«Capire Tozzi non è mica facile»: sono parole di Luigi Baldacci, un critico che ha dedicato a Tozzi studi stimolanti da trent’anni a questa parte. E si tratta dell’onesta constatazione di uno studioso che pure ha avuto spunti interpretativi di prim’ordine, che costituiscono quanto di meglio ha saputo produrre la critica (1). Tuttavia, se Baldacci riconosce che a tutt’oggi qualcosa non torna nell’interpretazione generale dello scrittore senese, esprime un giudizio credo perfettamente fondato e condivisibile. L’impressione è quindi quella che il «classico» forse meno letto della nostra letteratura contemporanea sia ancora in mezzo al guado. Portare Tozzi oltre il guado è un compito che Baldacci si è prefisso con studi puntuali e di eccezionale valore ermeneutico: partire da lui è un dovere, proseguire nel viaggio un accadimento naturale.
L’arcipelago Tozzi è molto vasto, fatto di isolotti (i romanzi), di barene appena emerse che si vedono a stento (le novelle) e, infine, di una vastissima zona sommersa che si intravede appena (la formazione culturale dell’autodidatta). Certo, navigare tra isolotti e barene è ameno viaggio: ma se è vero che chi fa il palombaro si stanca di più, è altrettanto vero che però, quando riemerge, porta alla superficie documenti stratigrafici che gettano molta luce sia sulla formazione degli isolotti sia delle più recenti barene. Negli ultimi decenni, come c’informa Baldacci, il Tozzi “profondo” ha visto intorno a sé parecchi di questi palombari, dal Cesarini, che ne ha indagato la biografia e persino gli autori che egli leggeva nella biblioteca degli Intronati di Siena (2), al Marchi, che ha riportato alla superficie reperti che parlano di opere che rimandano a pensatori come William James, Freud, Lombroso e tanti altri (3).
Baldacci ha ragione però di rammaricarsi che il lavoro paziente di tanti probi e seri studiosi sia avvertito da certa critica come inessenziale o accessorio, per cui Tozzi viene indagato idealisticamente, “crocianamente”, poiché, si dice, un vero scrittore deve saper «bruciare» il proprio combustibile in una nuova «sintesi poetica», tanto che il combustibile, come oggetto d’indagine, può essere brillantemente trascurato. Con Baldacci ritengo che dal cosiddetto combustibile non si possa prescindere se si vuole giungere a una critica fondata dell'opera. E ciò a maggior ragione quando si tratti di un lavoro come Bestie, a tutt'oggi soggetto a una serie piuttosto variegata di interpretazioni. Dicevamo poc'anzi che lo scavo sulle possibili fonti dell'opera di Tozzi negli anni ha conosciuto un fervore meritorio, con risultati davvero eccellenti, specie sul versante della cultura psicologica dello scrittore senese.
Sta però di fatto che Tozzi era un lettore onnivoro, addirittura «disperato», per sua stessa ammissione, per cui, nonostante i risultati positivi conseguiti, molto resta ancora in ombra. Baldacci rilevava come Debenedetti insistesse « a ripetere che Tozzi è lo scolaro inconsapevole di maestri occulti» (4), ma a me pare che nel caso di Bestie le fonti siano state volutamente e scientemente occultate. E ciò semplicemente perché, se Tozzi avesse dichiarato le fonti, ne sarebbe svanita quell'aura di accentuata «incomprensibilità» che appunto caratterizza Bestie, delle quali Tozzi non volle dare la chiave di lettura, per cui sono scaturite, nel corso degli anni, interpretazioni fortemente diversificate e contrapposte, oppure atteggiamenti di netto rifiuto, perché a taluni pareva che lo scrittore volesse quasi prendersi gioco del lettore. Prima di proseguire in una disamina della critica su Bestie, occorre in via preliminare osservare che si tratta di racconti estremamente brevi, sullo stile aforistico molto caro a Tozzi.
