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La bagnarola (*)

di Salvatore Violante
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Pubblicato il 16/02/2010 22:05:49




L’orologio aveva da poco suonato le diciassette quando giunsi all’altezza del vicolo di casa mia. –Speriamo che oggi non le busco- pensai tra me. Tale era la quotidiana consuetudine di prenderle da mia madre. Aveva sempre una buona ragione per suonarmele e non faceva finta per niente, la benedetta! Io le pativo rassegnato, come si fa con il sole e la pioggia. Mi arrivavano addosso senza che potessi prevederle od evitarle. Quante volte ho sanguinato dal naso? Non stavo più a ricordarmene, anche perché quel sanguinare veniva giustificato come una mia debolezza intrinseca e non come effetto delle botte educative.
Mi trovai così a pensarci, senza paura alcuna, rimettendomi, rassegnato, al caso.
Giunto che fui, trovai tutto tranquillo: mia madre mi guardò severa ma continuò ad impegnarsi sul suo telaio da ricamo. Io feci finta di mettermi a studiare: presi il libro di letture, lo pesai, lo sfogliai fermandomi a qualche figura, lo rivoltai, ma alla fine, fui preso da una nausea da chiuso.
Non riuscivo proprio, a starmene seduto. Immediatamente ero preso dal prurito. Anche in quell’occasione non potei evitare di portarmi fuori in cortile. Senz’altro da fare, mi misi a tormentare le galline nel pollaio prendendole di mira con la mia fionda. Ad ogni grido di gallina colpita sentivo mia madre che senza alzare lo sguardo dal telaio mi urlava: -Lasciale stare, Salvatò che le prendi- Io, come preso da raptus non riuscivo a smettere ed allora, la poveretta, per evitare di suonarmele mi fa: -Salvatò và dalla comare “Papela”. Fatti ridare la “bagnarola” che le ho prestato la settimana passata, perché ho da fare il bucato-. La “bagnarola” era un recipiente di zinco simile, per la forma, ad una moderna vasca da bagno che, all’epoca, veniva usata per svariati motivi, specialmente per l’igiene personale e per il bucato, ma anche per qualsiasi altra attività domestica ove fosse necessaria una discreta quantità di acqua. -Vado mà - risposi prontamente, liberandomi così dal mio impegno sadico che, non era cattiveria ma desiderio di acquietare quelle formiche che camminavano sotto pelle ogni qualvolta ero condannato all’inattività.

