chiudi | stampa

Raccolta di testi in prosa di Elena Viola
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

*

La pagina bianca

La pagina bianca

 

La pagina bianca è il peggior incubo di ogni scrittore.

Quando te ne stai lì a fissare la pagina vuota e non sai come cominciare, ti mancano proprio le parole, non riesci nemmeno a formularle nella tua testa , i pensieri sono bloccati e ti sembra di essere diventato muto.

Se questo è già abbastanza angosciante per chi scrive per diletto, può diventare terrificante per uno scrittore di professione che ha delle scadenze temporali da rispettare.

E quanto più passa il tempo tanto più le parole si bloccano e non vogliono apparire sul foglio, roba da diventarci matto.

Non per nulla questo è quello che succede a Jack Torrance nel film Shining.

Comunque, ammettiamolo, la pagina bianca è una malattia attraverso cui tutti gli scrittori prima o poi devono passare, dilettanti o professionisti, ma è tuttavia una malattia benigna e temporanea, sebbene non se ne conosca alcuna cura.

Spesso basta distrarsi un po’, uscire per una passeggiata nei boschi, al mare, lungo il fiume, passare una serata in compagnia, vedere un film, fare un viaggio, riordinare il garage, andare a correre e cose del genere.

A volte ci si sblocca per un evento inaspettato che ci capita all'improvviso e ci colpisce emotivamente, come incontrare casualmente una persona che non si vedeva da decenni, o incappare in una disgrazia qualsiasi, in modo diretto o indiretto.  

A questo punto devo ammettere che sono attualmente affetta dalla maledetta malattia, la sindrome della pagina bianca.

Non ho più idee, né motivazione alcuna, né parole, né argomenti di cui trattare, né storie da raccontare, né fantasia o immaginazione per creare personaggi o situazioni o eventi e circostanze. Come guardare l'alveo di un torrente disseccato da tempo e intuire che una volta lì scorreva vivacemente dell'acqua fresca e pulita , ma ora si vedono solo ciottoli levigati e sabbia, erbacce e qualche arbusto che prova a mettere radici. Concentrandomi mi sembra di sentire ancora l'eco del rumore dell'acqua che fluiva saltellando allegramente tra i sassi, luccicando in mille riflessi del bagliore del sole, ma prendendo atto della realtà riconosco  che ora le fonti si sono esaurite e sono rimaste ben poche tracce di quello che era solo un ruscello temporaneo, generato da estemporanee condizioni climatiche e ambientali e tuttavia impossibilitato a diventare un fiume stabile e durevole.

La passione per la scrittura era arrivata tardi nella mia vita e, dopo qualche illusione iniziale, mi resi conto che non mi avrebbe portato nessun riconoscimento sul piano pratico: né lavorare per qualche casa editrice come editor, né come ghost writer, né vincere concorsi letterari e men che meno pubblicare i miei lavori, nemmeno autoprodotti, in quanto era un mondo in cui non sapevo minimamente orientarmi.

Ciò nonostante scrivevo per il piacere di farlo, per il gusto di riuscire a esprimere e materializzare con le parole più adatte le scene, le idee, i personaggi che mi venivano in mente. A volte le storie sembravano scriversi da sé, era come un flusso d'ispirazione che mi entrava nella mente e i racconti si auto componevano in maniera perfetta. Cominciai anche a pensare a un paio di progetti più impegnativi, tipo romanzi ben articolati, e quindi facevo ricerche, mi documentavo…insomma in realtà facevo né più né meno di ciò che un vero scrittore fa abitualmente.

Poi qualcosa si è spezzato.

Una profonda crisi dell'esistenza determinata da una serie di circostanze avverse che mi hanno portato a dubitare profondamente sul senso della vita umana, e da allora nulla è più stato come prima. Ho sviluppato una corazza emotiva, un controllo sui sentimenti che mi permette di restare centrata  pur dovendo ancora attraversare eventi difficili, e questo sistema in pratica funziona e mai e poi mai vorrei tornare alla mia primitiva ingenuità, a quel buonismo sciocco e irragionevole che mi ha portato tanti guai. Eppure qualcosa di importante si è spezzato e non riesco più a ricostruirlo.

