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Raccolta di saggi di Enzo Sardellaro
[ LaRecherche.it ]

I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.

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- Letteratura

Bestie tra la Rochefocauld e il fisiologo

«Capire Tozzi non è mica facile»: sono parole di Luigi Baldacci, un critico che ha dedicato a Tozzi studi stimolanti da trent’anni a questa parte. E si tratta dell’onesta constatazione di uno studioso che pure ha avuto spunti interpretativi di prim’ordine, che costituiscono quanto di meglio ha saputo produrre la critica (1). Tuttavia, se Baldacci riconosce che a tutt’oggi qualcosa non torna nell’interpretazione generale dello scrittore senese, esprime un giudizio credo perfettamente fondato e condivisibile. L’impressione è quindi quella che il «classico» forse meno letto della nostra letteratura contemporanea sia ancora in mezzo al guado. Portare Tozzi oltre il guado è un compito che Baldacci si è prefisso con studi puntuali e di eccezionale valore ermeneutico: partire da lui è un dovere, proseguire nel viaggio un accadimento naturale.

 

L’arcipelago Tozzi è molto vasto, fatto di isolotti (i romanzi), di barene appena emerse che si vedono a stento (le novelle) e, infine, di una vastissima zona sommersa che si intravede appena (la formazione culturale dell’autodidatta). Certo, navigare tra isolotti e barene è ameno viaggio: ma se è vero che chi fa il palombaro si stanca di più, è altrettanto vero che però, quando riemerge, porta alla superficie documenti stratigrafici che gettano molta luce sia sulla formazione degli isolotti sia delle più recenti barene. Negli ultimi decenni, come c’informa Baldacci, il Tozzi “profondo” ha visto intorno a sé parecchi di questi palombari, dal Cesarini, che ne ha indagato la biografia e persino gli autori che egli leggeva nella biblioteca degli Intronati di Siena  (2), al Marchi, che ha riportato alla superficie reperti che parlano di opere che rimandano a pensatori come William James, Freud, Lombroso e tanti altri (3).

 

 Baldacci ha ragione però di rammaricarsi che il lavoro paziente di tanti probi e seri studiosi sia avvertito da certa critica come inessenziale o accessorio, per cui Tozzi viene indagato idealisticamente, “crocianamente”, poiché, si dice, un vero scrittore deve saper «bruciare» il proprio combustibile in una nuova «sintesi poetica», tanto che il combustibile, come oggetto d’indagine, può essere brillantemente trascurato. Con Baldacci ritengo che dal cosiddetto combustibile non si possa prescindere se si vuole giungere a una critica fondata dell'opera. E ciò a maggior ragione quando si tratti di un lavoro come Bestie, a tutt'oggi soggetto a una serie piuttosto variegata di interpretazioni. Dicevamo poc'anzi che lo scavo sulle possibili fonti dell'opera di Tozzi negli anni ha conosciuto un fervore meritorio, con risultati davvero eccellenti, specie sul versante della cultura psicologica dello scrittore senese.

 

Sta però di fatto che Tozzi era un lettore onnivoro, addirittura «disperato», per sua stessa ammissione, per cui, nonostante i risultati positivi conseguiti, molto resta ancora in ombra. Baldacci rilevava come Debenedetti insistesse « a ripetere che Tozzi è lo scolaro inconsapevole di maestri occulti» (4), ma a me pare che nel caso di Bestie le fonti siano state volutamente e scientemente occultate. E ciò semplicemente perché, se Tozzi avesse dichiarato le fonti, ne sarebbe svanita quell'aura di accentuata «incomprensibilità» che appunto caratterizza Bestie, delle quali Tozzi non volle dare la chiave di lettura, per cui sono scaturite, nel corso degli anni, interpretazioni fortemente diversificate e contrapposte, oppure atteggiamenti di netto rifiuto, perché a taluni pareva che lo scrittore volesse quasi prendersi gioco del lettore. Prima di proseguire in una disamina della critica su Bestie, occorre in via preliminare osservare che si tratta di racconti estremamente brevi, sullo stile aforistico molto caro a Tozzi.

