumidisce ad ognisconfitta ma come un leone ferito trova sempre la forza di alzarsi e graffiaree Leo la vittima prediletta si tormenta l’anima e non trova mai l’uscita e nonsa se vivere o morire… …Leo si vesti prese l’auto e si inoltrò tra le montagne che nonconosceva tra la dilaniata conoscenza di se tra i tumulti d’eruzione che lavita gli stava dando e giunse notte fonda davanti al camino dove Lara stava adaspettare e il suo profilo davanti al fuoco vagava infinito perdendosi tra lefiamme inesorabili di una notte di fine anno… … continua… …Si nutriva di se stessacome la terra si nutre di se del buio della luce di quella energia di spazi affollati ma si nutriva anche di lenzuolaLara ma anche di guerre fatte in casa per stradanei palazzi si nutriva anche di quella indifferenza e non sapeva amare il suoera solo egoismo e Leo scese daltreno un giorno un sacco di gente pazzi ubriachi e studenti e pensò ad un ritorno a quella terrra… … Leo vagava tra nebbie e corpi e sangue e logoramenteportava il suo cuore a brandelli consumato dai fremiti di quella donna giovanee dolcissima e mancava poco ormai a quel pomeriggio autunnale e Palermosonnacchiosa come sempre aveva su di se un cielo plumbeo e quanti sognidelusioni speranze hanno trovato posto in quei giorni da qualche parte forsepoteva costruire un piccolo mondo attorno a se… … Leo conosceva la notte dai scogli selvatici e pisciava su sassiintrisi di sale in una notte di stelle d’agosto ma non dimenticò maiquell’inverno e la presenza assoluta di una vigliacca meteora che si conficcòdritta negli occhi un punto una luce un racconto una donna senza nome… … continua… …Non chiedere nonpensare non parlare non ha più senso e troppe volte Leo tentò di costruirequalcosa di buono ma piaceva troppo uccidere la sua vita forse per ridare corpoalla sua lucidità il male dell’anima era in sé il suo obiettivo… …. Leo non sapeva cosa significasse essere soli non avere nessunocon cui dividere giorni amori fragili e sentimenti era come la gente che rideche alle volte lo fa perché piena d’amarezza o perché dentro ha grandi piazzebuie e la disperazione gli si attacca sulla pelle sull’anima vicoli bui edebolezza ancestrale Leo rimase imprigionato nella sua stessa scatola unascatola che girava attorno a se… …Leo vide la casa dove Lara abitava la sera con il volto buioilluminato dalla sola luna e i suoi occhi alla finestra e poi passeggiare tral’erba e i fiori e sentire il calore della sua paffuta mano parlavano dellaloro vita della famiglia non voluta dei lavori e della loro infanzia e Laraseduta su una pietra scopriva la sua vita vissuta si lì… …Lara sognava di incontrare qualcuno a cui dire cosa sentivadentro al suo corpo i suoi cambiamenti la sua curiosità e si guardava allospecchio ma non si piaceva e dettava ogni giorno nuove cose desiderava essereamata e Leo gli raccontò quando la vide per la prima volta… … Un giorno Lara ebbe l’impressione di non sentire più il suorespiro Leo l’aveva lasciata e un nuovo profumo la riportò indietro nel tempo senza luce nell’anima maledì tutti quei giorni trascorsi e la velocitàdel sangue gli fece scoppiare la testa dal dolore voleva dimenticare volevafuggire da quel corpo che era stato una mercè per Leo voleva Leo morto… … continua… … Però se tu mi dici che sei pronto a iniziaresubito per una nuova strada disse Leo un giorno di folliaal telefono di casa mentre guardava suo padre fare la valigia e andare via Leoaveva scelto un posto riparato nel vano di quella scaletta e si era messo aleggere avendo una luce abbagliante e l’odore del caffè che si spandeva per lastanza e Lara ancora non si era vista ma l’imbarazzo del primo incontro Leo nonlo dimenticò mai la radio suonava all’interno di quella Panda rossa ma non sisentiva la musica solo parole mute… … non aveva pace Leo non era calmo sempre agitatoe disturbato una sua caratteristica sin dalla nascita si quella poi…gli dicevanosempre che sarebbe morto lui e la madre e che c’era anche un prete e il padreche piangeva per la disperazione e la pistola nel taschino pronta a usarla maLeo venne al mondo comunque e continuò ad agitarsi e poi scomparve… … Leo osservò i cocci della sua vita in unlavandino sporco e dietro gli ori da dare a chissà chi Ma nonostante tutto lasua mente scappò via ancora una volta e riprese la scuola ove l’insegnante dimatematica addobbata di ori e cimeli si scandalizzò quando Leo gli raccontò delsuo IO…ma Lara ancora non c’era
Id: 1478 Data: 06/05/2012 12:51:52
*
La scelta di Lara
“ La Sceltadi Lara “ Il ragazzo piange. Seduto sugli scogli. Ma nonè un pianto agitato ma lacrime stanche, di chi ne ha versate fin troppe negliultimi giorni. Il mare sembra assecondareil suo stato d’animo; è calmo, sicuro. Pare triste. La spiaggia è vuota;ottobre è iniziato da poco ma in un paesino così piccolo gli unici turisti sivedono solo tra luglio e agosto. Il ragazzo ama quegliscogli, proprio lì due anni ha dato il primo bacio a quella che ora è la suaragazza. Inoltre, tante serate coi suoi amici si sono concluse proprio lì, aguardare quel mare di notte, con la luna che seducente si specchia nell’acqua.E tante, forse troppe volte ha passato lì ore intere a riflettere. E’ quasi ovvio che, in unmomento tanto difficile, abbia cercato rifugio in quel posto. E’ rannicchiato, chiuso inse stesso. Stringe le sue ginocchia,inumidendo le sue stesse braccia con le lacrime. A casa non lo vedono dalgiorno prima. Forse nessuno si è ancora accorto della sua assenza. Anche perchel’unica ad abitare legittimamente con lui è sua madre, che in questo periodospesso lavora all’ospedale anche di notte. Suo padre non l’ha maiconosciuto: è scappato da casa quando lui era troppo piccolo per poterneserbare il ricordo. A volte a casa sua c’è ilfidanzato di sua madre. Un uomo perbene: un bravo impiegato e, sicuramente, uncompagno affettuoso. Una persona affidabile egentile, insomma: anche troppo per una donna come sua madre, così legata allalibertà e all’indipendenza, così insicura e instabile. Infatti, spesso litiganoe lui se ne va promettendo di non tornare mai più. Poi ovviamente ritorna,magari un mese dopo. In realtà, il ragazzo non ha un rapporto molto profondocon quell’uomo: in ogni caso, a modo suo vi è affezionato. Però al momento ètroppo confuso per ricordare se quella notte lui avrebbe dovuto dormire a casasua oppure no. E’ molto probabile, insomma, che nessuno si sia preoccupato delfatto che il ragazzo abbia passato la notte fuori. E’ uscito la sera prima,alle sette. E’ passato al minimarketdel paese, comprandosi un paio di lattine di birra e una bottiglia di vodka. Lelattine non sono durate molto. La vodka, invece, è stata più ostica: il ragazzonon aveva praticamente mai bevuto prima di allora. Non è riuscito a finirla,nonostante le lunghe e ripetute sorsate cui si è dedicato per tutta la serata. Ubriaco, vacillante etriste, è stata una lunga notte, passata qua e là, fuggendo lo sguardo dellepoche persone che ha incontrato. Ha mandato qualchemessaggio a Lara, la sua ragazza; prevalentemente messaggi deliranti, privi diqualsiasi filo logico. “Sei ancora il mio ragazzo?” le ha chiesto lei, semprevia SMS, alle cinque del mattino. Lui non ha esitato neppure un istante: hasubito iniziato a battere sui tasti del cellulare, anche se i suoi riflessiazzerati e la sua vista annebbiata hanno fatto sì che ci mettesse cinque minutisolo per scrivere: “Ti amo, scema. Anche se tutto questo mi uccide dentro.”