 

“Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante.”

 

Senza emozioni, che siano pure violente, destabilizzanti e tumultuose, non si può creare nulla da potersi definire lontanamente "artistico".

Ecco, io pensavo di poterne fare a meno e avevo ripreso a scrivere, o almeno mi illudevo di poterlo fare, invece mi ritrovo a vagare in un deserto di idee e di ispirazioni dove non c'è più vita.

Per me la pagina bianca corrisponde a una vita bianca, senza colore e senza più parole, e la mia non è una malattia passeggera, di quelle che ogni scrittore si trova ad affrontare prima o poi. E' proprio un problema strutturale, un edificio pieno di crepe che non sta più in piedi e non serve a nulla puntellarlo.

Ovviamente, da un punto di vista generale questo non è un gran danno, il mondo non risentirà affatto della mancanza di un mediocre scribacchino come me, ma dal mio personale punto di vista questa può essere una catastrofe.

Dopo molti giri a vuoto avevo finalmente trovato qualcosa che poteva definirmi come essere umano nella mia unicità e ora sento di averlo perso, sacrificando le mie emozioni sull'altare della "resilienza", un termine che  ultimamente va molto di moda. Poter restare calmi e impassibili mentre la tempesta si scatena tutt'intorno, è un bel traguardo raggiunto,sì ma a che prezzo ?

E tuttavia preferisco avere dentro di me la calma e la quiete piuttosto che il caos necessario a produrre stelle.

Così la mia pagina resta bianca, forse resterà così per tutto il resto della vita e mi toccherà tornare a vivere su questa terra per portare a termine tutte quelle cose che volevo fare e ho dovuto lasciare a metà.

Scrivere adesso fa parte dell'elenco.

 


Id: 5775 Data: 10/09/2024 17:31:56

*

Gli anni ’80, l’estate, le biciclette.

Era la prima metà degli anni '80, credo il 1982 o il 1983.

 

A quel tempo l'estate in Italia era ancora piacevolmente calda, con l'anticiclone delle Azzorre che dominava il cielo per tre mesi, rendendo la vita all'aria aperta gradevole e desiderabile.

Nessuno di noi aveva ancora conosciuto il temibile anticiclone africano, con la sua torrida cappa di afa che ora costringe le persone a chiudersi in casa tenendosi attaccati al condizionatore, facendoci  perdere l'occasione di goderci quella che una volta si chiamava la bella stagione.

 

Dunque, io avevo circa 10/11 anni frequentavo le medie e ormai potevo uscire da sola anche se non avevo ancora le chiavi di casa.

In quel periodo incontravo un gruppo di cuginetti coetanei che abitavano nel quartiere e, per vincere la noia delle giornate libere dagli impegni scolastici, si decise di vederci ogni pomeriggio per fare delle gite in bicicletta. Eravamo una comitiva di quattro o cinque ragazzini e nel primo pomeriggio ci si vedeva all'inizio di quella strada dritta e lunga lunga, lunghissima, che un po’ alla volta portava fuori città.

Tra noi si diceva "andiamo al gasometro", perché appena arrivati in periferia c'era piantato nel terreno una specie di grosso scatolone metallico con una serie di tubi che entravano e uscivano, sportellini chiusi da lucchetti, apparecchiature sconosciute e misteriose, e che serviva appunto per lo smistamento del gas.

Emetteva uno strano ronzio elettrico e rumori di motorini o ventole che giravano.

 

La mia bicicletta era bianca e arancione, quella di mio fratello bianca e blu, dello stesso modello ma più piccola, poi ne ricordo una color ciclamino e un'altra arancione con la pittura scrostata e arrugginita a cui demmo una riverniciata con le bombolette spray.

La strada era pianeggiante, a tratti in leggera discesa, e si restringeva sempre più fino a diventare uno stretto sterrato che si inoltrava in aperta campagna.

Si procedeva per lo più in silenzio, godendosi lo spettacolo dei campi arati con le zolle rivoltate, oppure quelli già coltivati con le piante di tabacco o di grano. Le case dei contadini apparivano qua e là, in ordine sparso, a volte li incontravamo lungo la strada e ci si salutava pur non conoscendosi.