 

Il genere aforistico, proprio per suo statuto, si basa sul paradosso e sull'ambiguità, e la cosa era particolarmente congeniale a Tozzi, che, come ha rilevato Baldacci, non amava la chiarezza (5). Nel caso di Bestie,  Tozzi è riuscito a creare un'opera che, almeno in apparenza, risulta estremamente criptica, e, in alcuni casi, in mancanza di una chiave di lettura, addirittura incomprensibile. Che cosa significano quelle «bestie» che appaiono all'improvviso nel racconto?, si chiedeva innervosito Gargiulo, che, non riuscendo a darvi un senso, stroncò l'opera senza tanti complimenti  (6). Gargiulo però fu un po' troppo sbrigativo, e tra l'altro non tenne nel debito conto il fatto che il genere aforistico predilige non solo il paradosso, ma possiede anche «caratteristiche di immediatezza, di brusca illuminazione», rifuggendo «da ogni forma di chiusura e di prevedibilità, preferendo stupire il lettore» (7).

 

V. Cerami, sulla scorta di un'intuizione, in linea di massima condivisibile, afferma che v'è una sorta di identificazione tra Tozzi e le sue «bestie», per cui egli sarebbe, di volta in volta, ognuna di esse («Tozzi è di volta in volta gli animali che alla fine compaiono») (8). La chiave di lettura di Cerami è senz'altro da meditare, ed è sicuramente pertinente, però non va applicata sempre in modo automatico, altrimenti si rischia di arrivare a conclusioni talvolta incongrue rispetto al testo. In realtà, affermare perentoriamente che in «tutti» gli animali di Bestie sia da intravedere la persona di Tozzi è una forzatura perché egli, come vedremo, parla di molti animali, in alcuni dei quali però non si riconosce affatto, semplicemente perché rappresentano «altri individui», con caratteri lontani dal suo modo di essere. La cosa è trasparente, per esempio, nel caso del breve aforisma sulla vipera, che per definizione è «velenosa». Qui Tozzi, attraverso l’animale, vuole dire che al mondo ci sono esseri «velenosi», con la lingua di una vipera: «So che una vipera ha morso uno che m’odia. Pari e patta» (9).

 

Verso le vipere dalla lingua velenosa Tozzi prende le distanze; si nota, anche in altri contesti, che non v’è con l’animale alcuna forma di immedesimazione: «E, s’io fossi un ragazzo, vorrei chiedere a Dio che questa fresca erba bella la lasciassero in pace… Farei diventar buone anche le vipere»(10). Asserire pertanto, come fa Cerami, che vi è «assoluta identificazione» tra Tozzi e «tutti» gli animali presenti nei racconti è sicuramente fuorviante  (11). In genere, l'orientamento degli studiosi e dei ricercatori delle fonti della cultura di Tozzi si è indirizzato essenzialmente verso scienziati (Darwin) o verso specialisti di psicologia, trascurando i pensatori classici, che, tutto sommato e a modo loro, sono pur sempre degli psicologi. Dicevamo della passione di Tozzi per l'aforisma. Che lo scrittore senese, nelle sue letture «sterminate» sia incappato in La Rochefocauld è non solo probabile, ma nel caso nostro anche pro-v-abile. Macchia osservava con sottile umorismo che le massime di La Rochefocauld si potevano leggere non solo sulle ponderose edizioni di fine Ottocento o dei primi del Novecento, ma persino sulle cartine che avvolgevano i «Cioccolatini Perugina» (12). Aggiungo che, nel caso specifico, Tozzi, oltre probabilmente a essersi gustato le dette massime in tutti i sensi, poteva leggersi tranquillamente La Rochefoucald alla Biblioteca degli Intronati, in un’edizione francese del 1853, a cura di George Duplessis  (13).

 

Per di più è stato sottolineato che nel caso di Tozzi, più che di aforismi bisognerebbe parlare di «riflessioni» (14), in cui, guarda caso, La Rochefocauld era un vero maestro. C'è poi un altro fatto importante. La Rochefocauld in una delle sue «Riflessioni», lavorando da grande psicologo, passava in rassegna una quantità indefinita di animali, ognuno dei quali era portatore di un particolare carattere umano (15). Se La Rochefocauld guarda agli animali, scrive Macchia, «tutta l'umanità sembra investita da un soffio di animalità. Ma il freddo istinto dell'osservatore ha il sopravvento. Come un professore di storia naturale egli propone corrispondenze, parallelismi tra le nostre specie e quella degli altri animali» (16). La Rochefocauld è un filosofo e uno psicologo («proprio la psicologia, questa scienza ondeggiante e sfuggente, osserva Macchia, egli intende sottoporre alla certezza della conoscenza, come si fa con le piante e con le ricette farmaceutiche») (17); e la cosa non poteva essere indifferente a uno scrittore come Tozzi, che amava la scienza, si interessava di psicologia, voleva studiare scientificamente il carattere dell'uomo. E poi non poteva essere sfuggito allo scrittore senese quell'articolo di Papini sul Leonardo, in cui La Rochefocauld era stato definito un «terapeuta» (18).