Il genere aforistico, proprio per suo statuto, si basa sul paradosso e sull'ambiguità, e la cosa era particolarmente congeniale a Tozzi, che, come ha rilevato Baldacci, non amava la chiarezza (5). Nel caso di Bestie, Tozzi è riuscito a creare un'opera che, almeno in apparenza, risulta estremamente criptica, e, in alcuni casi, in mancanza di una chiave di lettura, addirittura incomprensibile. Che cosa significano quelle «bestie» che appaiono all'improvviso nel racconto?, si chiedeva innervosito Gargiulo, che, non riuscendo a darvi un senso, stroncò l'opera senza tanti complimenti (6). Gargiulo però fu un po' troppo sbrigativo, e tra l'altro non tenne nel debito conto il fatto che il genere aforistico predilige non solo il paradosso, ma possiede anche «caratteristiche di immediatezza, di brusca illuminazione», rifuggendo «da ogni forma di chiusura e di prevedibilità, preferendo stupire il lettore» (7).
V. Cerami, sulla scorta di un'intuizione, in linea di massima condivisibile, afferma che v'è una sorta di identificazione tra Tozzi e le sue «bestie», per cui egli sarebbe, di volta in volta, ognuna di esse («Tozzi è di volta in volta gli animali che alla fine compaiono») (8). La chiave di lettura di Cerami è senz'altro da meditare, ed è sicuramente pertinente, però non va applicata sempre in modo automatico, altrimenti si rischia di arrivare a conclusioni talvolta incongrue rispetto al testo. In realtà, affermare perentoriamente che in «tutti» gli animali di Bestie sia da intravedere la persona di Tozzi è una forzatura perché egli, come vedremo, parla di molti animali, in alcuni dei quali però non si riconosce affatto, semplicemente perché rappresentano «altri individui», con caratteri lontani dal suo modo di essere. La cosa è trasparente, per esempio, nel caso del breve aforisma sulla vipera, che per definizione è «velenosa». Qui Tozzi, attraverso l’animale, vuole dire che al mondo ci sono esseri «velenosi», con la lingua di una vipera: «So che una vipera ha morso uno che m’odia. Pari e patta» (9).
Verso le vipere dalla lingua velenosa Tozzi prende le distanze; si nota, anche in altri contesti, che non v’è con l’animale alcuna forma di immedesimazione: «E, s’io fossi un ragazzo, vorrei chiedere a Dio che questa fresca erba bella la lasciassero in pace… Farei diventar buone anche le vipere»(10). Asserire pertanto, come fa Cerami, che vi è «assoluta identificazione» tra Tozzi e «tutti» gli animali presenti nei racconti è sicuramente fuorviante (11). In genere, l'orientamento degli studiosi e dei ricercatori delle fonti della cultura di Tozzi si è indirizzato essenzialmente verso scienziati (Darwin) o verso specialisti di psicologia, trascurando i pensatori classici, che, tutto sommato e a modo loro, sono pur sempre degli psicologi. Dicevamo della passione di Tozzi per l'aforisma. Che lo scrittore senese, nelle sue letture «sterminate» sia incappato in La Rochefocauld è non solo probabile, ma nel caso nostro anche pro-v-abile. Macchia osservava con sottile umorismo che le massime di La Rochefocauld si potevano leggere non solo sulle ponderose edizioni di fine Ottocento o dei primi del Novecento, ma persino sulle cartine che avvolgevano i «Cioccolatini Perugina» (12). Aggiungo che, nel caso specifico, Tozzi, oltre probabilmente a essersi gustato le dette massime in tutti i sensi, poteva leggersi tranquillamente La Rochefoucald alla Biblioteca degli Intronati, in un’edizione francese del 1853, a cura di George Duplessis (13).
