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La Pirroccia

di guido iannone
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Pubblicato il 20/05/2024 00:04:15

da “Partenze e spartenze”
La pirroccia

Già in passato, raccontava mia nonna Caterina, si era pianto tanto in paese per le spartenze, termine questo che sintetizzava due momenti forti: la partenza per terre lontanissime, d’oltreoceano, America, Argentina, Brasile Canada, Australia e altri mondi, da cui difficilmente si sarebbe fatto ritorno e lo spartirsi ossia il separarsi per sempre dalla propria terra e dai propri cari.
Allora, dominava il pensiero delle grandi navi, dei giganteschi bastimenti.
Ho ancora vivi in mente dei grandi manifesti, raffiguranti i giganteschi natanti che solcavano gli oceani. Erano stati appesi da mio padre, per coprire i muri scorticati e polverosi della camera ove dormivo io assieme ai miei fratelli. Avevo, al tempo, cinque anni o forse sei. Quelle immagini di navi sui muri mi turbavano e non di poco. Mi angosciavano non solo perché rappresentavano, nei miei pensieri innocenti, i mezzi del non ritorno, ma soprattutto perché una di esse aveva portato via, per sempre, i miei più cari compagnucci di gioco, proprio quelli che abitavano nel mio stesso vico, di fronte a casa mia.
Quella partenza, anzi quella spartenza, per dirla giusta, l’avevo sofferta veramente tanto, specie per l’immediatezza con cui si era consumata.
Una mattina, sul ballatoio di rimpetto al mio c’era di tutto. Scatoloni di cartone legati con le corde, bauli, valigie anch’esse di cartone, sacchi di iuta strapieni di roba e altre confezioni.
Manuela e Tonino erano seduti sul gradino d’ingresso della loro casa. L’una aveva con sé l’inseparabile pupa di pezza, dalle treccine nere, e se la stringeva al petto, Tonino aveva in mano la sua pirroccia col laccio. Entrambi seri in viso e pensierosi.
Tonino, della mia stessa età, alto quanto me, era molto magro, quasi gracile. Gli occhi neri dallo sguardo profondo nel visino allungato e asciutto. Brunastro di pelle e coi capelli neri, lisci e lunghi, fin sulle grandi orecchie. Sembrava un piccolo indiano serio e composto, uno di quelli che si vedevano sui fumetti del tempo.
Con Tonino giocavo, preminentemente, a salva pirroccia.
Lui era bravissimo, raramente sbagliava le battute con i suoi tiri precisi, non perdeva quasi mai. Il giorno prima, con una botta secca e violenta, era riuscito a spaccare in due pezzi la mia patacca, così era detta la pirroccia con la testa più larga di circonferenza, ma gli era dispiaciuto. A me di meno perché, da qualche tempo, avevo in mente di farmi prendere da mia nonna una pirroccia più aggressiva, come quella di Tonino.
Manuela di un anno più piccola, non sembrava essere la sorellina di Tonino. Anche lei era magrina, ma meno del fratello. Il suo visino era rotondo, chiara di pelle, con una folta capigliatura biondissima, dai lunghi riccioli che le cascavano da tutte le parti. Due occhietti, di celeste marino, vispi e profondi e un nasino all’insù, ben modellato, la rendevano, in apparenza, dispettosa e capricciosa. Spesso lo era veramente, specie quando si sentiva trascurata perché Tonino ed io, assieme ad altri bambini della ruga, cioè del rione, organizzavamo delle gare a salva pirroccia. D’altra parte Manuela con la pirroccia era una vera frana, non ci sapeva proprio fare, era maldestra e non voleva ammetterlo, per cocciutaggine o per capriccio.