 

Nei  68 racconti di Bestie, i 28 animali (alcuni sono citati più di una volta) di Tozzi sono tutti presenti in La Rochefocauld, e quelli che lo scrittore francese non nomina direttamente, vengono però suggeriti da caratteristiche precise, tali da essere facilmente individuati da Tozzi in virtù della sua cultura popolare di fondo. Tozzi possedeva infatti una «cultura contadina» di prim'ordine, come dimostrano i suoi precisi passaggi naturalistici sulla campagna senese e la sua altrettanto puntuale conoscenza dei caratteri degli animali che egli era solito incontrare nella campagna senese. Quanto poi al dato, così tormentato dalla critica, dell' «improvvisa comparsa» degli animali in scena, senza un' apparente motivazione logica, occorre ricordare un fatto essenziale, che spiega altresì la passione di Tozzi per gli studi psicologici, ossia che lo scrittore senese era un grumo di complessi, dotato di una memoria involontaria formidabile, che era un po’ la sua dannazione. A proposito della memoria di Tozzi, Giacomo Debenedetti scriveva: «… Anche il biografo Borgese aveva notato, aneddoticamente, questa memoria inesauribile, patologica del Tozzi: «Tutto quello che vedeva e sentiva lo pagava. Perciò si ricordava di tutto: quasi che ogni sensazione gli fosse rimasta infissa come un chiodo nella carne viva…» (19).

 

E' evidente che in determinati contesti, egli era come assalito all'improvviso da ricordi di persone conosciute: uomini e donne che venivano, nei racconti, opportunamente occultati attraverso il ricorso all'animalizzazione. Oppure, per converso, l'incontro improvviso con un determinato animale faceva scattare nella mente dello scrittore un parallelismo tra esso e un particolare tipo umano, che spesso coincideva con la sua stessa persona, facendogli così scaturire nell'animo sensazioni talora sgradevoli, ma a volte estremamente rilassanti e gradevolissime. Nello stabilire il rapporto uomo-animale la mente di Tozzi si muoveva su un retroterra culturale «doppio»: uno che gli derivava dalle sue radici contadine, permeate di conoscenze antichissime legate alle leggende tramandate dal folklore, e l’altro dalle sue conoscenze, diciamo così, «dotte», frutto delle inesauribili e inesauste letture sui classici della letteratura. Ma è proprio sul primo versante quello folklorico che si può alla fine intendere la scaturigine prima della composizione di Bestie: Tozzi è un contadino, e come studioso di Lombroso, egli sapeva bene cosa questi pensasse del rapporto esistente tra contadini e animali.

 

La stessa violenza che Tozzi vedeva nel padre e che sentiva presente anche in sé aveva, secondo gli studi lombrosiani sull’«Uomo delinquente» (20), matrici ataviche legate proprio agli animali: l’«aggressività contadina considerata [da Lombroso] di natura animalesca è il senso misto di timore e di venerazione che il contadino ha per gli animali» (21). E’ pertanto basandosi sia sulla cultura popolare sia sulla tradizione letteraria che si può tentare di dare un senso all'arcana comparsa di animali in contesti che sembrerebbero, almeno a prima vista, sfuggire a una qualsivoglia razionalizzazione. Che poi vi sia identificazione, secondo l'indicazione di Cerami, è possibile, e anzi accade spesso, però è anche necessario che l’ explanatio  colga il significato profondo del messaggio: di qui la necessità di far riferimento anche a fonti peregrine, come quelle medievali, per esempio, che riconducono ad una letteratura che Tozzi, per gli studi appassionati sui «primitivi», conosceva molto bene. Cominciamo la nostra disamina dal terzo racconto, seguendo l'edizione di Cerami, poiché Tozzi non numerava mai i capitoli dei romanzi o delle novelle. In questo racconto egli dice che da bambino il padre, sottolineo il termine perché è fondamentale per la comprensione dell'apparizione ultima dell'animale, non gli comprava mai libri, con la scusa che leggere sciupava gli occhi.