. Poi ha spento il cellulare:non gli andava di sentirla ancora. E’ andato a dormire sullaspiaggia, nonostante il freddo. Ha dormito poco, si èsvegliato alle sette, ritrovando in pochi minuti la lucidità da cui fuggiva lasera precedente. Ha passato la mattinata continuando a girovagare, non haneppure preso in considerazione l’idea di andare a scuola. Ha mangiato controvoglia unpanino, poi si è rifugiato sui suoi scogli. Sono passate più di tre ore e lui èancora lì, inamovibile. Non ha pianto tutto il tempo, ogni tanto, però, lelacrime prendono il sopravvento, e lui non fa niente per trattenerle. E’ così distrutto chevorrebbe sprofondare per sempre in quel mare blu che, maestoso, si stagliadavanti ai suoi occhi. Ma non può. Vuole stare accanto alla sua ragazza. Certo,tutto questo dolore glielo sta dando proprio lei: tuttavia, la ama. Proprio per questo non laabbandonerà. Anche se le cose diventeranno difficili da oggi in poi. Sono le quattro e mezza. Ilcielo, nel giro di pochi istanti, si copre di nuvole. Un forte vento inizia asoffiare; il mare di lì a poco si innalza, agitandosi e colpendo violentementegli scogli. Schizzi d’acqua raggiungono il ragazzo che, nonostante ciò, non sialza. Rimane lì. E’ come se fissasse il maredritto negli occhi, senza farsi intimidire dalle sue onde, senza abbassare losguardo neppure per un istante. Il cellulare suona ed ilragazzo si appresta a leggere il messaggio ricevuto. Proprio in quell’istanteun’onda esageratamente alta scaglia la sua forza a pochi metri da lui. Glischizzi lo bagnano dalla testa ai piedi, unendosi alla pioggia che, leggera, hainiziato a cadere. Il mare è ora infernale,non c’è più traccia della calma di pochi minuti prima. Il messaggio è di Sara, naturalmente:“So che ti fa male, ma è giusto dirtelo: è andato tutto bene. Nessunacomplicazione.”. Il ragazzo urla dal dolore. E’ come trafitto: si era preparatoa subire questo colpo, ma non si può ammortizzare in nessun modo una pena tantogrande. Urla come un invasato. Fino a un momento prima non aveva notato lagrossa pietra che giace ai suoi piedi, ma ora la guarda, la raccoglie e poi,con tutta la sua forza, la scaglia lontana da sè. Il mare è così pieno difrenetico orgasmo che sembra ignorare l’aggressione: ingoia la pietrasilenziosamente. Risponde poco dopo, con una forte onda che, ancora una volta,travolge inesorabilmente gli scogli. Il ragazzo si lascia cadere sulla durapietra, le mani impattano contro la roccia, ferendosi. Il sangue escelentamente; il ragazzo porta le sue mani alla testa, sporcandosi il volto conquel rosso nettare di vita... Il mare è così fragoroso che il ragazzo non sente i passi che da dietro gli siavvicinano. Ma non può non sentire le mani che, vigorose, lo abbracciano. Si volta. La donna che è sopraggiuntatrasale nel vedere quel bellissimo volto rovinato dal sangue e dalle profondeocchiaie. Lo cinge e lui, sfinito, si abbandona tra le sue braccia. Lei,protettiva, lo culla e asciuga le sue lacrime. “E’ andato tutto bene?” chiedela donna. “Nessuna complicazione...” risponde lui. Il volto gli si contorce inuna smorfia di dolore mentre dice: “Ora ha abortito, e non c’è più modo ditornare indietro.”. La donna lo avvolge nel suoabbraccio, cercando di esprimergli calore e vicinanza. “Resterai con lei?” glichiede dopo un po’. “Sì”, risponde lui. “Anche se sarà difficilissimo.”. La donna prova agiustificare la scelta di Lara: “In fondo, hai solo 18 anni. Non sei pronto peressere padre.”. Lui singhiozza. Sta zitto per un po’. La donna si siede accantoa lui. Il tempo sembra non essere mai passato per lei: ha compiuto 35 anniqualche giorno prima, ma ha ancora quell’aspetto da venticinquenne che faimpazzire tanti uomini. Lui si accoccola alla donna e si sente protetto. Sisente come un bambino. “In fondo”, prosegue il ragazzo, “Tutto quello chevolevo fare era assumermi le mie responsabilità.”. Il mare si è calmato. Le onde si sono abbassate:dove prima c’erano violenza e agitazione, ora c’è nuovamente delicatezza. “Devirispettare la sua scelta”, sentenzia la donna con un filo di voce. Il mare ora è immenso,splendido, incommensurabile. L’orizzonte è lontano: laggiù l’acqua abbraccia ilcielo che adesso è sereno. Le nuvole si diradano, il mare non è più grigio.Torna quell’infinito blu: blu, come gli occhi di Lara e come forse sarebberostati quelli del loro figlio. Il ragazzo sospira: “Io lasua scelta la rispetto, mamma...”. I suoi occhi sono tristi ed esausti. “Avevila sua età, vero? 17 anni. Eppure, se tu avessi preso la sua stessa decisione,io ora non sarei qui a piangere su questo mare.”.- Palermo li, 2000
Id: 1405 Data: 03/03/2012 09:47:35
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Cinque maledetti anni
CINQUE MALEDETTI ANNI Solo in quel momento si ricordò che erano passati ormai cinque annidall’ultima volta che le parlò. Dall’ultima volta che aveva osservato il viso liscio e fresco che ha, da così vicino. Non la ricordava così era una donna, adesso. E qualsiasi cosa l’avesseaccompagnata fin lì, l’aveva fatto o, giovani senza lui. Pensò a quando, giovani adolescenti si giuravano amore eterno tra millebigliettini colorati, affrescati da dolci poesie e premiati da piccoli baciinconsueti. Pensò alla prima volta che si baciarono, lassù sul belvedere di TerminiImerese, alle lacrime, ai sorrisi, alle lunghe telefonate, all’ “attacca primatu!”, al “ notte “, al “ sogni d’oro “. E gli si strinse il cuore. <<nonsuccederà niente in un minuto, no?>> disse lui. Nel dirlo aveva stentato un attimo che gli venne in mente che leiodiava le determinazioni del tempo. << è come ingabbiarsi da soli >> diceva. << non lo so, è tardi sai e domani…>> mentre freneticavaguardava quell’orologio color argento che aveva al polso. << non ci vorrà molto >>, la interruppe lui con a voceseria. << il tempo cambia Luca, le cose purtroppo cambiano, non losapevi? >>. Non aveva poi bisogno di molto tempo per spiegarle una cosa cheall’epoca del “ cartellino rosso “ non ebbe il tempo di dirle, che dopotutto… Dovette aspettare a lungo. Cinque maledetti anni, prima che il caso, o il fato se preferite,decidesse di proporgli l’occasione per farlo, ora. << non puoi pretendereche il mondo a te rimanga come lo ricordi, esso scorre, corre, cambia >>. << sei felice? >>, disse lui. << si >>, rispose lei. Sorridendo e accigliando lo sguardocome chi ti rammenta che in fondo no, non è il caso di fare battute. << sul serio? >> insistette lui << felice?! >> << si >> disse lei, questa volta con lo sguardo serio malieve. << Perché, tu no? >> -...gioca ancora in difesa, alcune cosenon cambiano...dopotutto. << Si, prospetticamente >> avrebbe voluto rispondere.... Ché seanalizzo ora la mia vita sto bene, sono felice, ma se dovessi allargare la miavalutazione mettendo alcuni “se...” e alcuni “ma...” allora forse...ma forse uncazzo, sarebbe stato sempre uguale. <> rispose mentre immobile la osservava nelle cure che lei dedicava alsuo orologino. -...tic..lascia stare, Luca...tac.. Aveva delle mani bellissime, mani da musicista. Avrebbe voluto dirglielo, ma lospazio che c’era in quell’abitacolo era già cosi poco che non lo volleingombrare ulteriormente con dell’inutile, estremo, sentimentalismo.-...violini. Senza sapere come o perché si ritrovò a ricordare il profumo della sua pelle inestate, la delicatezza dei suoi capelli, il tono della sua voce. -...stupidiviolini Eppure ciò che desiderava dirle,ciò che sentiva, non era qualcosa di vago, daicontorni luminescenti come i ricordi che lo affogavano,era qualcosa di moltodefinito, con un nome, un senso. Era qualcosa che aveva attraversato i mesi.Gli anni. Cinque stramaledetti anni.
