Era la prima metà degli anni '80, credo il 1982 o il 1983.
A quel tempo l'estate in Italia era ancora piacevolmente calda, con l'anticiclone delle Azzorre che dominava il cielo per tre mesi, rendendo la vita all'aria aperta gradevole e desiderabile.
Nessuno di noi aveva ancora conosciuto il temibile anticiclone africano, con la sua torrida cappa di afa che ora costringe le persone a chiudersi in casa tenendosi attaccati al condizionatore, facendoci perdere l'occasione di goderci quella che una volta si chiamava la bella stagione.
Dunque, io avevo circa 10/11 anni frequentavo le medie e ormai potevo uscire da sola anche se non avevo ancora le chiavi di casa.
In quel periodo incontravo un gruppo di cuginetti coetanei che abitavano nel quartiere e, per vincere la noia delle giornate libere dagli impegni scolastici, si decise di vederci ogni pomeriggio per fare delle gite in bicicletta. Eravamo una comitiva di quattro o cinque ragazzini e nel primo pomeriggio ci si vedeva all'inizio di quella strada dritta e lunga lunga, lunghissima, che un po’ alla volta portava fuori città.
Tra noi si diceva "andiamo al gasometro", perché appena arrivati in periferia c'era piantato nel terreno una specie di grosso scatolone metallico con una serie di tubi che entravano e uscivano, sportellini chiusi da lucchetti, apparecchiature sconosciute e misteriose, e che serviva appunto per lo smistamento del gas.
Emetteva uno strano ronzio elettrico e rumori di motorini o ventole che giravano.
La mia bicicletta era bianca e arancione, quella di mio fratello bianca e blu, dello stesso modello ma più piccola, poi ne ricordo una color ciclamino e un'altra arancione con la pittura scrostata e arrugginita a cui demmo una riverniciata con le bombolette spray.
La strada era pianeggiante, a tratti in leggera discesa, e si restringeva sempre più fino a diventare uno stretto sterrato che si inoltrava in aperta campagna.
Si procedeva per lo più in silenzio, godendosi lo spettacolo dei campi arati con le zolle rivoltate, oppure quelli già coltivati con le piante di tabacco o di grano. Le case dei contadini apparivano qua e là, in ordine sparso, a volte li incontravamo lungo la strada e ci si salutava pur non conoscendosi.
A pensarci oggi appare veramente strano come ci si potesse divertire praticamente con niente, andando a spasso nella natura, portandosi appena fuori dalla città.
Non ho mai saputo di quanti chilometri ci allontanassimo e, adesso non riesco nemmeno a calcolarli, ma il nostro punto di arrivo, e quindi di ritorno, era lo "scasso", detto anche il cimitero delle macchine, uno sfascia carrozze dove giacevano le auto da rottamare, in condizioni più o meno rovinose. Talvolta la gente ci andava a procurarsi dei pezzi di ricambio a buon prezzo, magari anche dati in regalo. Naturalmente c'era un'altra strada per arrivare allo scasso, che poi si collegava alla strada provinciale. Una volta tentammo di tornare in città usando appunto la strada grande e asfaltata, ma ce ne pentimmo subito perché si allungava tantissimo il tragitto, e per di più bisognava procedere in fila indiana tenendo la destra per via del traffico di automobili.
Per noi bambini lo scasso era un luogo con un fascino particolare, denso di mistero e avventure, per via di quelle cataste di rottami che di per sé davano l'idea di un mondo perduto e dimenticato. Storie da inventare, segreti da scoprire aprendo uno sportello o guardando attentamente dei fari rotti, la nostra immaginazione si sbizzarriva seguendo i percorsi più strani.
Una volta trovammo una tana di gattini con mamma gatta che ci venne incontro presentandoceli con orgoglio. Un'esplosione di colori, di gioia e allegria.
Di quelle scampagnate ricordo soprattutto il silenzio della campagna , la luce abbagliante del cielo, il tempo che sembrava fermarsi e una strana sensazione d'eternità, come se quei pomeriggi passati insieme dovessero durare per sempre.
Invece, dopo un paio d'anni, le gite in bicicletta finirono. E non ho mai capito perché a un certo punto, perdemmo l'interesse e smettemmo di ritrovarci al gasometro.
Forse è che si stava diventando grandi, lo stato di grazia dell'infanzia era ormai finito, dalle medie si era passati al liceo, d'estate si passeggiava in città a farsi vedere in giro da questo e da quello, noi ragazze pensavamo ai vestiti, ai capelli, alla musica pop e altre cose frivole. Andare in bicicletta era roba da sfigati , da vergognarsi da morire.
A pensare adesso a quei ricordi vengo sommersa da una dolorosa nostalgia, nella consapevolezza che quelli erano momenti felici terminati per sempre e che non potranno mai più ripetersi.
Ma sono davvero finiti ?
In qualche modo, continuano ad esistere, sebbene in una dimensione diversa da quella della realtà materiale, ovvero nella mia memoria, pronti a ripetersi ancora e ancora, ogni qual volta li richiamo alla mente.
La storia della nostra vita non può mai essere cancellata e gli eventi che ci accadono acquistano una loro propria esistenza che va oltre la nostra volontà e la nostra capacità di ricordarli .
Purtroppo e per fortuna.
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