A pensarci oggi appare veramente strano come ci si potesse divertire praticamente con niente, andando a spasso nella natura, portandosi appena fuori dalla città.

Non ho mai saputo di quanti chilometri ci allontanassimo e, adesso non riesco nemmeno a calcolarli, ma il nostro punto di arrivo, e quindi di ritorno, era lo "scasso", detto anche il cimitero delle macchine, uno sfascia carrozze dove giacevano le auto da rottamare, in condizioni più o meno rovinose. Talvolta la gente ci andava a procurarsi dei pezzi di ricambio a buon prezzo, magari anche dati in regalo. Naturalmente c'era un'altra strada per arrivare allo scasso, che poi si collegava alla strada provinciale. Una volta tentammo di tornare in città usando appunto la strada grande e asfaltata, ma ce ne pentimmo subito perché si allungava tantissimo il tragitto, e per di più bisognava procedere in fila indiana tenendo la destra per via del traffico di automobili.

Per noi bambini lo scasso era un luogo con un fascino particolare, denso di mistero e avventure, per via di quelle cataste di rottami che di per sé davano l'idea di un mondo perduto e dimenticato. Storie da inventare, segreti da scoprire aprendo uno sportello o guardando attentamente dei fari rotti, la nostra immaginazione si sbizzarriva seguendo i percorsi più strani.

Una volta trovammo una tana di gattini con mamma gatta che ci venne incontro presentandoceli con orgoglio. Un'esplosione di colori, di gioia e allegria.

Di quelle scampagnate ricordo soprattutto il silenzio della campagna , la luce abbagliante del cielo, il tempo che sembrava fermarsi e una strana sensazione d'eternità, come se quei pomeriggi passati insieme dovessero durare per sempre.

 

Invece, dopo un paio d'anni, le gite in bicicletta finirono. E non ho mai capito perché a un certo punto, perdemmo l'interesse e smettemmo di ritrovarci al gasometro.

Forse è che si stava diventando grandi, lo stato di grazia dell'infanzia era ormai finito, dalle medie si era passati al liceo, d'estate si passeggiava  in città a farsi vedere in giro da questo e da quello, noi ragazze pensavamo ai vestiti, ai capelli, alla musica pop e altre cose frivole. Andare in bicicletta era roba da sfigati , da vergognarsi da morire.

 

A pensare adesso a quei ricordi vengo sommersa da una dolorosa nostalgia, nella consapevolezza che quelli erano momenti felici terminati per sempre e che non potranno mai più ripetersi.

Ma sono davvero finiti ?

In qualche modo, continuano ad esistere, sebbene in una dimensione diversa da quella della realtà materiale, ovvero nella mia memoria, pronti a ripetersi ancora e ancora, ogni qual volta li richiamo alla mente.

La storia della nostra vita non può mai essere cancellata e gli eventi che ci accadono acquistano una loro propria esistenza che va oltre la nostra volontà e la nostra capacità di ricordarli .

Purtroppo e per fortuna.

 


Id: 5611 Data: 11/05/2024 17:31:52

*

Il bodyguard e l’ingenua fanciulla (ma è solo un sogno)

La maggior parte dei sogni che facciamo di notte sono incomprensibili, surreali , bizzarri .

 

Gli eventi si svolgono in modo del tutto arbitrario senza alcuna logica, persone e luoghi sono spesso deformati in modo grottesco, le scenografie teatrali che fanno da sfondo sono illuminate in modi impossibili, quasi magrittiani , con giorno e notte che coesistono senza annullarsi a vicenda.

Nello sforzo di capirne il significato, spesso passiamo una buona metà del mattino a ripeterci le scene nella mente, magari consultando improbabili manuali di decifrazione dei simboli, mentre i più fortunati, cioè quelli con il portafoglio pieno e molto tempo libero, vanno sul divano dell'analista a sciorinarli nei più piccoli dettagli.

Eppure, in mezzo a tanto mistero, capita che a volte si presentino dei sogni straordinariamente chiari e comprensibili, che ci parlano di noi più di come potremmo mai fare noi stessi mettendoci allo specchio.

 

Quello che sto per narrare risale a una decina d'anni fa e appartiene appunto a quest'ultima categoria. Lo definirei il sogno che determina il passaggio alla maturità e  la fine di una mentalità ingenua e  sprovveduta.