Effettivamente mi avviai di buon passo, e procedendo attraverso lo stretto vicolo di casa mia, mi trovai fuori, nel cortile di comare “Papela”.
Questa, era una vecchietta bassina, rinsecchita, col viso simile ad una prugna prosciugata dal sole e con la pelle attaccata alle ossa che ne seguiva tutte le sfumature, sollevandosi solo, per il leggero, bluastro rigonfiamento delle vene. Parlava per enunciati popolari, e, per questo, era ritenuta la vecchia saggia: la consigliera preferita da tutte le giovani mamme.
Giunto che fui davanti all’uscio, mi fermai incantato ad osservare le grosse corna di bue inchiodate alla sommità della porta, e sognai di arene gremite e di “olè “deliranti. – Che fai babbeo, dormi in piedi?- mi disse donna “Papela” che intanto s’era affacciata alla finestra del piano superiore, -chi dorme non piglia pesci! Muoviti scemo, bussa, che Anna ti aprirà!-.
Anna era la sorella di Giulia, aveva qualche anno più di lei e due occhioni verdi sognanti su di un nasino delizioso. Il suo corpo poi, una meraviglia; camminava come Smeralda, la più giovane gallinella del pollaio di mia madre. Io restavo sospeso, a guardarla, e se mi girava le spalle, sentivo i miei occhi muoversi al ritmo dei suoi passi lombati. Non riuscivo a capire la ragione di tutto questo, anche se avvertivo un senso di vergogna.
Impugnai il ferro di cavallo che faceva da battente e picchiai tre volte.
Dopo un poco, la pesante porta si aprì con un lamento. Era buio all’interno e la figura di Anna illuminata dal sole ormai basso, mi apparve in tutta la sua arroganza. –Che vuoi, non sai che a quest’ora la gente ci ha da fare? – Non riuscivo a reggere il suo sguardo. Mi sembrava di essere sorpreso nei miei pensieri indecenti e si faceva difficile spiccicare parola. Ero tutto un fuoco ed un tremendo imbarazzo mi accendeva il viso. Mi sentivo smascherato, come se i miei pensieri più intimi apparissero stampati sulla faccia.
-Voglio la bagnarola- riuscii a sbiascicare con voce roca e lo sguardo a terra. -É ai piedi del lavatoio- disse donna Papela, rivolgendosi alla ragazza dal ballatoio della scala che portava alla stanza da letto, - dagliela, Anna, e manda un bacio a Carmela per ringraziamento!-
-Vuoi prima il bacio o la bagnarola? Mi disse ridendo la farabutta, beandosi in cuor suo per il disagio che mi procurava, -è vero che hai paura delle ragazze? aggiunse con tono sfottente, -me lo daresti un bacio?-
continuò osservandomi con attenzione. Io ero furibondo con me stesso perchè le gambe mi tremavano e mal digerivo quel sorriso sfottente della ragazza ad un palmo dalla mia faccia, con la bocca socchiusa che mi mostrava tutti i denti. Fu un raptus. Chiusi gli occhi e, ciaàcchète, le piazzai il più rumoroso bacio, proprio sui suoi denti. C’èra in quel bacio l’estratto delle mille umiliazioni subite. –Bravo Salvatore, disse donna Papela, così si fa quando a una donna gli friccica-. –E tu, ti decidi? Gliela dai questa benedetta bagnarola, o vuoi attendere la notte? Sbrigati, e torna alle tue faccende! Infine, impara, che a troppo sfottere si resta sfottuti !-
Anna non rispose, né si arrabbiò; mi sembrò improvvisamente meno scanzonata e la vidi guardare come se mi vedesse per la prima volta. Silenziosa, servile, mi diede l’attrezzo e rientrò in casa.
Mi ritrovai imballato in mezzo al cortile e sognante, impugnavo con le mani le due maniglie della bagnarola tenendola capovolta sul capo sì che il mio busto era completamente nascosto dal recipiente.
Avanzavo a stento un po’ per la scarsa visibilità un po’ perché ero tutto
incartato a ripensare quanto era avvenuto senza che ne avessi tratto gusto o profitto.
–Nè, scemo, quando m’incontri, saluta, se non vuoi buscarle!-. A provocarmi, era Ninuccio detto “a zampogna”. Era fermo, a gambe larghe, come Benito Mussolini, nel mezzo del cortile. Aveva la mia età, ed appariva tutto rosso per i capelli, le lentiggini ed una voglia di vino sotto il mento che disegnava una zampogna. Era un vigliacco, ma sapeva bene che ogni reazione avrebbe provocato la collera di mia madre che non era dolce quando riteneva di dovermi punire. In quell’occasione poi, si sentiva particolarmente sicuro perché ero troppo vicino a casa; non avrei potuto avventurarmi in una sortita senza preventivare la dura punizione materna.
Il carico sul mio capo poi, lo rendeva coraggioso, perché non era costretto ad incrociare il mio sguardo rancoroso.
Io non rispondevo alle sue provocazioni, il miserabile, tuttavia, iniziò un lancio fitto di sassi, la più parte dei quali, finivano contro lo zinco della bagnarola che risuonava rintronandomi. Quando uno di essi mi colpì al tendine d’Achille e mi procurò un dolore insopportabilmente acuto, strillai come un cane investito ed anche se poi si fece più accettabile, seguitai a piangere a dirotto per l’umiliazione e la rabbia. Fu allora che Ninuccio cessò il lancio e temendo una reazione irragionevole, se la svignò.