Sollevato sulla punta dei piedi e appena con la testa fuori del parapetto, in cemento rustico, delimitante il mio ballatoio da quello di Tonino, incuriosito da quell’ammasso di cose accatastate, chiamai:
“Tonino, Manuela, cosa è successo? Perché tutta quella roba sul terrazzo? Cambiate casa?”
“No, partiamo con il bastimento, andiamo via, forse per sempre.” Rispose Tonino. Aveva un gran angoscia in gola. La sua voce, infatti, sembrava volesse rimanergli dentro il petto.
“Ma perché andate via? Dove ve n’andate? “ Ribattei.
“Molto lontano, più in là del mare, Brasile si chiama il posto.” Non rispose Tonino, lo fece Manuela. Lei, pur compunta, non sembrava avesse la stessa tristezza di Tonino.
“Ma perché ve n’andate?” Insistetti.
“Non lo sappiamo proprio perché andiamo via. L’ha scritto mio zio dal Brasile che possiamo andare. Papà e mamma dicono che in quel posto si sta meglio.” Rispose Tonino, stavolta però, con gli occhi gonfi di lacrime.
Manuela, notando che il fratello stava per piangere, fontanella com’era, non riuscì a trattenersi, ruppe in un pianto dirotto e se ne corse in casa.
Si udiva la voce della madre diffondersi nel vico a consolarla: “Manuela mia, non piangere tesoro, vedrai che lì dove ce ne andiamo è bello, più bello di qui. Fai la brava ora, smettila di piangere e aiuta la tua mamma a sistemare la roba.”
Anch’io, prendendo coscienza di quanto stava accadendo, cominciai a intristirmi, a commuovermi, ma non ero ancora del tutto convinto che i miei amici partissero veramente per sempre. E allora ridomandai a Tonino, che era rimasto seduto sul gradino:
“Tonino, ma veramente andate via per sempre, per sempre e non tornate più?”
“Così dicono papà e mamma. Lo sa anche tuo padre che ha dato al mio le carte per partire e il passaporto per attraversare il mare.“ Rispose lui convinto. Poi, sentendosi chiamare dal padre, se n’entrò moggio, moggio in casa.
Non ebbi, allora, più dubbi. Era vero. I miei migliori compagni di giochi se n’andavano via per sempre.
Non mi rassegnai.
Accorato corsi da mia nonna, con rabbia le posi tanti perché e la implorai di andare a casa di Tonino per convincere i suoi genitori a non andare via, a non partire. Mia nonna, paziente, cercò di tranquillizzarmi con dolcezza, e, rispondendo amorevolmente a qualche mio perché, per distogliermi dal pianto, concluse il suo discorso dicendomi:
”Figlio mio questo è il cammino della vita e non si può arrestare, sei ancora piccolo per capire, ma un giorno, anche tu capirai e te ne farai una ragione, vedrai sarà così.”
Mia nonna non mi aveva convinto per niente. A me non stava per niente bene di dover capire un giorno, chi sa quando, e chi sa cosa. Per me non c’era ben poco da capire, c’era solo da agire per evitare una spartenza dai miei più cari compagni di gioco.
Mi convinsi, deluso, che nessuno voleva intervenire per fermare quel brutto evento che mi stava procurando tanto dispiacere e un gran dolore.
Ritornai di corsa sul terrazzo e, attaccato al parapetto mi sollevai di nuovo sulla punta dei piedi. Sull’uscio di fronte non c’era nessuno.
Il padre di Tonino, su e giù per la scala, iniziava a portare nel vico i vari bagagli e la roba, approntati per la partenza.
Mi rivolsi a lui accorato:
“Compare Vito, vi prego, vi prego, non partite, non andate via.”
“Guiduccio, sei troppo piccolo per capire, anche a me dispiace, ma dobbiamo farlo.” Mi rispose serio e netto.
Anche lui, come mia nonna, non aveva voluto capirmi.
Richiamai, quasi urlando, come un disperato:
“Tonino, Tonino.”
“Tonino.” Ripeté il padre a voce alta.
Sull’uscio non si affacciò solo Tonino, apparvero anche la madre con in braccio Bettinella, l’altra sorellina, la più piccola, e poi, presi per mano da Manuela, gli altri fratellini, Onofrio e Pasqualino. Tutta la famiglia, ora stava sul ballatoio.
“Stiamo per partire.” Disse Tonino. “Tra un po’ arriva la macchina viene a prenderci.”
Poi si avvicinò al mio parapetto, tese le mani verso di me e mi porse, donandomela, la sua pirroccia.
“Prendi, tienila, è tua, ieri ho spaccato la tua patacca e mi è dispiaciuto. Dove stiamo per andarcene, forse, non si gioca con la pirroccia. Quando la farai girare, sono sicuro, ti ricorderai di me.”
La presi impietrito.

Il vico, intanto, si popolava di gente. Parenti, compari e comari, anche mia nonna, mio padre, mia madre mio fratello e mia sorella, maggiori, scesero nel vico a salutare gli emigranti. Quasi tutti, specialmente le donne, piangevano cantilenando un’unica litania: “Dio mio, Dio mio, quanto è brutta la spartenza, quanto è brutta la partenza.”
Quei pianti accorati mi scavavano dentro fino a farmi male, tanto da non sopportarli più. Me ne scappai via. Corsi di sopra, mi buttai sul letto e scoppiai in un gran pianto. Provavo una grande angoscia perché stavo perdendo i miei più cari compagni vicini di casa, ma avvertivo pure una forte rabbia per la mia impotenza a fermare quella spartenza. Poi mi alzai lacrimante, presi il forcone, nero di carbone, dalla stanza del forno e cominciai a strapazzare i manifesti delle grandi navi appesi alle pareti, fino a ripulire i muri, a far cadere i calcinacci e a sollevare una gran nebbia di polvere. Raccolsi quella cartaccia, la arrotolai e la buttai nel forno di mattoni, accesi un fiammifero di legno, quelli asfissianti e puzzolenti di zolfo e lo gettai con rabbia sulla carta che bruciò in fretta sfavillando in grandi linguacce di fuoco. Provai anche un sentimento di vendetta verso mio padre, che aveva affisso i manifesti e che, per via del passaporto, si era reso complice della spartenza che si era consumata. Singhiozzando, poi, mi ributtai sul letto e mi colse il sonno.

Più tardi fu mia nonna a risvegliarmi e, dalla sua mano, scendendo giù, guardavo, segretamente, l’uscio della casa dei miei compagni. Tutto era chiuso, sbarrato, certo per sempre e nel vico danzavano, con i fantasmi dei bambini, le mutezze.



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