 

PRIMA SCENA

Mi sveglio una mattina in un appartamento di lusso, molto curato nei dettagli e nell'arredamento e che corrisponde esattamente ai miei gusti, e lo definirei appunto la casa dei miei "sogni".

Sono un uomo, ma questo non mi suscita nessuna meraviglia in quanto non ricordo di essere una donna nella vita reale. Ho circa 35 anni, sono di bell'aspetto, molto curato, palestrato ma senza esagerazioni, e mi sento molto bene nel mio nuovo corpo maschile. C'è solo un piccolo problema: ho perso totalmente la memoria e non ricordo assolutamente chi sono. So che quella casa è mia, ci abito io e , a quanto pare sono un uomo ricco o quanto meno benestante, ma chi sono ? Cosa faccio nella vita? Comincia a salirmi l'ansia, più mi sforzo di ricordare e più mi si chiude la mente, l'agitazione  aumenta fino a trasformarsi in panico, cammino avanti e indietro tenendomi la testa tra le mani, e all'improvviso, quasi in risposta alle mie domande mentali, suona il campanello.

Mi si presenta un tizio più o meno della mia stessa età, sicuramente un mio conoscente, e mi dice: "Il capo stasera dà una festa in maschera, naturalmente dovrai venire anche tu." Rispondo impassibile: "Sì certo, ci sarò".

Chiudo la porta e improvvisamente ricordo tutto. Il capo è un importante boss di un'organizzazione criminale, qualcosa tipo la mafia cinese, è ricchissimo e potentissimo, tutta la città appartiene a lui.

Io sono il suo bodyguard. La cosa non mi fa particolarmente impressione, ovvero non ci vedo nulla di male, è un mestiere come un altro. Io non sono un criminale, faccio solo il mio lavoro di proteggere la persona che mi è stata affidata, che poi sia un delinquente o un premio Nobel non mi riguarda. E' comunque un lavoro rischioso e stressante e quindi ben pagato, ma io sono forte e ho molto sangue freddo, assolutamente affidabile. Mi sembra di assomigliare al personaggio di Leon, un killer distaccato e infallibile e pur tuttavia di buon cuore.

 

SECONDA SCENA

E' il primo pomeriggio dello stesso giorno e io vado in palestra per il mio allenamento quotidiano. Per andare in palestra devo passare attraverso  un ristorante (questo è l'unico particolare strano del sogno, per il resto molto logico e realistico). La palestra è del capo, anche il ristorante è del capo, tutta la città è del capo, sembra un mondo uscito dai fumetti dove il capo è una specie di divinità onnipresente. Io attraverso la sala con il borsone sportivo appoggiato disinvoltamente su una spalla e d'un tratto resto colpito da una scena. Ad un tavolo c'è una donna giovane, sui trent'anni, seduta di fronte un uomo con almeno una decina d'anni in più. Lui le sta tenendo la mano e le parla sorridendole mentre lei lo guarda con occhi felici e sognanti, quasi rapita in un'estasi mistica. Con ogni probabilità le sta descrivendo la loro futura vita insieme, fatta di viaggi, vacanze, ristoranti, teatri, una bellissima casa, vestiti firmati e qualche gioiellino da sfoggiare nelle occasioni importanti. Lei è talmente presa dal fantastico racconto da sembrare trasfigurata, risplendente di luce sacra e pronta per essere assunta in cielo levitando sulle nuvole. Sorprendentemente il suo aspetto era identico al mio da giovane, era come guardare dal di fuori me stessa, ma il protagonista del sogno non poteva sapere chi fosse quella ragazza e non la riconosceva.

 

"Ma com'è possibile che ci siano ancora donne così cretine ? Quello è solo un poveraccio che sta raccontando un mucchio di balle, sì, la porterà pure al ristorante e al mare un paio di volte, poi comincerà a defilarsi con una scusa o l'altra e la mollerà come un giocattolo rotto, mentre lei aspetterà invano per mesi le sue telefonate. Almeno il gioiellino vedi di fartelo regalare subito, e che sia bello pesante, così potrai  pagarci le sedute dalla psicologa che ti salverà dal tagliarti le vene nella vasca da bagno".