Ormai faceva parte di lui, si era calcificato, fossilizzato. “unfardello di bottiglie rotte”, così lo chiamava, che gli tagliuzzavano lostomaco, all’inizio. Poi pian piano aveva imparato a conviverci, e ora nonfaceva più così male da impedirgli di vivere, ma era sempre lì. -...mandala aldiavolo Luca Per cinque stramaledetti anni, capite, cinque strafottutissimi anni. Si vergognava per gli errori commessi, per la enorme quantità di macerie ecocci che aveva lasciato dietro di sé. Per tutto ciò in lui, che l’avevacostretta a cacciarlo dalla sua vita. Ciò che all’epoca del “cartellino rosso” non comprendeva, di cui neppure sirendeva conto(- Ché un uomo non rincorre una donna), dopo averla perduta s’erafatto chiarissimo. Avrebbe voluto dirglielo. Chiederle di perdonarlo un‘ultima volta. Ma lei eracosì bella sotto la luce vibrante dei lampioni, il suo viso, nella penombradell’abitacolo aveva un qualcosa di eterno,che non ebbe la forza. -...vaffanculo!- In cuor suo sapeva che, forse, non l’avrebbe più rivista,e che, dopo cinquefottuti anni, non contava più niente, e che avrebbe voluto ricordarla così, traluce ed ombra,per l’ultima volta forse,di fronte al suo cancello. No, non era lui quello che scese dall’auto, era un altro, un tipo che non avevaavuto il coraggio di difendere i suoi sogni. Il vero LUca,le sue emozioni,erano ancora su quell’auto. <> avrebbe detto << Avrei un milione di cose da dirti, ma non ciriesco, non stasera , non così...>> e si avviò con la sua camminatasghemba verso casa. Poi si voltò nuovamente << Ricordi,non sono mai stato molto bravo con i discorsi faccia a faccia>> - ché la sua fresca bellezza era disarmante. E di nuovo le porse le spalle,verso il cancello. << Luca! >> urlò lei dall’auto << Sei uno stronzo! >>-...hai vinto vecchio Lui si fermò, stupito e allo stesso tempo felice, si voltò verso dilei,sorrise, pensò sinceramente al fardello che si era portato dentro per tuttoquesto tempo, per cinque anni, come per incanto era sparito, via , lontano Rivide ogni albero, ogni raggio di sole, rivide il suo motorino che tossivasulla salita di Via Candelai, rivide le scritte intagliate sulle panchine inlegno della piazza, rivide ogni tramonto, ogni silenzio che pian piano si eraprolungato fino a rendere certa l’assoluta lontananza. Quello sarebbe stato il momento perfetto per dirle ciò che voleva, le parole,lentamente, ma con ordine, presero forma nella sua mente,stava per dirle chemai... che dopotutto... che non... La sua bocca si dischiuse, ma non emise alcun suono. In un istante vide il fardello posarsi ai suoi piedi, la enorme quantità dimacerie e cocci che aveva lasciato dietro di sé ricostruirsi,proprio lì,davanti a lei. Capì, in cuor suo, che lei sapeva ciò che voleva dirle, conosceva bene ciò chesi era dovuto portare dentro per cinque fottuttissimi anni, dopotutto lei avevaemesso la sentenza, lei lo aveva condannato. Ma ormai, a che sarebbe servito, afar soffrire le persone che, in fin dei conti, entrambi amavano. Capì, e gli tornò in mente una frase che in quei giorni in cui il cielo è rosae le nubi gocciolano buoni sentimenti, le aveva scritto sul diario, credol‘avesse sentita in un film, e che a lei piacque molto: Un palazzo viene dato alle fiamme, tutto quello che rimane è cenere. Un tempo pensavo che questo valesse per tutte le cose:
Famiglia, Amici, Sentimenti. Ora so che niente può separare due persone fatte per stare insieme. Se le persone che amiamo ci vengono portate via perché continuino a vivere dobbiamo continuare ad amarle. I palazzi bruciano, le persone muoiono ma il vero amore è per sempre!
Capì, e per la prima volta riuscì a sostenere lo sguardo dritto negli occhi dilei. Capì che erano separati dalla distanza minima di un abbraccio impossibile. Capì che era passato troppo tempo,capite, cinque maledetti anni. Capì che molte cose erano cambiate. Capì che forse non l’amava più, come lei non amava più lui. Ma capì anche chequalcosa di molto forte li legava e li avrebbe legati per il resto della lorovita. Capì che i ricordi li avrebbero uniti, per sempre, ché anche se cancellaval’immagine di lei dalla sua mente, certamente non avrebbe potuto cancellare ilprofumo dell’erba tagliata in estate, o quella cicatrice che si era procuratoper salvare il gattino di lei che non voleva saperne di scendere daquell’albero in giardino, non avrebbe potuto cancellare l’arpeggio iniziale diCowgirl In The Sand di Neil Young o The River del grande Boss,né avrebbe potutocancellare il 1987, non avrebbe potuto........né avrebbe voluto. Capì, e disse << Buonanotte >> mentre lei lo guardava cercando didissimulare quelle lacrime che gli attraversavano le gote. Poi si voltò, camminò verso il cancello, aveva gli occhi lustri per via di quelvento sabbioso dell’estate, quello che viene dal deserto, mica piangeva ilnostro caro vecchio.
Tanto tempo,ormai,è passato da quella notte, qualcuno racconta che non sividero più, altri dicono invece che un giorno scapparono insieme lontano, non sisa dove. Per quanto mi riguarda, le storie d’amore sono belle così: senza senso.
Id: 1404 Data: 02/03/2012 19:19:00
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Un Vestito per Lara
Un Vestito per Lara Il mattino la colsesempre così, a vestirsi di cose inutili, da indossare con plateale indifferenzae molta calma. Pensieri inermientrarono nei luoghi segreti, senza nessuna potenziale prevedibile da rilevare. Poter confidareall'aria tutte le sue paure poter spegnere quella voce.Voleva smettere di urlare alla terra, al sole, al vento. Voleva confidare agli abissi i tormenti dei suoi piantigelati. L’isola delle Femmine era un puntino solitario circondatodal mare dei troppi silenzi. Al centro un lago sembrava una pozza d’acquaincisa e circondata di pietre sulle cui sponde giaceva la sabbia sottile deltempo trascorso nell’attesa di qualcosa. Il lago di Lara nacque dalle sue lacrime. Non c’era spaziotopografico, non c’erano riduzioni in scala nelle mappe geografiche per il lagodi Lara. Non c’erano persone ad ammirare le albe e i tramonti sul lago di Lara.Abiti inutili, incapaci di metterla nella condizione di decidere in libertà selasciare quell’idea invisibile che l’attanagliava ormai da tempo. Camiciabianca e collo coreano manifestavano l’immagine della sua metamorfosi damontagna di roccia a lago di luce. Bottoni di vetro azzurro e spilla libertyluccicavano in sintonica armonia con gli occhi arrossati da braci mutanti. Visospaurito da interferenze antiche. Volto innocente, ancora bello, quasi bambino.Pensiero. Semplicemente bello. Semplicemente pensiero. Nessuna mano a sfiorareil volto sfiorito di tenerezze indaganti. Dalla fronte sgorgava l’idea ritmicadel passare del giorno, gli eterei secondi i frammentari minuti e l’eternitàdelle ore. Il ciclo del giorno suggestionava il suo moto intimo e semplicementecapiva che il suo adesso sarebbe rimasto indisturbato per molto tempo ancora.Il campanello non avrebbe suonato. Il telefono non avrebbe squillato. Nellaquiete della sua stanza c’era Wanda che le infilava le scarpe. Sulle strade di Lara,Charlie Parker suonava il destino delle volontà umane con un sax da bambinoappeso al collo. La musica trasformava l’umore di Lara. Ogni cosa intornodiventava semplicemente cosa, ogni odore diventava semplicemente odore ed ilbuio diventava semplicemente buio. Lo stomaco la risvegliò dalla perfezione in cui giacevapervasa dal senso dell’armonia. La pancia con il suo bofonchiare ristabiliva unsenso con le cose concrete e razionali. Il ventre ricordava a Lara che era tempo di pasto. Menseapparecchiate in tempo su tovaglie di lino bianco. Pane immacolato per pastiimprovvisati ad assolo. Per voce sola. Allegro ma non troppo,moderatamenteandante in crescendo. Il mobile dalla luce sempre accesa ospitava un limone,anche lui solitario principio di muffa!Chiuse la porta che alloggiava ilghiaccio, un ultimo sguardo alle cose rimaste nel suo rigido mondo e poi,voltare le spalle e uscire nel mondo della luce, delle alterazioni e delletrasformazioni. Un leggero sorriso le mise in rilievo due rughe sottili. Emersein silenzio per consegnare al lago il suo dolore di melma e come un’animale infuga annusò l’aria. In cerca di preda una vittima scarnificava l’anima. Volevascivolare nel limbo per tornare a vagar tra le stelle. Voleva scivolarenell’acqua e farsi attraversare dal freddo. Voleva farsi investire dalla gioia. Non mancano le albe inquesto mondo di mattine in cui svegliarsi. Non sono prive di tramonti le nottinate insonni per assopirsi. Agli abiti bagnati consegnò la sua tristezza inzuppata. Tuttoil vestito assorbì la sua voglia d’inesistenza e accolse nelle fitte maglie deltessuto l’attimo giusto per farla tornare indietro. L’universo intimo di Lara urlò la voglia di esisterecondannandola ad errare nelle sue instabilità interiori. Una civetta sull’ultimoramo le ricordò l’ora. Ora doveva tornare indietro, volgere lo sguardo inun’altra direzione. Era arrivato il momento per riprendere i passi della vitacon intenti nuovi. Si tolse gli insignificanti abiti e nuda s’incamminò versole luci della città. Dai rami del salice amico il sussurro del vento le riportòla realtà del mondo che non l’aveva ancora sconfitta. Non si gira nudi nelnuovo millennio. Rivestiti spudorata!Due fiori scarlatti rimasero sul lago arespirare vita. Piccoli e profumati,morirono presto dentro lo scritto rimasto. ELara li guardò passare. A lei piaceva pensare di poter credere. Poggiò il pennellodopo aver firmato il quadro. La donna impressa sulla tela camminava col sorrisodipinto sulle labbra. Un vero e proprio processo mentale si espanse dalmovimento continuo dell’idea. Nel colore nasceva e si sviluppava la costante ricerca diuna dinamica liberatoria. Nell’astrazione di Lara non c’era nessun errore.-