Per di più è stato sottolineato che nel caso di Tozzi, più che di aforismi bisognerebbe parlare di «riflessioni» (14), in cui, guarda caso, La Rochefocauld era un vero maestro. C'è poi un altro fatto importante. La Rochefocauld in una delle sue «Riflessioni», lavorando da grande psicologo, passava in rassegna una quantità indefinita di animali, ognuno dei quali era portatore di un particolare carattere umano (15). Se La Rochefocauld guarda agli animali, scrive Macchia, «tutta l'umanità sembra investita da un soffio di animalità. Ma il freddo istinto dell'osservatore ha il sopravvento. Come un professore di storia naturale egli propone corrispondenze, parallelismi tra le nostre specie e quella degli altri animali» (16). La Rochefocauld è un filosofo e uno psicologo («proprio la psicologia, questa scienza ondeggiante e sfuggente, osserva Macchia, egli intende sottoporre alla certezza della conoscenza, come si fa con le piante e con le ricette farmaceutiche») (17); e la cosa non poteva essere indifferente a uno scrittore come Tozzi, che amava la scienza, si interessava di psicologia, voleva studiare scientificamente il carattere dell'uomo. E poi non poteva essere sfuggito allo scrittore senese quell'articolo di Papini sul Leonardo, in cui La Rochefocauld era stato definito un «terapeuta» (18).
Nei 68 racconti di Bestie, i 28 animali (alcuni sono citati più di una volta) di Tozzi sono tutti presenti in La Rochefocauld, e quelli che lo scrittore francese non nomina direttamente, vengono però suggeriti da caratteristiche precise, tali da essere facilmente individuati da Tozzi in virtù della sua cultura popolare di fondo. Tozzi possedeva infatti una «cultura contadina» di prim'ordine, come dimostrano i suoi precisi passaggi naturalistici sulla campagna senese e la sua altrettanto puntuale conoscenza dei caratteri degli animali che egli era solito incontrare nella campagna senese. Quanto poi al dato, così tormentato dalla critica, dell' «improvvisa comparsa» degli animali in scena, senza un' apparente motivazione logica, occorre ricordare un fatto essenziale, che spiega altresì la passione di Tozzi per gli studi psicologici, ossia che lo scrittore senese era un grumo di complessi, dotato di una memoria involontaria formidabile, che era un po’ la sua dannazione. A proposito della memoria di Tozzi, Giacomo Debenedetti scriveva: «… Anche il biografo Borgese aveva notato, aneddoticamente, questa memoria inesauribile, patologica del Tozzi: «Tutto quello che vedeva e sentiva lo pagava. Perciò si ricordava di tutto: quasi che ogni sensazione gli fosse rimasta infissa come un chiodo nella carne viva…» (19).
E' evidente che in determinati contesti, egli era come assalito all'improvviso da ricordi di persone conosciute: uomini e donne che venivano, nei racconti, opportunamente occultati attraverso il ricorso all'animalizzazione. Oppure, per converso, l'incontro improvviso con un determinato animale faceva scattare nella mente dello scrittore un parallelismo tra esso e un particolare tipo umano, che spesso coincideva con la sua stessa persona, facendogli così scaturire nell'animo sensazioni talora sgradevoli, ma a volte estremamente rilassanti e gradevolissime. Nello stabilire il rapporto uomo-animale la mente di Tozzi si muoveva su un retroterra culturale «doppio»: uno che gli derivava dalle sue radici contadine, permeate di conoscenze antichissime legate alle leggende tramandate dal folklore, e l’altro dalle sue conoscenze, diciamo così, «dotte», frutto delle inesauribili e inesauste letture sui classici della letteratura. Ma è proprio sul primo versante quello folklorico che si può alla fine intendere la scaturigine prima della composizione di Bestie: Tozzi è un contadino, e come studioso di Lombroso, egli sapeva bene cosa questi pensasse del rapporto esistente tra contadini e animali.