Istintivamente faccio qualche passo in direzione del tavolo, perché ho proprio l'impulso di dirgliele in faccia queste cose, però mi fermo in tempo per proseguire la mia strada, mi stringo nelle spalle pensando che devo farmi i fatti miei.

 

TERZA SCENA

E' più tardi nel pomeriggio, io ho finito la mia sessione di allenamento e sto tornando a casa a piedi attraverso un parco che , ovviamente, è di proprietà del mio capo. Ho il borsone sportivo appoggiato con disinvoltura su una spalla, un'andatura sicura e al contempo rilassata, un incredibile senso di benessere e tranquillità, quando… thò… ma chi c'è su quella panchina ? Di nuovo la ragazza del ristorante, e stavolta sta parlando con un'amica descrivendole l'incontro che c'è stato poco prima, ha ancora gli occhi sognanti e sorride raccontando la vita meravigliosa che l'attende mentre  io ho quasi un moto di rabbia e penso "Ma basta ! Questa sta per mettersi in un guaio, qualcuno deve pur avvertirla del fatto che non bisogna mai credere alle promesse degli uomini ". Di nuovo mi dirigo verso di lei e di nuovo mi fermo dopo pochi passi. Volto le spalle, riprendo il mio cammino e mi dico: "Tanto prima o poi lo capirà da sola."

FINE

 

E' abbastanza strano, ma poi neanche tanto, pensare che possiamo incarnarci contemporaneamente in diversi personaggi che vivono le loro vite forse in posti lontanissimi, oppure nella stessa città, riuscendo persino ad incontrarsi, talvolta, per quanto non possano riconoscersi. Quando si dice "ama il prossimo tuo come te stesso", potrebbe anche non essere un semplice modo di dire, perché l'altro potrebbe davvero essere un altro se stesso.

Durante il sonno e il sogno in particolare, il nostro cervello attraversa i famosi "stati alterati di coscienza" durante i quali possiamo attingere a conoscenze a cui non abbiamo accesso durante lo stato vigile. In questo sogno io vedevo me stessa dal di fuori, da un'altra prospettiva, mantenendo la consapevolezza di me  nella mente del bodyguard e non in quella dell'ingenua fanciulla dagli occhi sognanti.

Lo ammetto, nella mia giovinezza sono stata davvero così, un'ingenua credulona che si fidava delle chiacchiere degli uomini, per poi "capire da sola" come stanno effettivamente le cose. E' giusto o no avvertire qualcuno dell'inconsistenza dei bei sogni, sbattergli in faccia la dura realtà per evitargli delusioni ?

Con la saggezza dei miei cinquant'anni oggi mi ritrovo sicuramente nel modo di pensare del bodyguard, e tuttavia mi manca molto l'irresistibile ebbrezza di quel particolare  stato d'animo, così euforico e coinvolgente , dato dalle illusioni.

La realtà può essere molto triste e scoraggiante, ma le illusioni è meglio che restino confinate nel mondo dei sogni.

 

Tutto il sogno appena descritto mi ricorda molto l'atmosfera di "Leon" per il surreale contrasto tra la freddezza del killer e la sua disarmante ingenuità, ma anche un altro film, molto meno conosciuto, il sud coreano "A bitter sweet life" dove un boss della mafia (coreana ovviamente) dà l'incarico al suo braccio destro, un ragazzo che ha cresciuto come un figlio, di controllare la sua giovanissima amante, ma il ragazzo finisce con l'innamorarsene tradendo la fiducia del suo capo. Si scopre infine che il test riguardava proprio la fedeltà del ragazzo al suo boss, e tutto si conclude con una sanguinosa sparatoria stile western. Il ragazzo è ormai morente e steso a terra, mentre la sua voce fuori campo racconta:

 " Una mattina il giovane discepolo si svegliò piangendo e il maestro gli chiese- Perché piangi, hai fatto un brutto sogno? – No, al contrario, ho fatto un sogno bellissimo- E allora perché piangi?- Perché so che il mio sogno non potrà avverarsi mai."

 

Una vita dolceamara.