Id: 1397 Data: 29/02/2012 08:08:49
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Kafka alla finestra
Prusak usciva dall’appartamento, alla solita ora, in una grigia mattina di una Palermo tardo autunnale. Guardava compiaciuto le sue scarpe lucidissime e, nell’abbassare lo sguardo, si accorgeva di un piccolo insetto fermo sul pavimento. Si spostava di un passo per poterlo schiacciare più comodamente e ruotava con forza la punta del piede sul pavimento, in modo da essere certo del risultato. Si puliva la suola sullo zerbino e, soddisfatto, si avviava verso il portone del palazzo. In effetti, Prusak provava un sottile piacere nello schiacciare ogni insetto che gli capitava a tiro se poi quest’atto era accompagnato dallo scricchiolio della corazza oppure lasciava una piccola macchia di liquidi organici sulla superficie, allora ricavava una soddisfazione ancora più grande. Sin da bambino aveva questa passione. Ad esempio, gli piaceva strappare le ali alle mosche, cercando di non danneggiarle troppo durante l’operazione. Restava lì, fermo, a osservarle camminare; sovente le stuzzicava con una matita, facendole seguire un percorso che aveva in precedenza preparato. Oppure staccava alcune delle zampe di certi grossi ragni che scovava dopo faticose ricerche, divertendosi, poi, nel vedere la loro andatura sbilenca. Con un distratto cenno del capo rispondeva al saluto del vecchio portinaio e si tuffava in mezzo al caos della città. Per Prusak quella era una giornata come tante altre e, lungo la strada che lo avrebbe condotto in ufficio, ripensava a tutto quello che avrebbe dovuto fare durante la giornata. Lui programmava tutto, doveva in qualche modo tenere tutto sotto controllo. Oltre a una serie di telefonate di lavoro, doveva ricordarsi di passare in lavanderia a ritirare degli abiti. Per sicurezza estraeva il portafoglio dalla tasca dei pantaloni e cercava lo scontrino che gli avevano rilasciato. Sorrideva compiaciuto della propria memoria nel leggere sul biglietto “data di consegna: venerdì 27 novembre”. Mentre lo riponeva con cura al suo posto, scendeva dal marciapiede e iniziava ad attraversare la strada. Era questione di un attimo: un’auto che svoltava a destra non poteva evitarlo, nonostante procedesse lentamente. Si sentiva un tonfo sordo e Prusak si ritrovava qualche metro più in là, a terra. Restava per un istante stordito, poi provava a muovere le gambe e le braccia, proprio come gli insetti che schiacciava. Si rendeva conto che non c’era nulla di rotto, ma preferiva rimanere immobile. Quando si accorgeva di avere un po’ di persone attorno, iniziava a gemere, tenendo gli occhi semichiusi. Gemiti che aumentavano d’intensità quando vedeva farsi largo tra la gente una donna pallidissima che mormorava: "Non l’ho visto… è sceso all’improvviso dal marciapiede... qualcuno chiami un'ambulanza". A quelle parole Prusak si sollevava un po', si appoggiava ai gomiti e borbottava che non voleva assolutamente che chiamassero l’ambulanza. La gente che si era radunata, a quel punto, siccome non c’era più nulla da vedere, si disperdeva velocemente e, accanto all’uomo seduto ancora a terra, rimaneva solamente la donna che l’aveva investito. Questa continuava a fissarlo, quasi incredula di quanto era successo. "Non l’ho visto, Cristo, proprio non l’ho visto scendere dal marciapiede", ripeteva. "Ci mancherebbe che m’avesse visto e investito apposta! Ma si rende conto della fesseria che ha detto?!", la rimproverava acidamente, "E, ora, la smetta di piagnucolare e mi dia una mano ad alzarmi...". Una volta in piedi, la fissava severamente: "Grazie a lei sarei potuto morire, lo sa vero?!". La donna, ancora stordita dallo spavento, rimaneva silenziosa sotto il peso di quelle parole e abbassava lo sguardo. "Ora come la mettiamo? Capirà che in queste condizioni per un po' di tempo non potrò fare nessun tipo di sforzo. Sarà già un miracolo se riuscirò andare a lavorare…". In tutto quel tempo Prusak non aveva mai distolto gli occhi dalla donna. Al termine della sua analisi la classificava un essere insignificante, così come si poteva dedurre dal suo aspetto. Bassa, rotondetta, con capelli sottilissimi color castano che scendevano a incorniciare un volto che, a essere buoni, si poteva definire anonimo. Gli abiti che indossava erano informi, le scarpe, a tacco basso, neppure particolarmente lucide. "Allora che è... sta zitta?!". Prusak si stava intimamente divertendo davanti al silenzio imbarazzato con cui la donna lo ascoltava. Non aveva la minima intenzione di aiutarla, anzi, gli piaceva studiarne le reazioni, come il pallore innaturale del viso e il tremolio costante del labbro inferiore. Si augurava che non si mettesse a piangere, una manifestazione che lo irritava troppo. "Se vuole la posso aiutare, mi dica solo in che modo e all'uscita del lavoro, provvederò per quanto mi sarà possibile...". Finalmente la donna si decideva a parlare. L'aveva fatto usando un tono abbastanza basso e tenendo lo sguardo rivolto verso terra. Prusak era sorpreso, non aveva previsto una simile offerta. Aveva pensato che il suo divertimento sarebbe finito di lì a poco, invece quella donna gli dava la possibilità di prolungarlo ancora. Nella sua mente balenavano tutta una serie di faccende e di commissioni che avrebbe potuto affidarle. Con aria di sufficienza le dava il suo indirizzo e lo scontrino della lavanderia: "Sarei dovuto andare io, ma in queste condizioni, come può ben capire, sono impossibilitato". Aggiungeva che l'avrebbe aspettata verso le sei di quella sera e la congedava non senza aver preso nota delle sue generalità. Attendeva che la donna si fosse allontanata con l'auto per proseguire a passo spedito verso l'ufficio. Quello stupido incidente l'avrebbe fatto arrivare in ritardo, pensava, però, forse, ci avrebbe ricavato qualcosa. Alla sera accoglieva la donna mostrando un'aria sofferente. Si lasciava cadere pesantemente sulla poltrona lasciandola in piedi, vicino alla porta d'ingresso. "Come sta?" diceva la donna. "Sto malissimo" aggiungeva Prusak laconico, "come se fossi stato investito da un’auto...". La donna arrossiva violentemente. Consegnava il pacco con gli abiti ritirati in tintoria e diceva: "Mi dica cosa posso fare per lei. Vuole che telefoni al mio dottore?". "Ho già telefonato al mio e mi ha detto di evitare di fare qualsiasi sforzo almeno per un mese". "Sì, certo. Vedrà che con un po' di riposo starà meglio" diceva la donna, poggiando lo sguardo per terra. "Il fatto è che io di sabato sono abituato a fare le pulizie generali dell’appartamento...". La donna annuiva e si offriva di venire l'indomani. Prusak aveva fatto una scelta sin da quando era giovane: non si era mai pentito del fatto di non essersi mai sposato, sebbene gli pesassero i lavori domestici. Talvolta pagava una donna a ore, ma invariabilmente rimpiangeva i soldi spesi. Un po’ perché non amava spendere e un po’ perché non era mai soddisfatto dei lavori eseguiti. D’altronde, una volta che aveva provato a lamentarsi, come risposta ricevette: "Se non le vado bene ne cerchi un’altra". Cosa che aveva fatto, ma i risultati non erano cambiati. Certo, rifletteva, che il vivere solo aveva i suoi vantaggi, però ora che si avvicinava ai cinquant’anni, iniziava a intravedere i lati buoni che un matrimonio