 

Chi fosse il padre di Tozzi, lo sanno tutti: violentissimo con moglie e figlio, taccagno oltre ogni dire e gran lavoratore, tanto da riuscire a comprarsi un podere. Alla fine del racconto ecco l'apparizione di un animale, un orso, alla vista del quale Tozzi si sente scuotere e smuovere tutto (22). Tutto il contesto dice che attraverso l'orso Tozzi vedeva suo padre. Alcuni uomini, osserva freddamente La Rochefoucauld, sono «come orsi, grossolani e avidi» (23): il ritratto del padre di Tozzi. Che poi, secondo l'interpretazione di Cerami, possa venir adombrata anche un'identificazione di Federigo con l'orso, è  possibile, perché, a ben guardare, Tozzi notava spesso di assomigliare “anche troppo” al padre, non solo nel fisico, ma anche nel carattere, a volte violento. Cerami, inoltre, nell’explanatio, vede nell'orso essenzialmente una certa «lentezza» (24), la stessa lentezza e pigrizia di cui era portatore Federigo. L'interpretazione è però incongrua rispetto al testo, essendo la lentezza un elemento accessorio e non focale nel racconto, perché essa non può far sì che Federigo, alla vista dell'orso, si senta scuotere tutto dentro come percorso da un sommovimento tellurico. Tozzi, di fronte all'orso, è letteralmente terrorizzato, com'era atterrito di fronte al padre, che gli sembrava l'uomo più potente della terra, a cui tutti dovevano obbedire.

 

Il quarto racconto è più lungo rispetto agli altri, e vi compaiono vari personaggi. La prima apparizione di un animale avviene a proposito di una donna, « la moglie di un pizzicagnolo, e tutti i pomeriggi il vicecurato della nostra parrocchia saliva da lei: ne sparlavano, ma non ci credo. Era pallida e con un collo così gonfio che mi faceva pensare a quello di un'anatra, quando ha il gozzo pieno» (25). Si tratta quindi di una donna che, secondo i soliti malevoli, tradisce il coniuge. E infatti, a proposito delle «anatre domestiche», La Rochefaucauld osserva lapidario: «quante anatre domestiche tradiscono i loro simili e li attirano nelle reti» (26). L'apparizione improvvisa, quella veramente straniante, avviene però alla fine del racconto, quando Federigo, distrattamente, per guardare una prostituta, va a sbattere il naso contro la gabbia di un merlo. L'ipotesi più valida sembra anche qui quella dell'identificazione. La Rochefaucauld nella «Riflessione» sugli animali non parla apertamente di merli, ma di «uccelli che si raccomandano soltanto per il canto e per i colori» (27).

 

Sostanzialmente inutili, a se stessi e alla specie, come insegnava Darwin, come nel caso del «canettaccio bastardo», di cui parleremo fra poco. Nel racconto del merlo è forse la cultura contadina che ci offre maggiori strumenti ermeneutici. Il merlo, infatti, è considerato nella cultura popolare «quasi un cantante», e veniva catturato e messo in gabbia proprio per tale ragione. Ma il merlo non è soltanto un uccello canterino: sia le tradizioni popolari sia la letteratura scientifica ci assicurano che egli è considerato un animale estremamente abile nel cacciare i vermi e, soprattutto, molto furbo, anche se «… malgrado sia scaltro cade spesso vittima dei cacciatori, che durante l’inverno lo sorprendono dei frutti dell’ellera» (28). Ora, è forse su questo secondo aspetto che occorre soffermarsi. Tozzi va a sbattere, per guardare la prostituta, contro la gabbia di un merlo. L'evento potrebbe ironicamente significare: «Guarda quanto sei furbo! Sei proprio come un merlo, che si crede tanto astuto e che però è finito prigioniero dentro una gabbia». Tozzi si sentiva effettivamente a Siena come un prigioniero. « La mia anima è cresciuta nella silenziosa ombra di Siena, in disparte, senza amicizie… E così, molte volte, escivo (sic) solo, di notte, scansando anche i lampioni… La tristezza stava sopra la mia anima come una pietra sepolcrale, sempre più breve; e mi sentivo schiacciato su una sedia. E avrei voluto morire» (29).