 

 


Id: 5592 Data: 25/03/2024 14:27:01

*

Il doppio e l’isola del giorno prima

"L'isola del giorno prima" è  senza dubbio il libro di Umberto Eco che preferisco. Certo, insieme a "Il nome della rosa" e a "Il pendolo di Faucoult", che in fondo erano altre variazioni dello stesso tema.

C'era in tutti un mistero da risolvere, un eroe che da solo affronta dei complotti per scoprire la verità, una combriccola di persone malvagie al soldo delle forze del male, ma nell'isola c'era in più il tema del tempo, il tempo che può essere cambiato a piacimento solo spostandosi nello spazio di pochi metri, e l'incredibile fenomeno dell' "azione a distanza", oggigiorno scientificamente definito entaglement quantistico.

E non è tutto. C'era anche il tema del doppio.

 

Quel famigerato gemello scomparso, nascosto, separato alla nascita, ripudiato, allontanato, sempre pronto a farsi vivo nei momenti meno opportuni per fare le cose meno opportune.

Succedeva spesso nei secoli passati che in caso di nascita gemellare, uno dei due venisse fatto "sparire" per evitare problemi dinastici ed ereditari. Dove fatto sparire poteva significare ucciso ma anche talvolta abbandonato nel bosco, buttato nel fiume (vedi la leggenda di Mosè), ma pure dato in adozione e fatto crescere sotto mentite spoglie in un luogo lontano da gente del volgo. Ci sono molti miti, leggende, fiabe e racconti riguardo questi bambini a cui veniva negato il legittimo destino di nascita e impedito di conoscere le proprie origini.

Talvolta succedeva il patatrac, ovvero che si venisse in qualche modo a sapere chi era veramente quel bambino o quell'adulto povero e cencioso, con tutte le rocambolesche conseguenze che ne possono derivare. La letteratura e la cinematografia hanno ricamato parecchio su queste vicende , ma c'è stato persino un vero caso  di cronaca accaduto nel primo '800 a Norimberga quando venne ritrovato in città un ragazzo in cattive condizioni di salute fisica e mentale che sosteneva di essere stato tenuto rinchiuso in una cella buia sin dalla nascita, poi  liberato chissà perché e chissà da chi , e si sospettava fosse stato appunto una vittima di intrighi dinastici. Disse di chiamarsi Kaspar Hauser , ma la verità sulla sua vita non è mai stata accertata anche perché a un certo punto fu ucciso per accoltellamento ( qualcuno sospettò un suicidio).

 

Nel libro di Eco il nostro Roberto deve vedersela a volte con la figura immaginaria o reale di Ferrante, il suo gemello ripudiato e allontanato, che di tanto in tanto torna a vendicarsi sul fratello facendo passare al povero Roberto un'infinità di tribolazioni, ostacolandolo nei suoi progetti e tramando contro di lui. Non si capisce fino a che punto Ferrante fosse una persona reale o una proiezione della mente di Roberto, che attribuiva all'azione premeditata dell'altro la sua sfortuna, i suoi errori, le sue incapacità, gli ostacoli che si frapponevano ai suoi progetti.

 

Questo è quanto riguarda la storia , la letteratura, la leggenda, il cinema. Ma cosa c'è di vero nel mito del gemello allontanato, tenuto nascosto o ucciso?

 

Da un punto di vista biologico, nella riproduzione umana il 98% delle gravidanze è gemellare, cioè tranne poche eccezioni da un parto dovrebbe nascere una coppia di gemelli ma noi sappiamo dall'esperienza che invece si verifica esattamente il contrario. Si pensava che a un certo punto molto precoce della gravidanza uno dei due soccombesse per cause naturali e venisse riassorbito dal corpo della madre.

Le moderne tecniche mediche hanno però rivelato un'inquietante verità su come vanno le cose.

Tramite delle microtelecamere si è potuto seguire in video le primissime fasi della gravidanza ,e succede proprio che la primitiva cellula fecondata si divide in due, e questi primitivi abbozzi di embrione se ne stanno per un po’ ognuno per conto suo , vagando nell'utero e muovendosi liberamente. Solo che puntualmente, dopo alcuni giorni, si avvicinano e cominciano una specie di danza che si trasforma presto in una lotta, uno scontro mortale. Mortale perché finisce sempre (o quasi sempre ) che uno dei due ingloba l'altro, lo mangia , in una sorta di fagocitosi da difesa immunitaria come se l'altro fosse un invasore estraneo. Poi, in tutta tranquillità, si trova un bel posticino morbido nell'endometrio e ci si aggancia, dando ufficialmente inizio alla gravidanza.