La stessa violenza che Tozzi vedeva nel padre e che sentiva presente anche in sé aveva, secondo gli studi lombrosiani sull’«Uomo delinquente» (20), matrici ataviche legate proprio agli animali: l’«aggressività contadina considerata [da Lombroso] di natura animalesca è il senso misto di timore e di venerazione che il contadino ha per gli animali» (21). E’ pertanto basandosi sia sulla cultura popolare sia sulla tradizione letteraria che si può tentare di dare un senso all'arcana comparsa di animali in contesti che sembrerebbero, almeno a prima vista, sfuggire a una qualsivoglia razionalizzazione. Che poi vi sia identificazione, secondo l'indicazione di Cerami, è possibile, e anzi accade spesso, però è anche necessario che l’ explanatio colga il significato profondo del messaggio: di qui la necessità di far riferimento anche a fonti peregrine, come quelle medievali, per esempio, che riconducono ad una letteratura che Tozzi, per gli studi appassionati sui «primitivi», conosceva molto bene. Cominciamo la nostra disamina dal terzo racconto, seguendo l'edizione di Cerami, poiché Tozzi non numerava mai i capitoli dei romanzi o delle novelle. In questo racconto egli dice che da bambino il padre, sottolineo il termine perché è fondamentale per la comprensione dell'apparizione ultima dell'animale, non gli comprava mai libri, con la scusa che leggere sciupava gli occhi.
Chi fosse il padre di Tozzi, lo sanno tutti: violentissimo con moglie e figlio, taccagno oltre ogni dire e gran lavoratore, tanto da riuscire a comprarsi un podere. Alla fine del racconto ecco l'apparizione di un animale, un orso, alla vista del quale Tozzi si sente scuotere e smuovere tutto (22). Tutto il contesto dice che attraverso l'orso Tozzi vedeva suo padre. Alcuni uomini, osserva freddamente La Rochefoucauld, sono «come orsi, grossolani e avidi» (23): il ritratto del padre di Tozzi. Che poi, secondo l'interpretazione di Cerami, possa venir adombrata anche un'identificazione di Federigo con l'orso, è possibile, perché, a ben guardare, Tozzi notava spesso di assomigliare “anche troppo” al padre, non solo nel fisico, ma anche nel carattere, a volte violento. Cerami, inoltre, nell’explanatio, vede nell'orso essenzialmente una certa «lentezza» (24), la stessa lentezza e pigrizia di cui era portatore Federigo. L'interpretazione è però incongrua rispetto al testo, essendo la lentezza un elemento accessorio e non focale nel racconto, perché essa non può far sì che Federigo, alla vista dell'orso, si senta scuotere tutto dentro come percorso da un sommovimento tellurico. Tozzi, di fronte all'orso, è letteralmente terrorizzato, com'era atterrito di fronte al padre, che gli sembrava l'uomo più potente della terra, a cui tutti dovevano obbedire.
Il quarto racconto è più lungo rispetto agli altri, e vi compaiono vari personaggi. La prima apparizione di un animale avviene a proposito di una donna, « la moglie di un pizzicagnolo, e tutti i pomeriggi il vicecurato della nostra parrocchia saliva da lei: ne sparlavano, ma non ci credo. Era pallida e con un collo così gonfio che mi faceva pensare a quello di un'anatra, quando ha il gozzo pieno» (25). Si tratta quindi di una donna che, secondo i soliti malevoli, tradisce il coniuge. E infatti, a proposito delle «anatre domestiche», La Rochefaucauld osserva lapidario: «quante anatre domestiche tradiscono i loro simili e li attirano nelle reti» (26). L'apparizione improvvisa, quella veramente straniante, avviene però alla fine del racconto, quando Federigo, distrattamente, per guardare una prostituta, va a sbattere il naso contro la gabbia di un merlo. L'ipotesi più valida sembra anche qui quella dell'identificazione. La Rochefaucauld nella «Riflessione» sugli animali non parla apertamente di merli, ma di «uccelli che si raccomandano soltanto per il canto e per i colori» (27).