 

Il sesto racconto è brevissimo, e narra la storia di due poveri esseri, lui tisico, lei brutta, con qualche bitorzolo in faccia, che si sono conosciuti in una birreria, in un contesto un po’ squallido: tavolini di pietra, sgabelli in ferro verniciato, «orchestrina stonata». I due alla fine si sposano. Lei va per strada «seguita da un canettaccio bastardo, e rattrappito, che dopo ogni trenta metri s'arresta per non cadere» (30). La Rochefocauld asserisce che molti uomini «assomigliano ai cani»: alcuni vanno a caccia, altri custodiscono la casa, altri ancora come i levrieri fanno esibizione di coraggio. Ci sono però, conclude L., «dei cani più o meno inutili, che abbaiano spesso e mordono di tanto in tanto » (31). Il contesto suggerisce l'idea che quei due poveracci, uno tisico e l'altra bruttissima, siano inutili, come quel cane bastardo, malfermo sulle gambe, che segue la padrona. Anche qui è possibile una sorta di identificazione con l'autore, che spesso, gravato da mille angustie esistenziali irrisolvibili, si sentiva appunto inutile, come quel cane, darwinianamente inadatto alla vita. L'ipotesi interpretativa suggerita da Cerami è però alquanto riduttiva, in quanto egli vede sì in quel cane spelacchiato la proiezione di Tozzi, ma banalizza un po’, perché lo scrittore è interpretato come un cane «spelacchiato e rattrappito», che corre dietro inutilmente «alla sua innamorata»: «E quel “canettaccio bastardo” della fine è Tozzi stesso, spelacchiato e rattrappito, dietro alla sua innamorata che si è sposata con un altro» (32).

 

Sostanziale concordia tra fonte dotta e tradizione popolare si ha nel racconto dei rospi. Si racconta del Migliorini, contadino tutto sommato «di cultura», in quanto avido lettore dell' Orlando e della Gerusalemme, che insegnava agli altri contadini a uccidere i rospi. Lo scrittore fu presente durante una «lezione», ma si sentì impotente «a farli smettere». Poi, una notte fredda, tornando a casa per una stradina di campagna, sentì le voci dei rospi che lo consolavano, e si ricordò dei modi crudeli con cui i contadini li uccidevano, concludendo con una riflessione: «Questi sono i rospi che ho visto morire, silenziosi, con quei loro occhi che di notte luccicano» (33). La Rochefoucauld, riguardo ai rospi osserva semplicemente che “fanno orrore”. Nelle tradizioni popolari si rileva che il rospo è molto velenoso, puzzolente e tossico.(34) Anche la scienza offre spunti interessanti di riflessione.

 

 Il rospo «…in marzo-aprile, durante la fregola, si reca nell’acqua ed è facilissimo trovarlo, talora in stuoli enormi, nelle pozze, negli acquitrini, nei fossati, nei torrenti, ove le femmine depongono cordoni di uova lunghi alcuni metri; nelle altre epoche dell’anno è difficile incontrarlo, poiché conduce vita solitaria e quasi esclusivamente notturna…» (35). Che il gioco dell'identificazione si attagli perfettamente a Tozzi è certo: anch'egli doveva sentirsi molto «rospo», e molto emarginato nella società senese, di cui mal sopportava molte componenti, per cui, come si è già visto, camminava per Siena evitando accuratamente il Corso principale, andando a casa per vie secondarie. A Siena non contava un solo amico: «La mia anima è cresciuta nella silenziosa ombra di Siena, in disparte, senza amicizie... E così, molte volte escivo (sic) solo, di notte, scansando anche i lampioni» (36). Tozzi si sentiva un brutto rospo. A una fonte medievale e peregrina sembra rifarsi l'unico racconto che presenta un animale favoloso, il liocorno o unicorno.

 

Narra Tozzi, in un'atmosfera fiabesca, un sogno che coltivava da bambino, ovvero di far suo «il violoncello che udiv[a] tra gli alberi del bosco», per «suonarlo i giorni di festa della [sua] anima; ammaestrando un liocorno, color di carta bianca, che prendere[bbe] da qualche favola vecchia» (37). L'effetto è di forte straniamento, e il lettore si chiede la funzione del liocorno. La leggenda del liocorno è antichissima ed è narrata nel Fisiologo in questi termini: «L'unicorno [liocorno] ha questa natura: è un piccolo animale, simile al capretto, ma ferocissimo...” (Il Fisiologo, a c. di F. Zambon, Milano, Adelphi, 1982, pp. 60-61[10]). Di qui si spiega progetto di «ammaestrarlo» di Tozzi. L'unicorno, prosegue il Fisiologo, «è un'immagine del Salvatore», ovvero «figura Christi», venuto sulla terra per redimere l'umanità. E' questa forse la funzione che il Tozzi bambino e sognatore assegnava a se stesso, quella cioè di fare cose grandi, addirittura ammansire la ferocia del liocorno e portare la pace universale sulla terra. L'identificazione di Tozzi con l'animale fantastico, simbolo di Cristo, portatore di salvezza per l'umanità è estremamente probabile.