Tutto questo processo implica delle conseguenze su cui sarebbe opportuno riflettere.

 

La prima conseguenza è che ognuno di noi è, ineludibilmente, un assassino. Se io in questo momento sono qui a scrivere alla tastiera è perché sono uscita vincitrice dalla lotta con la mia gemella, io e non l'altra che è stata sconfitta e dissolta.

La seconda conseguenza consiste nel fatto che il nostro gemello ce lo siamo mangiato, l'abbiamo inglobato, assimilato, e quindi che ci piaccia o no, continua a vivere con noi e farà parte di noi per sempre.

La terza conseguenza è che il gemello mica se ne sta zitto e buono, in qualche modo si fa sentire ogni tanto e riappare nella nostra vita, magari nei sogni quando ci sembra di guardarci dal di fuori, oppure nella nostra testa, nei nostri pensieri, nelle nostre azioni stupide e scellerate, quando ci rendiamo conto troppo tardi di autosabotarci in modo del tutto idiota.

 

E' ciò che Jung definisce la nostra ombra, il nostro lato oscuro, che noi finiamo col proiettare all'esterno attribuendo i nostri sbagli ad un mondo che ci è ostile.

Certo, il nostro gemello deve essere ancora piuttosto arrabbiato per quello che gli abbiamo fatto, dopotutto gli abbiamo negato la possibilità di nascere e un legittimo  desiderio di vendetta dobbiamo riconoscerglielo.

Purtroppo temo che non ci sia rimedio a ciò che abbiamo fatto, e in ogni caso queste sono le leggi del venire al mondo…"ne resterà soltanto uno".

Tutto ciò che possiamo ragionevolmente fare è onorare la morte del nostro doppio che ci ha consentito di vivere, come quando in certe tribù primitive, dopo aver ucciso un animale per cibarsene, si celebra un rituale di ringraziamento per quella creatura che ha dato la sua vita.

E forse il modo più opportuno di farlo è di adoperarci a realizzare la migliore versione di noi stessi, per far splendere, attraverso di noi, anche la bellezza del nostro doppio, che non può essere qui in prima persona, ma ci guarda sempre, con un sorriso beffardo, dall'altra parte dello specchio.

 

 


Id: 5582 Data: 12/02/2024 22:16:06

*

Incontri con vite sconosciute

Incontri con vite sconosciute

 

Capita a  volte di pensare a quelle persone che abbiamo incontrato fugacemente nella nostra vita e  non abbiamo mai avuto la possibilità di conoscere. Magari una persona che abbiamo incrociato per strada e ci ha salutato in modi cordiali scambiandoci per qualcun altro. Una vecchietta che abbiamo visto camminare con difficoltà arrancando su dei bastoni. Un signore che era insieme a noi nella sala d'attesa del dentista e ci ha colpito per un particolare insolito, del tipo un paio d'occhiali o il modo di sfogliare una rivista.

 

Secondo me ogni volta che notiamo una persona ci deve essere un motivo preciso, forse è qualcuno con cui abbiamo una sorta di familiarità, che abbiamo già incontrato nella nostra infanzia e di cui ci siamo dimenticati, ma ha lasciato un'impronta inconscia ben impressa nella nostra memoria.

Poi ci sono degli incontri un po’ meno fugaci, come una persona con cui abbiamo condiviso un viaggio in treno parlando a lungo di qualche argomento. Un bambino con cui giocavamo a pallone nei pomeriggi di un'estate in un luogo in cui non siamo più tornati, o forse noi sì, ci siamo tornati ma lui no.

 

Una compagna di banco in seconda elementare che mi stava tanto simpatica, ma dopo un paio di mesi è sparita nel nulla perché il padre era stato trasferito per lavoro in un'altra città. Quel medico tanto buono e gentile che quando da bambina prendevo sempre" tutta l'influenza del mondo" ,veniva a visitarmi a casa e mi dava  una caramella per scusarsi di avermi dovuto infilare in bocca la paletta abbassalingua per guardare le tonsille.