Sostanzialmente inutili, a se stessi e alla specie, come insegnava Darwin, come nel caso del «canettaccio bastardo», di cui parleremo fra poco. Nel racconto del merlo è forse la cultura contadina che ci offre maggiori strumenti ermeneutici. Il merlo, infatti, è considerato nella cultura popolare «quasi un cantante», e veniva catturato e messo in gabbia proprio per tale ragione. Ma il merlo non è soltanto un uccello canterino: sia le tradizioni popolari sia la letteratura scientifica ci assicurano che egli è considerato un animale estremamente abile nel cacciare i vermi e, soprattutto, molto furbo, anche se «… malgrado sia scaltro cade spesso vittima dei cacciatori, che durante l’inverno lo sorprendono dei frutti dell’ellera» (28). Ora, è forse su questo secondo aspetto che occorre soffermarsi. Tozzi va a sbattere, per guardare la prostituta, contro la gabbia di un merlo. L'evento potrebbe ironicamente significare: «Guarda quanto sei furbo! Sei proprio come un merlo, che si crede tanto astuto e che però è finito prigioniero dentro una gabbia». Tozzi si sentiva effettivamente a Siena come un prigioniero. « La mia anima è cresciuta nella silenziosa ombra di Siena, in disparte, senza amicizie… E così, molte volte, escivo (sic) solo, di notte, scansando anche i lampioni… La tristezza stava sopra la mia anima come una pietra sepolcrale, sempre più breve; e mi sentivo schiacciato su una sedia. E avrei voluto morire» (29).
Il sesto racconto è brevissimo, e narra la storia di due poveri esseri, lui tisico, lei brutta, con qualche bitorzolo in faccia, che si sono conosciuti in una birreria, in un contesto un po’ squallido: tavolini di pietra, sgabelli in ferro verniciato, «orchestrina stonata». I due alla fine si sposano. Lei va per strada «seguita da un canettaccio bastardo, e rattrappito, che dopo ogni trenta metri s'arresta per non cadere» (30). La Rochefocauld asserisce che molti uomini «assomigliano ai cani»: alcuni vanno a caccia, altri custodiscono la casa, altri ancora come i levrieri fanno esibizione di coraggio. Ci sono però, conclude L., «dei cani più o meno inutili, che abbaiano spesso e mordono di tanto in tanto » (31). Il contesto suggerisce l'idea che quei due poveracci, uno tisico e l'altra bruttissima, siano inutili, come quel cane bastardo, malfermo sulle gambe, che segue la padrona. Anche qui è possibile una sorta di identificazione con l'autore, che spesso, gravato da mille angustie esistenziali irrisolvibili, si sentiva appunto inutile, come quel cane, darwinianamente inadatto alla vita. L'ipotesi interpretativa suggerita da Cerami è però alquanto riduttiva, in quanto egli vede sì in quel cane spelacchiato la proiezione di Tozzi, ma banalizza un po’, perché lo scrittore è interpretato come un cane «spelacchiato e rattrappito», che corre dietro inutilmente «alla sua innamorata»: «E quel “canettaccio bastardo” della fine è Tozzi stesso, spelacchiato e rattrappito, dietro alla sua innamorata che si è sposata con un altro» (32).
Sostanziale concordia tra fonte dotta e tradizione popolare si ha nel racconto dei rospi. Si racconta del Migliorini, contadino tutto sommato «di cultura», in quanto avido lettore dell' Orlando e della Gerusalemme, che insegnava agli altri contadini a uccidere i rospi. Lo scrittore fu presente durante una «lezione», ma si sentì impotente «a farli smettere». Poi, una notte fredda, tornando a casa per una stradina di campagna, sentì le voci dei rospi che lo consolavano, e si ricordò dei modi crudeli con cui i contadini li uccidevano, concludendo con una riflessione: «Questi sono i rospi che ho visto morire, silenziosi, con quei loro occhi che di notte luccicano» (33). La Rochefoucauld, riguardo ai rospi osserva semplicemente che “fanno orrore”. Nelle tradizioni popolari si rileva che il rospo è molto velenoso, puzzolente e tossico.(34) Anche la scienza offre spunti interessanti di riflessione.
Il rospo «…in marzo-aprile, durante la fregola, si reca nell’acqua ed è facilissimo trovarlo, talora in stuoli enormi, nelle pozze, negli acquitrini, nei fossati, nei torrenti, ove le femmine depongono cordoni di uova lunghi alcuni metri; nelle altre epoche dell’anno è difficile incontrarlo, poiché conduce vita solitaria e quasi esclusivamente notturna…» (35). Che il gioco dell'identificazione si attagli perfettamente a Tozzi è certo: anch'egli doveva sentirsi molto «rospo», e molto emarginato nella società senese, di cui mal sopportava molte componenti, per cui, come si è già visto, camminava per Siena evitando accuratamente il Corso principale, andando a casa per vie secondarie. A Siena non contava un solo amico: «La mia anima è cresciuta nella silenziosa ombra di Siena, in disparte, senza amicizie... E così, molte volte escivo (sic) solo, di notte, scansando anche i lampioni» (36). Tozzi si sentiva un brutto rospo. A una fonte medievale e peregrina sembra rifarsi l'unico racconto che presenta un animale favoloso, il liocorno o unicorno.