fatto in modo accorto gli avrebbe potuto procurare. Pensieri fatti seduto sulla rossa poltrona preferita mentre quella donna - Tecla, le aveva detto di chiamarsi - stava sfaccendando in cucina. La sera precedente aveva cucinato senza preoccuparsi, come solitamente faceva, di sporcare il minor numero possibile di pentole. Ora Tecla le stava lavando e lui non doveva neppure pagarla. Al terzo sabato, Prusak decideva che valeva la pena rischiare. Si chiedeva quanto Tecla avrebbe resistito con quell'aria timida e remissiva che tanto gli piaceva. Le proponeva di andare a vivere da lui e aggiungeva: "Mi farà piacere, non ho mai trovato nessuno che sapesse fare le faccende domestiche così bene come lei". Di certo la donna non era affascinante, ma Prusak aveva ormai imparato che nella vita non si poteva avere tutto. Bisognava saper fare delle scelte e lui aveva deciso di farla in modo consapevole. Anche Tecla, dopo qualche esitazione, accettava, pensando che meglio di così non le sarebbe andata. Avrebbero iniziato a breve il loro percorso insieme, che si annunciava tranquillo e regolare, come Prusak desiderava. Tecla si trasferiva la domenica successiva. Si era presa qualche giorno di tempo per sistemare tutto e, con l’aiuto del fratello, portava poche valigie e i suoi abiti. Prusak la accoglieva con un sorriso, poi osservava attentamente i pochi effetti personali di lei: le dava l’impressione che si fosse sistemata senza intoppi e le chiedeva di preparare una cena semplice. Non amava mangiare troppo la sera, gli piaceva stare leggero, specialmente da quando il medico gli aveva prescritto una dieta a causa del diabete. Passavano i giorni, l’uomo notava con soddisfazione che Tecla non gli dava nessun tipo di problema. Anzi, aveva preso le redini della casa con estrema attenzione e lui, per la prima volta dopo tanto tempo, si sentiva veramente libero da ogni impegno domestico. Finché una mattina, mentre si stava preparando per andare in ufficio, notava che una delle sue scarpe, lasciate sempre nella stessa posizione la sera precedente, non era lucida come avrebbe dovuto essere. Chiamava Tecla e le chiedeva spiegazioni. Lei, con voce calma, gli diceva che non aveva avuto tempo di fare tutto. "Non sarà più così" aggiungeva, "prometto". Ma Prusak non si accontentava di quella risposta. Per lui, quella era una mancanza grave, perché una delle sue regole principali era che le scarpe dovevano essere sempre impeccabili. Il giorno seguente accadeva qualcosa di simile e Prusak, alla terza volta, perdeva la pazienza. Le sue reazioni diventavano più dure e, con il passare del tempo, scopriva che Tecla aveva anche altre mancanze. Spesso lo interpellava per ogni minimo problema, cosa che lui trovava insopportabile. Si domandava, sempre più di frequente, se non avesse fatto un errore nel farla venire a vivere con lui. Ma ormai aveva preso la sua decisione e non voleva tornare indietro. Tecla, dal canto suo, percepiva che Prusak stava cambiando. Si faceva più scontroso e meno paziente. Cercava di non contraddirlo, ma non sempre ci riusciva. I litigi diventavano frequenti e, ogni volta, Tecla si ritrovava a piangere in silenzio, chiusa in bagno. Non si aspettava di certo che tutto sarebbe stato facile, ma si era illusa che la convivenza sarebbe stata più serena. Passava un anno e Prusak si rendeva conto che la situazione era insostenibile. Decidere di rompere con Tecla gli sembrava la scelta migliore, anche se si rendeva conto che sarebbe tornato a doversi occupare di tutto. Ma preferiva quello piuttosto che continuare a vivere con qualcuno che non riusciva più a sopportare. Le diceva chiaramente che doveva andarsene, e che si sarebbe occupato di cercare una sistemazione per lei. Così un giorno qualsiasi, in un momento qualsiasi, la spinse fuori dalla finestra senza dire una parola. La guardò volare via, come un insetto impazzito. Poi scese giù per strada e le calpestò testa per assicurarsi che fosse proprio finita. Nessuno ha visto nulla. - 25.02.2012 -
Id: 1390 Data: 25/02/2012 20:32:33
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Sophie
Sophie è tornata a casa ed io sono nuovamente felice. Qualcuno ha detto: “..accade molto raramente che una felicità vada a posarsi proprio sul desiderio dal quale è stata invocata..” Ma stavolta è stato così. Ogni nostra felicità è rapportata ai nostri desideri, a quello che abbiamo perso, o a quello che non abbiamo mai posseduto, cose per noi immense per altri sono nullità. Sophie per me è quasi tutto. Ci siamo incontrati a Vulcano, circa un anno fa. Non è stato amore a prima vista, o meglio, per essere sinceri lo è stato solo per me. Giovane, indifesa, ma allo stesso tempo così aggressiva e determinata ad ottenere sempre il meglio per sè stessa. Soprattutto a difendere la propria libertà. Non è stato facile, ho dovuto lottare per farmi almeno accettare. Era così diffidente e spaventata, la lotta pressocchè quotidiana per la vita, l’aveva resa, pur così giovane, diffidente e dura con gli sconosciuti, abituata a contare solo su sè stessa, ogni minima tenerezza rifuggita come un possibile pericolo. Sono un uomo solo, e chissà, forse lei è arrivata al momento giusto, o forse sono stati i profumi ed i colori di quell’estate ad indurmi a credere che la sua presenza mi fosse oramai indispensabile. Decise, sebbene un po’ riluttante, di partire con me solo poche ore prima che il traghetto salpasse dall’isola. A poppa, con lo sguardo volto al litorale che si allontanava, respirava forte nel vento, come per fare scorta di quegli odori conosciuti e amati che lasciava dietro sè. Ero sicuro che la nuova tranquillità e le cure e le attenzioni di cui la circondavo avrebbero ammorbidito la sua spigolosità e che presto avrebbe ricambiato il mio amore con più entusiasmo, insomma che finalmente l’avrei vista felice. I mesi passavano e Sophie continuava ad accettare la mia presenza ed i miei doni con un misto di degnazione e rassegnazione, e nei suoi grandi occhi scuri leggevo troppe domande inespresse. Capivo che quel cambiamento così radicale doveva averla disorientata e mi decisi ad un altro passo. Traslocammo così dal centro città ad una villetta fuori Palermo, con un piccolo giardino. Mi illudevo che questo surrogato l’aiutasse a ritrovare un po’ di allegria. Ridicolo vero, pensare di farle barattare la spiaggia avvolta dal profumo di sandalo ed i sentieri silenziosi che ogni giorno percorreva libera e solitaria, con un quadrato di terra quasi incolta ! Usciva alla mattina e non tornava a casa per ore, a volte fino a sera inoltrata. Ogni tanto mi raccontavano di averla incontrata, sola, che vagabondava nei campi. Marciava spedita, persa in qualche vago ricordo o desiderio. Cercavo di non intromettermi, la lasciavo fare, sapevo fin troppo bene quanto bisogno avesse della sua libertà. Poi una sera non è tornata. Ho già parlato della mia vita precedente, della solitudine, come posso ora spiegare il senso di vuoto improvviso e profondo ! Così poco tempo era rimasta con me e così profondamente la casa sapeva di lei, il cuscino del divano ove era solita rannicchiarsi aveva ancora l’impronta del suo corpo e non avevo il coraggio di rassettarlo....guardavo e riguardavo una delle pochissime fotografie che ci ritraeva insieme e solo adesso notavo che il suo sguardo era stranamente fisso su di me, come se si sforzasse di comprendere e di imparare a conoscere qualcosa più grande di lei. ....Sophie è tornata stamattina, dopo tre giorni. Ero seduto sui gradini davanti a casa, dopo una notte praticamente insonne. E’ arrivata ansimante, come dopo una lunga corsa, e incredibilmente mi è sembrato di vedere i suoi occhi allegri e ridenti, forse sarà un’illusione, ma credo di esserle mancato. Si è seduta vicino a me, ha posato il muso sulle mie ginocchia e finalmente dopo tanti mesi si è lasciata abbracciare ed accarezzare, mentre la coda scandiva con lunghe pennellate la serenità e la gioia. Per la prima volta ho sentito la sua fiducia, il suo abbandono nell’affetto e la consapevolezza di aver bisogno di me, come io ne ho di lei. E sono certo che da ora in poi, l’amore che mi darà sarà per sempre. Palermo, li 28 luglio 2001
Id: 1389 Data: 25/02/2012 20:24:23
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Nello stesso pozzo