 

Ci sono infine gli incontri con sconosciuti che si ripetono puntualmente, in particolari circostanze, a volte per anni. Ricordo un paio di controllori di quel treno che prendevo abitualmente quand'ero pendolare e con i quali non ho mai scambiato nemmeno una parola ma erano diventati ormai delle figure familiari.

Una zingarella  chiedeva l'elemosina davanti all'ingresso del supermercato, giovanissima, adolescente , più volte incinta, di un'insolita e profonda bellezza esotica  che , quasi tragicamente, ne faceva una splendida modella mancata, solo perché nata nel posto sbagliato da persone sbagliate.

 

Un signore magrebino vendeva fazzoletti al semaforo, alto e magro, con una postura perfetta e una singolare eleganza nei movimenti, già abbastanza avanti negli anni, sempre gentile e sorridente, quasi ossequioso, e rispondeva "sucrà " o "sucar", che immagino voglia dire grazie in arabo.

 

Una strana presenza, che mi rendeva molto curiosa e che per qualche anno incontravo ogni mattina nell'andare a scuola, era un signore sulla quarantina, calvo, occhialuto, vestito elegantemente , con in mano una borsa di pelle forse da avvocato, impiegato di banca, al limite medico.

Lo incontravo sempre in un posto preciso, in un orario preciso con un tempismo perfetto, quasi ci mettessimo d'accordo a che ora uscire di casa, che velocità di camminata tenere ecc.

 

Dunque, erano gli anni del liceo e andavo a scuola a piedi insieme alla mia compagna di banco che abitava vicino casa mia ,e lei aveva l'abitudine di entrare in una piccola chiesa situata lungo il percorso per dire mentalmente una preghierina mattutina, di quelle che dovrebbero proteggerti dalle interrogazioni per intenderci. Io non mi sentivo particolarmente ispirata da queste cose, ma, siccome camminavamo insieme la seguivo a ruota.

In inverno c'era sempre una fitta nebbia, fredda e pungente, e tutto sommato mi faceva piacere prendermi una pausa di qualche minuto al riparo dal freddo.  Si restava in fondo, in silenzio, accanto alla porta, e accadeva sempre così, che neanche trenta secondi dopo il nostro ingresso la porta si apriva e, avvolto in una nube di nebbia, appariva lui , il signore calvo e occhialuto che si toglieva il cappello e restava in silenzio a recitare la sua preghierina mentale. Forse qualche volta ci ha fatto persino un cenno di saluto col capo, non ricordo bene, o forse sono io a voler credere che sia andata così.

 

Ebbene, la cosa più singolare di questi incontri ripetuti durati alcuni anni, e  a volte anche molti anni, è che non ricordo quando sono terminati.

Cioè, a un certo punto , ma non riesco a ricordare bene quando, la zingarella non c'era più, il signore dei fazzoletti nemmeno, il treno da pendolare non ricordo l'ultima volta che l'ho preso e il signore calvo e occhialuto in un giorno indefinito è sparito nella nebbia e non s'è più visto, o più probabilmente io avevo finito il liceo e non sono più entrata in quella chiesa, o almeno, sicuramente non alle otto del mattino.

 

Di queste presenze sfuggenti  e indefinite, non ho mai saputo neanche il nome, oppure semmai qualche volta mi era stato detto, devo averlo presto dimenticato.

Tuttavia non posso fare a meno di provare una strana e frustrante nostalgia ogni volta che, per un qualsiasi motivo o senza alcun motivo, tornano ad affacciarsi nella mia mente. Posso solo ragionevolmente pensare che quello strano dolore mi deriva dalla consapevolezza di collegare quelle persone a dei periodi della mia vita ormai definitivamente trascorsi e conclusi, un inevitabile segno del passare del tempo che ci lascia spettatori attoniti e impotenti di un'esistenza diventata un po’ alla volta una scatola di ricordi  così piena e strabordante che, a breve, non saremo più in grado di aprire.


Id: 5578 Data: 02/02/2024 18:57:34