Narra Tozzi, in un'atmosfera fiabesca, un sogno che coltivava da bambino, ovvero di far suo «il violoncello che udiv[a] tra gli alberi del bosco», per «suonarlo i giorni di festa della [sua] anima; ammaestrando un liocorno, color di carta bianca, che prendere[bbe] da qualche favola vecchia» (37). L'effetto è di forte straniamento, e il lettore si chiede la funzione del liocorno. La leggenda del liocorno è antichissima ed è narrata nel Fisiologo in questi termini: «L'unicorno [liocorno] ha questa natura: è un piccolo animale, simile al capretto, ma ferocissimo...” (Il Fisiologo, a c. di F. Zambon, Milano, Adelphi, 1982, pp. 60-61[10]). Di qui si spiega progetto di «ammaestrarlo» di Tozzi. L'unicorno, prosegue il Fisiologo, «è un'immagine del Salvatore», ovvero «figura Christi», venuto sulla terra per redimere l'umanità. E' questa forse la funzione che il Tozzi bambino e sognatore assegnava a se stesso, quella cioè di fare cose grandi, addirittura ammansire la ferocia del liocorno e portare la pace universale sulla terra. L'identificazione di Tozzi con l'animale fantastico, simbolo di Cristo, portatore di salvezza per l'umanità è estremamente probabile.
Note
1) Cfr. i saggi contenuti in L. Baldacci, Tozzi moderno, Torino, Einaudi, PBE, 1993. L’espressione « non è mica facile capire Tozzi» è a p. 75.
2) P. Cesarini, Tutti gli anni di Tozzi, Montepulciano, Ediz. Del Grifo, 1982. Per una informazione generale, anche sulle letture di Tozzi alla Biblioteca degli Intronati, ottimo resta il volume di C. Carabba, Federigo Tozzi, Firenze, La Nuova Italia,Il Castoro, 1972, in particolare le pp. 16-17.
3) Cfr. M. Marchi, Il padre di Tozzi, in Antologia Viesseux, 1984 e La cultura psicologica di Tozzi, in Paragone, 1985. Lo stesso Marchi ha poi curato anche un’ediz. di Bestie, in Opere, Milano, Mondatori, 1987. Cfr. altresì i più recenti interventi del Marchi sugli studi di psicologia di Tozzi; M. Marchi, Federigo Tozzi. Ipotesi e letture, Genova, Marietti, 1993. Sulla simbologia delle Barche capovolte, M. Marchi, Vita scritta di Federigo Tozzi, Firenze, Le Lettere, 1997, p. 29. Sullo stesso tema cfr. anche l’intervento di R. Luperini, Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere, Bari, Laterza, 1995, p.107. Su Bestie si segnala anche A. Benevento, Saggi su Federico Tozzi, Napoli, Guida, 1996. Per un’ampia bibliografia sino agli anni ’90 cfr. Storia della Letteratura italiana, Il Novecento, a c. di G. Luti, Piccin, 1991, pp. 395 sgg.
4) L. Baldacci, Tozzi moderno, cit., p. 92.
5) L. Baldacci, Tozzi moderno, cit., p.110.
6) A. Gargiulo, Federigo Tozzi, in Letteratura italiana del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1940, pp. 81-88. Di fronte a certe oscurità Gargiulo sbottava:«… E che significa?...E’ la caduta nell’assurdo…».
7) M.T.Biasion, La Massima o il «Saper dire», Palermo, Sellerio, 1990, p. 31.
8) F. Tozzi, Bestie, Introduzione a c. di V. Cerami, Roma-Napoli, Ediz. Theoria,1987, p. 8.