NELLO STESSO POZZO Il nodoso bastone gli cadde ancora una vota dalle mani. Come sempre! E Giuggiù rovinò per terra. Giuggiù stavolta non bestemmiò, non imprecò contro nessuno dei familiari, ne tanto meno questi vennero a raccoglierlo poiché quel giorno nessuno lo sentì. Restò immobile, seduto ai bordi del letto, sempre devastato dal suo copro e lo sguardo fisso su quell’arnese di legno – l’amico inseparabile - dice lui. Ricordo che gli venne regalato da Giulio, amico d’infanzia: << Giuggiù questo è meglio di un cane da guardia credimi >>, disse Giulio quando venne a trovarlo, tienilo sempre con te…>>. Giuggiù quel giorno se ne stava tutto ripiegato su una sedia a rotelle regalatagli da Biagio Conte, missionario della città. Stava assicurato su quell’arnese da cuscini che gli cerchiavano i fianchi, appena ciondolante in avanti e gli occhi cerulei sempre lucidi. Alzò appena la testa e lo sguardo si posò sugli occhi dell’amico farfugliando parole sconnesse; quasi un groviglio in gola, ma si intuiva che era un grazie a quel gesto e poi disse: << io la conosco? >>. quasi un groviglio in gola, ma si intuiva che era un grazie a quel gesto e poi disse: << io la conosco? >> . Quel bastone nodoso… a volte Giuggiù lo vedeva volteggiare, da solo, in mezzo alla stanza. Si allontanava prendendo forma propria, conquistando quasi una vita sua. Lui se ne infischiava che Giuggiù stava in bilico tra la poltrona e il baratro della mente, lui stava lì, felice di quella condizione ritrovata, di essere libero di poter fare quello che voleva; finalmente aveva acquisito il “ libero arbitrio “ e tanto si sentiva vivo più s’impossessava della sua energia smarrita. Un gioco crudele, quello suo. Ogni tentativo da parte di Giuggiù di afferrarlo andava a vuoto. Del resto come poteva; se provava a fare un passo in avanti sicuramente sarebbe caduto brutalmente per terra e quel giorno a casa non c’era anima viva che potesse accorrere alle sue urla, al suo farfugliare parole malferme, ai suoi lamenti che sicuramente alla fine sarebbero sfociate in un pianto a dirotto. Giuggiù iniziò ad inveire contro “quell’amico traditore”, ma non conosceva il suo nome, non sapeva come chiamarlo, del resto non lo aveva mai fatto; era solo un amico come ne aveva avuti tanti. Lui, il bastone, ad un tratto smise di oscillare nel vuoto dicendo: << adesso arrivo bestia ! non ti sopporto più! Lasciami in pace! >> . Giuggiù con furia afferrò il bastone, lo strinse forte al suo petto e pianse… ma di un pianto convulso. L’unica cosa a cui teneva veramente era solo quel maledetto bastone. La sua mente non partoriva solo che pagine bianche, ma in un lato oscuro, nascosto, dove nessuno poteva arrivare, c’era quel bastone: il padre, il figlio, la moglie, gli amici, tutta una vita, tutto ciò che gli rimaneva ancora di umano. Il bastone a terra e Giuggiù sempre con lo sguardo perso nel vuoto. Il figlio entrò nella stanza e l’odore penetrante delle medicine lo investì come la morte che giunge all’improvviso. Giuggiù non si accorse della presenza di Marcello né dei suoi occhi che lo fissavano; stava lì con la testa traballante e il braccio sinistro teso verso quel bastone, immobile, quasi senza respiro e con una piccola smorfia sul labbro violaceo. Il tempo s’era fermato in quell’istante di eterna attesa, ma quante volte il tempo era giunto al capolinea per Giuggiù?! Ogni giorno era un morire e un rinascere, ogni giorno in quella stanza di morte si corrodeva una vita che era stata, ogni giorno l’Alzheimer gli rubava la mente. Che angoscia c’era in quello sguardo, quanta inquietudine, quanta disperazione per quel genitore che qualche anno prima era stata un’altra persona, adesso era solo uno sconosciuto. Giuggiù Giulio affettuosamente lo chiamava così, anche se il suo vero nome era Franco. Giulio gli diede questo vezzo quand’erano giovani, quando vivevano a Licata, quando correvano ai rifugi per difendersi dalle bombe, quando la notte non si dormiva e ti svegliavi con il cuore in gola sperando che la tua casa quel giorno non sarebbe caduta sotto i bombardamenti, quando si moriva di fame, quando gli alleati davano corso all’operazione Husky per liberare il paese dalla “ follia “ di quella Germania. Giuggiù ricordava sempre quel periodo infausto… nei minimi particolari, persino l’ora esatta di qualche avvenimento e si vantava del fatto che la sua famiglia nonostante tutto non versava in una situazione così disperata. Il padre, Giuseppe, era Procuratore Capo all’ufficio del registro di Licata; studi in medicina non completati, padre e marito amorevole e se vogliamo anche presente, insomma un “buon partito” come si diceva a quei tempi. La madre, Angela, un portamento da nobildonna d’inizio secolo con addosso sempre una collana di madreperla qualunque sia il vestito che indossava. Angela badava alla casa ove non mancava mai il pane e l’olio e Giuggiù a quel tempo aveva solo quindici anni. Alcune foto in bianco e nero lo ritraggono in costume da bagno sulla spiaggia di Licata assieme all’amico del cuore. Corre contento, l’amico dietro, il mare davanti… sembra quasi che inciampi su qualcosa. Chissà com’era il mare a quei tempi…chissà se Giuggiù si è più rivisto in quella foto, in quel mare, su quelle dune bianche ancora poco inquinate, chissà cosa avrebbe detto oggi se solo guardando la sua immagine… se solo si riconoscesse. Un’altra ancora lo ritrae sempre nella stessa spiaggia con in mano una cesta di ricci << io andavo a pescare ricci senza usare la maschera! >>, diceva orgoglioso al figlio quando questi si mise in testa di praticare la pesca in apnea, << stavo sott’acqua per parecchio tempo senza respirare… >>. Poi la guerra finalmente finì e Giuggiù stava ancora a Licata con Giulio e venne anche il periodo del latifondo… la conquista di un pezzetto di terra… ma Giuggiù non aveva bisogno certo di lottare in mezzo ai contadini con al collo un fazzoletto rosso, il padre non gli faceva mancare nulla a quell’unico figlio; Giuggiù non moriva di fame. Ma quei fazzoletti rossi indossati dai contadini lo affascinavano, lo incuriosivano a tal punto che se ne fece una ragione. La visone profetica di Marx, che aveva annunciato ai lavoratori la loro missione nella società lo coinvolse interamente. Giuggiù conservava sempre nel portafogli una foto che lo ritraeva ancora molto giovane davanti la porta d’ingresso della sezione del Partito Comunista di Licata con il pugno della mano destra chiuso e rivolto verso il cielo. Così fu che Giuggiù abbracciò la fede comunista così come si abbraccia una madre dopo avere pianto. La lotta con il bastone Giuggiù finalmente s’impadronì del bastone. Con uno scatto tese il braccio avanti e afferrò quell’arnese. Si sentiva vittorioso, aveva raggiunto il suo scopo, aveva vinto la sua personale battaglia. Era tutta la sua vita quel bastone. Da tempo non riusciva più a reggersi sulle sue gambe; non stava più dritto, non camminava, ma quel bastone dovev stare sempre al suo fianco: << il mio amico… dov’è il mio amico? Datemi il mio amico, fatelo venire qui… ho bisogno di lui, mi sento solo…>>. Ma Giuggiù cadde per terra, come sempre. Teneva il bastone stretto nella mano e le gambe che si muovevano come se stesse camminando, lì, per terra, accanto al letto disfatto, disteso su di un fianco e le gambe che si divincolavano, si mischiavano tra loro tracciando dei passi nel vuoto, << Papà! Papà! Dove sei? Papà aiutami, aiutatemiiii…>>, era il suo incedere giornaliero quando si sentiva in difficoltà, quando si sentiva solo, quando non comprendeva perché il mondo gli franava addosso. Quanti ricordi nella testa del figlio che in quel momento stava dritto davanti la porta a guardare quello che era diventato suo padre, stava lì impotente al disfacimento di quell’anima. La Stanza di Giuggiù La stanza di Giuggiù era molto grande. I raggi del sole di quella primavera penetravano dalle finestre lasciando una cometa di luce che arrivava dritta dritta sopra il letto, incuneandosi sin dentro il cervello di Giuggiù che, svegliatosi di scatto, si girava verso la colonna di luce con gli occhi sgranati, spaventato per quello che stava accadendo. Giuggiù parlava con la luce che con violenza gli trapassava l’anima; penetrava dentro il suo mondo come un falco in picchiata verso la sua preda. Giuggù gli chiedeva delle cose… delle cose sue e nessuno al mondo avrebbe mai potuto ascoltare quel dialogo, solo lui e la luce. Giuggiù mormorava qualcosa guardando quel fascio di luce e agitando le mani in aria disegnava delle cose, delle linee immaginarie, dei movimenti lenti e allo stesso tempo frenetici, adesso una presa, adesso un abbraccio, adesso un cacciare via, adesso un abbandonarsi a se stesso. Giuggiù veniva ingoiato letteralmente da quella nuvola bianca trasportato in un