Pubblicato il 10/06/2024 12:17:39
La donna degli astragali Oggi Guardava il tempo senza occhi perché il tempo era divenuto solo un concetto astratto per lui. Si sentiva una pietra aguzza su cui l’acqua poteva scivolare persino dal basso all’alto, senza poterlo scuotere da quella specie di torpore insano pur tuttavia protettivo. La sua stanza era crepata in più punti, effetto dei suoi nervi ottici, che non avevano la stessa capacità di sedimentazione della sua coscienza. Erano fibre cellulari che andavano per conto loro e come impazziti parevano soverchiarlo in quella insolita immagine che gli era apparsa dal nulla. Da quella finestra senza ormai alcun contorno, una giovane donna camminava sulla spiaggia nel crepuscolo serale. Una tunica bianca, i lunghi capelli sciolti, l’incedere aggraziato pareva così assorta e lieve da sembrare una visione. I suoi piedi nudi ricalcavano nella rena l’impronta delle sue piccole orme che l’acqua , con moto altrettanto lieve, accarezzava e subito dopo cancellava. Chiuse gli occhi. Era un sogno, uno di quei sogni che la sua veggenza poteva dargli solo nei giorni ispirati. Li riaprì subito dopo ma lei era ancora lì sotto. Dannazione! Pochi metri di distanza. Si tranquillizzò, non poteva vederlo dalla spiaggia. Del resto lui era lontano mille miglia dalla vita, dalla sua stessa vita, mentre quella figura di donna era un’immagine materiale e presente. La donna improvvisamente si fermò. Volse lo sguardo verso la sua dimora disabitata come attratta da una forza inspiegabile. Lui trattenne il respiro. Non voleva essere visto. Non voleva, non doveva essere violato nella sua immota staticità, clessidra compresa. Pregò silenziosamente. Và via, vattene via… forza vai... Il lupo che digrignava i denti serrando le mascelle fino a mordersi. Ma non poteva muoversi. Era come incatenato a quella figura appena sfumata nella penombra della sera. La donna estrasse dalla tunica una manciata di sassolini, quasi con aria sospesa. Si inginocchiò sulla sabbia e li sparse con un gesto rituale vicino ai suoi piedi nudi. Stette pochissimi attimi ad osservare, poi con gesto lento volse deliberatamente il viso verso la sua finestra buia e…gli sorrise. Era certo che adesso si sarebbe incamminata verso di lui. Quella donna non era lì per caso. Socchiuse gli occhi. Era tutto un sogno o un dannato intrigo. Quando riemerse dalla sua coltre annebbiata la donna non c’era più. Svanita. Svanita come l’essenza di un profumo evanescente lasciato nell’aria. Sulla sabbia solo quattro ossicini cubici, di cui non conosceva la fattura. E Tutti rivolti verso la stessa faccia, come lati uguali di un dado. Attonito rimase a guardare l’onda che andava morendo sulla rena. Le piccole orme femminili erano rimaste disegnate, appese al filo impercettibile della luce del tramonto. L’acqua non le aveva cancellate. Il segno indelebile della vita, del percorso. Il segno dell’anima rinascente. 1324 A.C. - Tebe Giocavo spesso con le mie sorelle agli astragali. Quei doni che nei corredi funerari venivano offerti alle divinità nei templi sacri. Erano predizioni per il futuro e nella mia terra calda e fertile tutti guardavano al destino come al proprio traguardo celeste. Il compimento di un percorso oltre la vita terrena. Il soffio eterno per attraversare la luce traghettandola oltre le ombre caduche della vita materiale. Mio padre era l’umile uomo della terra e io imparavo da lui i segreti semplici e antichi della natura. Il Nilo era l’azzurro della mia anima espansa. Un luogo lacustre e immemore che dava ricchezza e pienezza al senso della vita. Sapevo che le sue acque mi avrebbero accompagnato anche dopo. Dopo la mia morte. Era tutto scritto lì, nella magia degli astragali. Ogni volta il verdetto era univoco. L’acqua e un volto d’uomo. Una vita da resuscitare, una vita da salvare. Un uomo senza lineamenti, senza un nome, senza un’apparente sostanza. Un’ombra. Io che amavo tutto ciò che era limpido, solare e semplice. Raniya era il mio nome. Morii nell’anno 1262, sotto il regno di Ramses II
(2005)
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