9) Ivi, p. 104.
10) Ivi, p. 129. Dubbi circa la posizione di Cerami esprime anche B. Bonfiglioli in Gli animali in Bestie, in Clessidra, n. 11-12, Gennaio 1997, pp. 68-71. «Quanto notato da Cerami può essere vero in parte, ma non in modo così semplicistico, solo per quanto riguarda alcuni brani della raccolta» (p. 74, n.6).
11) Ivi, p. 8.
12) F. De Larochefoucauld, Massime, traduz. di G. Bugliolo, Introduz. A c. di G. Macchia, Milano, BIT, 1996, p. 5.
13) Cfr. il Catalogo dei libri posseduti dalla Biblioteca degli Intronati di Siena. Reflexions, sentences et maximes morales de La Rochefoucauld, Nouvelle edition par George Duplessis avec une Preface par C. De Sainte Beuve de l’Académie français, Paris, Chez P. Jannet Libraire, 1853.
14) Sull’argomento cfr. G. Ruozzi, Forme brevi. Pensieri, Massime e aforismi nel Novecento italiano, Pisa, Editrice Libreria Goliardica, 1992, pp. 42-45.
15) F. De La Rochefoucauld, Massime, cit., pp. 233-237.
16) G. Macchia, Introduzione, cit., p.8.
17) Ivi, p. 8.
18) Cfr. La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste, «Leonardo» «Hermes» «Il Regno», voll.I-II, a c. di D. Castelnuovo Frigessi, Torino, Einaudi, 1977. Per il cenno di Papini a L. «terapeuta», V. vol. I., p. 159. Con Papini Tozzi era entrato in contatto attraverso Giuliotti; cfr. A. Ciampani, La presenza culturale dei cattolici: attorno a Giuliotti e Papini, in Studium, n. 5, Roma, sett.-ottobre 1990, pp. 707-708 e n. 1.
19) G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1980, p.160.
20) L. Baldacci, Con gli occhi chiusi, in Tozzi moderno, cit., p. 41: «…Che c’entrasse di mezzo il Lombroso lo sospettò la stessa Emma annotando una lettera di Novale… Oggi, sulla base delle ricerche fatte dal Cesarini,… sappiamo che Tozzi aveva letto L’Uomo delinquente…”.
21) Cfr. G.B. Bronzini, Cultura contadina e idea meridionalistica, Ediz. Dedalo, 1982, p. 105.
22) Cerami,cit.p.235
23) F.de L., Massime, cit., p. 235.
24) V. Cerami, Introduzione, cit., pp. 10. “Nella storia dell’orso, il protagonista ha i movimenti pigri e pesanti della bestia, la stessa lentezza”.
25) Cerami, cit., p. 25.
26) F.de L., Massime, cit., p. 235.
27) Ivi, p. 235.
28) La fauna, I passeriformi, in Conosci l’Italia, Milano, Touring Club Italiano, vol. III, p. 118. Il termine ha un significato doppio, poiché può significare sia «uomo astuto» sia «ingenuo». Nel Vocabolario dell’uso toscano di P. Fanfani (Firenze, Barbera, 1863) si legge: “ Che merlo, si dice per significare che altri è un furbo”.
29) Cerami,cit., p. 27.
30) Cerami, cit. pp. 30-31.
31) F.de L., Massime, cit., p. 235.
32) V. Cerami, Introduzione, p. 10.
33) Cerami, pp. 39-43.
34) F.de L., Massime, cit., p. 235. Nelle tradizioni popolari sia italiane sia straniere il rospo è assimilato a elementi negativi e fastidiosi, per cui è da evitare. Cfr. S. Barillari, Motti, arguzie, facezie, Moltemi, 2000, p. 89. L. Di Michele, La politica e la poetica del mostruoso nella cultura e nella letteratura inglese e americana, Napoli, Liguori, 2002, p. 11.
35) La fauna, I rospi e altri anuri, in Conosci l’Italia, cit., p. 105.
36) Cerami,cit.,p.27
37) Cerami,cit.,pp.125-126.
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