binario che stride, su un treno veloce, verso un orizzonte senza confini, prima che l’ultimo sussulto lo avvolga e non lo riporti più a casa. Un divano tre posti era posizionato accanto al letto in modo che Giuggiù, sempre con l’aiuto di qualcuno, si potesse riposare stando seduto e di fronte una mensola fatta fare apposta dal figlio, conteneva tutte le medicine che ogni giorno prendeva: aceticolina, noradrenalina, donepezil, memantina, etc. Medicine inutili, l'alzheimer è una malattia incurabile, un processo degenerativo che distrugge progressivamente le cellule celebrali rendendo a poco a poco l'individuo che ne è affetto incapace di svolgere una vita normale. Maledetta “ Beta-amiloide “! Marcello, unico figlio maschio, lo accolse nella sua casa dopo una breve parentesi in una casa di riposo della città. Marcello era sposato già da un paio di anni e aveva tre maschi e un quarto in arrivo. La sua vita sino a quel momento scorreva abbastanza normale; una classica famiglia italiana del sud. La casa, il lavoro, le bollette, l'affitto, la scuola, le comunioni... Giuggiù una sera di primavera decise di convocare il figlio a casa prorpia per dirgli che era sicuro di finire i suoi giorni in una casa di riposo. Aveva riflettuto molto su quella decisione, era stanco di quella casa enorme piena di spazi vuoti da riempire e la sua memoria non glielo consentiva più. << vedo mamma sai?! - diceva al figlio – ma dov'è? Ma che stai dicendo? - rispondeva infastidito il figlio – che stai dicendo? La mamma è morta da molti anni! Cosa vedi? Ma si impazzito?! >>. la mente di Giuggiù produceva veramente l'immagine della moglie deceduta molti anni prima per una di quelle solite malattie. La vedeva quando tentava di leggere l'ennesimo libro accucciato sulla sua poltrona, quando la settimana enigmistica gli cadeva dalle mani e lui chiudeva gli occhi ma non dormiva, la vedeva quando rispondeva al telefono ma dall'altra parte non c'era nessuno, quando fuori non riusciva a trovare la strada per rientrare a casa, quando pioveva e si sedeva in balcone su una piccola sedia e guardava giù dal sesto piano e pensava di farla finita. La degenza in quella struttura durò solo un mese. A quel tempo Giuggiù sapeva ancora chi era, cosa era stato, gli ingorghi della memoria erano ancora sporadiche e si rendeva conto che quella sua decisione di andare in quella casa era sbagliata sin dall'inizio. Le giornate passavano molto lente e le aspettative iniziali fornitegli dalla direttrice di quella struttura per anziani erano svanite nel nulla. Pensava di trascorrere le sue giornate all'insegna dello svago, del divertimento e qualche volta anche poter ballare. Giuggiù adorava ballare e chi balla non muore mai, diceva sempre lui. Giuggiù ignorava completamente cos’era una casa di riposo per anziani, non aveva mai pensato a questa cosa, pensava che gli anziani fossero i padroni della storia, la storia della nostra vita, e per tali motivi dovevano essere rispettati e venerati ma non poteva immaginare la sofferenza umana che vi alloggia. Occupava le sue giornate a passeggiare lungo il corridoio e l’atrio che guardava l’ingresso della struttura ove passava intere ore seduto a guardare fuori nella speranza che qualcuno lo venisse a riprendere, lo portasse via da quella prigione. Ogni giorno Marcello lo andava a trovare, una volta di mattina, un’altra di pomeriggio e lo trovava sempre lì, seduto su una panchina rovinata dal tempo ove tante storie di vecchi avevano contribuito a deformare. Giuggiù guardava fuori e i suoi occhi cerulei si illuminavano quando riconosceva l’auto del figlio: << finalmente mio figlio, speriamo che adesso mi faccia uscire, che mi porti via…>>, diceva ad un “ compagno di prigionia”. Ma era solo “ il colloquio” giornaliero, tanto per rimanere in tema di restrizione. Marcello stava con lui e gli altri vecchietti seduto in quell’atrio a condividere quella senilità deformata e pensava che se un giorno la sua vita dovesse prendere quella piega, forse era meglio morire prima, ma loro, i vecchietti non lo sapevano; essi vivevano quella condizione senza rendersene conto, era giusto così, quella era oramai la loro vita, il loro destino, dovevano solo aspettare l’epilogo finale. Era un via vai di corpi che si trascinavano lentamente, con gli occhi sgranati e malinconici e pantaloni e gonne intrise di piscio, sagome che si spingevano a fatica verso quel corridoio che dava fuori, in direzione della luce mattutina, verso un respiro di vita. Vacillavano abbandonati col respiro pesante, alcuni mormoravano qualcosa di indefinito, altri parlavano tra loro ma non si capivano. Sembrava che tutto il peso del mondo fosse su quelle gracili spalle, confusi ed esiliati, con la testa piegata su un lato e forse anche digiuni d’amore. Giuggiù un giorno volle andare via. Pensò che stare ancora lì dentro avrebbe fatto peggiorare le cose. Non stava bene in mezzo a quei vecchi malati di malinconia e propose al figlio di andare ad abitare con lui: << non do fastidio, mi metto in un angolo della casa, mi prepari un letto… non do fastidio e poi io mangio anche poco…>> disse Giuggiù mente stava seduto sul bordo del letto con gli occhi lucidi, << non posso papà come stai a casa mia e poi Leti aspetta un altro figlio, come faccio a pensare a te?...>>, rispose Marcello. Giuggiù accennò ad un pianto, un pianto muto e con le mani agitate cercava un fazzoletto nella tasca dei pantaloni che non trovava e a Marcello venne un nodo alla gola e asciugò con le sue mani quella tristezza dal volto del padre dicendo: << va bene papà, dammi il tempo di organizzarmi e tra una settimana ti porto via da quest’inferno…>>. In un attimo padre e figlio si erano ritrovati, in quell’istante tutta la loro vita scivolava leggera nelle loro memorie, tutti i vuoti di un passato venivano riempiti da parole mai pronunciate, in quel preciso momento Marcello decise di prendersi cura del padre. Giuggiù e la pioggia Il cielo nero si impossessava delle finestre di quella grande camera, cumuli di nubi che sembravano in preghiera e Giuggiù trascorreva l’intera giornata in quella grande stanza, solo qualche intervallo per pranzo o per cena, ma il suo mondo era tutto lì, racchiuso in quelle quattro mura. Giuggiù amava la pioggia, quasi le rassomigliava, cadeva giù stremata come un’ultima disperazione dal cielo. Il suo ticchettare a volte lieve altre violento sul vetrocamera lo conquistava, lo rapiva, il suo umore lunatico si trasformava in contentezza, il tintinnio sui tetti delle macchine, sugli ombrelli, qualche moto che scivola, un uomo che si bagna completamente prima di salire in auto, queste immagini di vita lo rallegravano. Alle volte stava incollato alla finestra per delle ore, senza mai dire una parola, si isolava completamente e sprofondava in quel mondo bagnato intriso di odori di terra fresca e lacrime di cielo. Giuggiù stava con la faccia incollata sul vetro ad osservare la pioggia che colpiva il davanzale formando dei rigagnoli sul vetro che cadevano giù e lui, col capo piegato li seguiva sino al suo scomparire. Forse Giuggiù parlava con la pioggia o forse pensava che era l’unica cosa sua che ancora non era tramontata nella sua testa, forse qualche bagliore sui pochi neuroni rimasti lo riportavano indietro nel tempo quando la mattina intorno alle sei usciva di casa per andare a lavorare. Giuggiù stava almeno un’ora davanti lo specchio, la toilette era quasi un rito, una cerimonia a cui non poteva rinunciare, la divisa scura sempre in ordine e quei pantaloni che non avevano mai pace, un po’ su, un po’ giù, era la sua ossessione, pensava di avere la pancia, come lo era stato anni prima, ma non era così, era il suo chiodo fisso! Poi magari, per strada, mentre aspettava di prendere il tram, pioveva, e allora tutta quella preparazione mattutina da vecchia diva andava a farsi benedire ma a lui andava bene anche così. Marcello entrò nella stanza del padre. Era l’ora del pranzo. Il figlio decise di non affidare le cure del padre a nessuno, non cercò nessuna badante come gli era stato consigliato, si mise in ferie e stabilì che doveva essere lui l’infermiere, il padre, il figlio, la moglie e quant’altro poteva essere, come nella migliore novella Pirandellina, Marcello assunse le fattezze del caso. La pastina in bianco con poco olio e poco sale ma tanto formaggio – era goloso di formaggio – fumava in quel piatto concavo e a Marcello, maldestro com’era, ne cadde un po’ sul polso della mano sinistra: << cazzo com’è calda! >> esclamò Marcello. Ma l’odore