Io me ne tornai a casa piangendo, e, giunto che fui, mia madre, senza chiedermi ragione del pianto, presumendo, per i miei precedenti, che era il risultato di una baruffa da me cercata e persa, -sei sempre il solito!- e giù uno scapaccione, - non impari mai che il litigio è da animali!- e giù un altro schiaffone, - tuo padre dovrà prendere un provvedimento serio con te, se non vuole vederti in galera!- ed ancora una manata.
Il mio pianto era divenuto disperato. Non avvertivo il dolore, ma il peso della sopraffazione e dell’ingiustizia. Ero arrabbiatissimo con mia madre. Non c’era niente, che potesse giustificarla. Pensavo che, la Madonna l’avrebbe punita più severamente, quanto più la mia disperazione sarebbe montata.
Mi misi così, sempre singhiozzando, ad armeggiare con la bicicletta, poco lontano dall’uscio di casa. Speravo che il pianto potesse procurare rimorso in mia madre che, per la verità, sembrava non accorgersi più di me.
L’orologio del campanile aveva da poco suonato le venti, quanto sentii il passo veloce di mio padre battere il selciato del vicolo, accompagnato dal suo allegro fischiettare.
Ripresi i singhiozzi con più lena e disperazione. – Che è guagliò? Che ti chiagni?- mi chiede mio padre con tono sorpreso e divertito. Egli non mi vedeva mai piangere per una sberla.
A quelle parole, i miei singhiozzi diventarono un pianto irresistibile di disperazione ed una domanda di risarcimento infinita. A fatica, riuscii a spiegare al genitore il torto subito, intercalando le parole al pianto.
Ascoltate le mie ragioni, mio padre si fece serio; stette un attimo in silenzio poi: -ascoltami bene!- disse, - è l’ultima volta che voglio scoprire un tuo pianto causato dall’arroganza di altri!- è bene che tu sia buono e tranquillo, ma non voglio, ripeto, non voglio, che tu subisca vessazioni senza difenderti!Voglio anche, che tu impari a difendere i più deboli dalle angherie di ogni prepotente. Ora smettila di piangere! -, aggiunse. -parlerò io a tua madre-.
Di colpo il mio pianto cessò. Tanto mi bastava. Mio padre che riconosceva il mio diritto alla giustizia ed alla difesa. Dentro il mio cuore ero proprio contento. Finalmente potevo far ingoiare le risate irridenti a quel verme di Ninuccio.
Pensavo in questo modo, mentre mi portavo in giardino a raggiungere mia sorella Lidia. Mi aveva chiamato invitandomi a partecipare al raduno delle galline che, uscite dal pollaio, s’erano riversate rumorosamente fra i pomidori mostrando la loro allegria con saltelli ed abbozzi di volo. Il giardino, che era situato di fianco alla casa, era diviso dalla proprietà limitrofa da un muretto alto poco più di un metro.
Questa apparteneva ad una vecchietta, curva come una befana, che si chiamava Mamuntina.
Era la nonna di Ninuccio “a zampogna”. Una vecchina come tante, la si notava spesso che girovagava tra il cortile ed il giardino, sempre appoggiata ad un bastone. Quando sentii il rumore di frasche smosse nel giardino, pensai che fosse Mamuntina con il suo bastone, ciò nondimeno, mi affacciai a curiosare.
Che visione paradisiaca! Non era la vecchina a trastullarsi con le frasche ma Ninuccio. Stava lì a bighellonare, dando calci alle sarcine accumulate a piramide, senza pensiero.
Era chiaro che non aveva timore alcuno d’attentati, solo una tremenda noia che tentava di prendere a calci.
Non stetti a pensarci su, saltai il muro e con pochi balzi mi portai sul povero Ninuccio che, alla sprovvista, si sentì travolto da una valanga di colpi: erano il saldo finale d’antiche umiliazioni condite da solenni arrabbiature.
A sentirlo piangere, ne provai pena. Mia sorella Lidia, invece, eccitata, strillava come un’ossessa invitandomi a suonargliene ancora a quel vigliacco. Non era cattiva, ma tra le quattro mie sorelle, era quella che più provava pena per le mie disavventure. Smisi di dargliele anche perché nel frattempo, avvertii una vivace discussione fra i miei genitori: non volevo essere causa di dissapori, né, rischiare di perdere, dopo una discussione più approfondita sui metodi educativi, i privilegi da poco acquisiti.
Per questo, assunsi un’aria mite e contrita, e ritiratomi in cucina, mi misi buono buono, sul sussidiario, a studiare attentamente la lezione di geografia per il giorno successivo. Mia madre, a vedermi così, poco prima di cena, restò di stucco.
Era un evento eccezionale. Mai era successo di vedermi applicato sui libri di sera. Mi bastavano le due ore di prima mattina, per soddisfare le attese del mio maestro.

(*) Episodio tratto da “Piazza S. Anna”

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