Avrei voluto essere il gene d’uomo
che cancella le bestemmie e allunga
i monconi e riempie le narici
con un buon odore. E salda i debiti
con il passato, non con l’oro. Purtroppo
per loro, non sono una fonte miracolosa.
Sono acqua al settantapercento, torva.
Limo fino ai piedi che monto a pelo.
Un rivolo pieno di batteri coprofili:
credo vizi; esalazioni, credo,
di un reagente organico; fatemorgane
dalle parole a vapore: chi glielo ha detto
di farsi gioco dei pensieri? Questa
ipotesi sulla lingua è una gratitudine
rivolta al genere fesso: il mio.
Quando ero fanciullo, o ruscello,
non come adesso che riporto resti,
c’era qualcosa che alimentava
con buona ragione un corso, un letto
di portata maggiore. Era il gene d’uomo
“che doveva essere trasmesso”
- disse il professore Lardo
che aveva letto il mio diario a tentoni.
Un diario a tamburo, caricato a salve.
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