era troppo forte, l’esalazione di quel grana gli riempiva le narici, non riuscì a resistere alla tentazione di leccarsi il polso… e lo fece, compì quel gesto quasi di nascosto, in modo furtivo e mentre assaporava il gusto di quella fragranza si accorse che gli occhi del padre lo guardavano, aveva lo sguardo indagatore come dire: << ma che fai? E a me?! >>. Marcello guardando il padre sorrise mentre una linguina gli colava da un lato della bocca e Giuggiù, anche lui, accennò ad un sorriso, la bocca un po’ di lato, non aveva la dentiera, ormai non la portava più, ma capì quel gesto e con la mano sinistra toccò il braccio del figlio girandosi da un lato come per nascondere quell’attimo di beatitudine. Forse in quel momento Giuggiù capì che quella figura che gli stava accanto con il piatto fumante era suo figlio e Marcello capì che suo padre lo riconobbe anche se solo per un istante. Quel giorno l'ambulanza Quel giorno venne l’ambulanza. A sirene spiegate si fece strada tra il marasma di macchine per quelle vie di prima mattina ove le auto sembravano persone in fila da ore in un ufficio postale, a pagare l’ultima bolletta della loro vita. Giunse in pochi minuti al nosocomio della città e Marcello che seguì il padre a bordo della sua moto giunse come un fulmine all’interno di quella sala piena di pietà e freddezza d’animo. Era un continuo vociare, un incessante vai e vieni di camici bianchi e barelle, una costante richiesta d’aiuto… un non fare o semplicemente aspettare… << papà stai tranquillo adesso ci chiamano…>> disse Marcello, una bugia per rassicurare il padre che da un’ora stava disteso in quella pessima lettiga. Ma il cognome risuonò in quella sala solo dopo parecchie ore. Giuggù non era un codice rosso ne un codice giallo, Giuggiù non aveva codici era solo un malato di Alzheimer e per tanto non era un caso urgente. Il neurologo che l’aveva in cura un giorno molto triste gli disse: << non dia più medicine a suo padre, denaro inutile, ormai si trova in una fase avanzata, lasci perdere…>>. Ma Marcello non buttò mai le medicine, li teneva tutti in fila sul mobile di fronte al letto; chissà poi per quale motivo. Li rassettava ogni giorno anche se non ce n’era bisogno, un ordine maniacale che non era nella sua natura; le medicine da un lato, i guanti di lattice da un’altra, l’alcol da un’altra parte, i pannoloni nello scaffale a sinistra, i pigiami a destra, la sacca raccogli urine sempre a vista e sempre sotto controllo, ogni giorno sempre la stessa cosa, sempre lo stesso ossessivo controllo che tutto fosse sempre in ordine. Ma Marcello da troppo tempo non dormiva più. Il sonno notturno era fatto a tappe, ad intervalli, ed ogni volta sempre la stessa voce a destarlo di soprassalto: << papà! Papà! Dove sei?...>>. Giuggiù peggiorava di giorno in giorno e il crepuscolo di ogni giornata era come un tunnel che era costretto a dover percorrere, ogni giorno, sempre lo stesso! Quando scendeva la sera e Giuggiù digeriva la sua poca cena – ormai mangiava così poco – si addormentava, alle volte anche sulla sedia, lì, a capo tavola, perché per Marcello quello era sempre suo padre anche se non lo riconosceva più, era sempre suo padre anche in quel dolore che di giorno in giorno si faceva sempre più grande, sempre più insopportabile. Marcello non possedeva matite colorate, non poteva ridisegnare la figura di quel padre, tra loro c’era solo un gran silenzio fatto solo di urla. Marcello al nosocomio chiese l’intervento di un psichiatra, dopo che i medici gli avevano detto che il padre non aveva nulla, era solo una crisi causata dalla malattia, e per tanto poteva andare a casa con i suoi piedi, ma Giuggiù non camminava più. Marcello era sfinito, la sua famiglia era abbastanza provata, voleva solo un po’ di tempo per riordinare la sua vita e quella dei suoi familiari, avere ancora un paio di giorni di normalità, chiedeva solo un ricovero di un paio di giorni. Il medico, lo psichiatra diede un diniego totale a tale richiesta. Giuggiù quel giorno ebbe sete << voglio un po’ d’acqua fresca… fresca…>> imprecava Giuggiù dal suo letto alle sette di mattina. Marcello il giorno prima decise di ritornare al lavoro, erano mesi ormai che non andava più. Chiese un lungo periodo di ferie e giorni festivi da recuperare. Gli mancava il contatto con l’esterno, con la quotidianità, aveva sete del suo lavoro. Quel giorno pensò di amare più di ogni altra cosa il suo lavoro, una porta verso la luce, un ritorno alla vita. Giuggiù quel giorno aveva una strana sete, gridava che voleva bere, così Marcello, che quel giorno doveva andare al lavoro nel pomeriggio, gli portò un bicchiere colmo di acqua fresca: << tieni papà ma bevi piano non ti ingozzare >> disse il figlio. Marcello infilò la mano destra sotto la nuca del padre sollevando quella piccola testa bianca all’altezza del bicchiere e Giuggiù bevve tutto d’un fiato, senza smettere un attimo. Quando finì fece un lungo sospiro e disse semplicemente: << grazie >>. Era strano quel giorno Giuggiù. Seguiva il figlio che si aggirava in quella stanza a rimettere tutte le cose del padre al loro posto, la moglie in cucina stava allattando l’ultimo arrivato e gli altri figli scorazzavano da una stanza all’altra. Marcello guardava il padre mentre questi stava con gli occhi socchiusi, ma non dormiva come faceva di solito, anche lui lo guardava, così, con gli occhi abbassati come se spiasse il figlio o come se volesse tenere con se quelle ultime immagini. L’ora del pranzo era giunta e Marcello come faceva da mesi, si presentò con il piatto di minestrina al pomodoro che a Giuggiù piaceva molto. Sollevò il padre dalla schiena mettendo dietro diversi cuscini, mise attorno alla gola un lungo bavaglio e sedendosi sul bracciolo del letto inziò quel rito che durava ormai da troppi mesi: << dai papà apri la bocca che non è molto calda… senti che profumo…>>, Marcello gli diceva sempre le stesse cose, ogni giorno e Giuggiù a forza apriva la bocca e obbediva. Ma Giuggiù quel giorno non volle mangiare, a mala pena mandò giù un cucchiaio di pastina, poi disse: << basta … non ne voglio più…>>. Marcello pregò il padre di continuare a mangiare: << ma che fai? Non hai più fame? - disse Marcello - dai apri la bocca, devi mangiare in qualche modo!non puoi stare digiuno...>>. Marcello non capì cosa stava succedendo in quel momento, in quel preciso istante, a quell’ora… erano le 13.25 circa di quel 14 giugno di un anno qualsiasi, in una stanza qualsiasi, in un mondo qualsiasi. Un brivido scosse la schiena di Marcello quando vide il padre chiudere la bocca e girarsi di scatto verso il figlio e gli occhi cerulei come cristalli pieni di parole mai dette che lo fissavano, e in un attimo nella mente di Marcello iniziarono a scorrere immagini di una vita, di treni di primo mattino, di occhi incantati, di nubi, di strade di amori e di odi, di vite che si spezzano e di sogni che svaniscono. Ad un tratto una folata di vento freddo invase la stanza anche se fuori un sole quasi estivo penetrava a forza tra le tende scostate, una luce che si incuneava dentro a quel letto di morte e Marcello che fissava il padre, quel padre che non urlava più, quel padre che non riconosceva il figlio, quel padre che aveva sconvolto gli ultimi mesi della sua esistenza e forse l’intera sua vita. Il buio improvvisamente avvolse Marcello e si trovò la moglie stretta al suo corpo: << Marcello hai fatto tutto quello che potevi… sei stato accanto a tuo padre nel momento migliore…>> diceva la moglie cercando di consolare il marito. Ma Marcello in quel momento si sentì come svuotato dentro come se avesse perso l’anima come se un ghiaccio perforò il suo cuore e pianse. Pianse accanto la finestra di quella stanza dando le spalle al padre in assoluta solitudine. Pianse guardando la strada, le auto che passavano, pianse guardando il cielo azzurro, pianse davanti a quel sole di inizio estate, pianse sul quel profumo intenso di ginepri, pianse senza respiro. A volte mi vedo sulla spiaggia, a mezzanotte o giù di lì, e non c’è nessuno, neanche la luna a farmi compagnia, solo il frastuono del mare. A volte mi sembra di vedere delle forme buie e umane che sdraiate sulla sabbia scrivono parole a me incomprensibili; vorrei che giungessero a loro che adesso non sono più, vorrei che sentissero il mio dolore, vorrei che rispondessero al richiamo della mia coscienza, vorrei che un giorno un fugace arcobaleno scavi tra i miei ricordi incustoditi…
Id: 1388 Data: 24/02/2012 13:28:55
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