 

 

Note

 

1) Cfr. i saggi contenuti in L. Baldacci, Tozzi moderno, Torino, Einaudi, PBE, 1993. L’espressione « non è mica facile capire Tozzi» è a p. 75.

 

2) P. Cesarini, Tutti gli anni di Tozzi, Montepulciano, Ediz. Del Grifo, 1982. Per una informazione generale, anche sulle letture di Tozzi alla Biblioteca degli Intronati, ottimo resta il volume di C. Carabba, Federigo Tozzi, Firenze, La Nuova Italia,Il Castoro, 1972, in particolare le pp. 16-17.

 

3) Cfr. M. Marchi, Il padre di Tozzi, in Antologia Viesseux, 1984 e La cultura psicologica di Tozzi, in Paragone, 1985. Lo stesso Marchi ha poi curato anche un’ediz. di Bestie, in Opere, Milano, Mondatori, 1987. Cfr. altresì i più recenti interventi del Marchi sugli studi di psicologia di Tozzi; M. Marchi, Federigo Tozzi. Ipotesi e letture, Genova, Marietti, 1993. Sulla simbologia delle Barche capovolte, M. Marchi, Vita scritta di Federigo Tozzi, Firenze, Le Lettere, 1997, p. 29. Sullo stesso tema cfr. anche l’intervento di R. Luperini, Federigo Tozzi. Le immagini, le idee, le opere, Bari, Laterza, 1995, p.107. Su Bestie si segnala anche A. Benevento, Saggi su Federico Tozzi, Napoli, Guida, 1996. Per un’ampia bibliografia sino agli anni ’90 cfr. Storia della Letteratura italiana, Il Novecento, a c. di G. Luti, Piccin, 1991, pp. 395 sgg.

 

4) L. Baldacci, Tozzi moderno, cit., p. 92.

 

5) L. Baldacci, Tozzi moderno, cit., p.110.

 

6) A. Gargiulo, Federigo Tozzi, in Letteratura italiana del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1940, pp. 81-88. Di fronte a certe oscurità Gargiulo sbottava:«… E che significa?...E’ la caduta nell’assurdo…».

 

7) M.T.Biasion, La Massima o il «Saper dire», Palermo, Sellerio, 1990, p. 31.

 

8) F. Tozzi, Bestie, Introduzione a c. di V. Cerami, Roma-Napoli, Ediz. Theoria,1987, p. 8.

 

9) Ivi, p. 104.

 

10) Ivi, p. 129. Dubbi circa la posizione di Cerami esprime anche B. Bonfiglioli in Gli animali in Bestie, in Clessidra, n. 11-12, Gennaio 1997, pp. 68-71. «Quanto notato da Cerami può essere vero in parte, ma non in modo così semplicistico, solo per quanto riguarda alcuni brani della raccolta» (p. 74, n.6).

 

11) Ivi, p. 8.

 

12) F. De Larochefoucauld, Massime, traduz. di G. Bugliolo, Introduz. A c. di G. Macchia, Milano, BIT, 1996, p. 5.

 

13) Cfr. il Catalogo dei libri posseduti dalla Biblioteca degli Intronati di Siena. Reflexions, sentences et maximes morales de La Rochefoucauld, Nouvelle edition par George Duplessis avec une Preface par C. De Sainte Beuve de l’Académie français, Paris, Chez P. Jannet Libraire, 1853.

 

14) Sull’argomento cfr. G. Ruozzi, Forme brevi. Pensieri, Massime e aforismi nel Novecento italiano, Pisa, Editrice Libreria Goliardica, 1992, pp. 42-45.

 

15) F. De La Rochefoucauld, Massime, cit., pp. 233-237.

 

16) G. Macchia, Introduzione, cit., p.8.

 

17) Ivi, p. 8.

 

18) Cfr. La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste, «Leonardo» «Hermes» «Il Regno», voll.I-II, a c. di D. Castelnuovo Frigessi, Torino, Einaudi, 1977. Per il cenno di Papini a L. «terapeuta», V. vol. I., p. 159. Con Papini Tozzi era entrato in contatto attraverso Giuliotti; cfr. A. Ciampani, La presenza culturale dei cattolici: attorno a Giuliotti e Papini, in Studium, n. 5, Roma, sett.-ottobre 1990, pp. 707-708 e n. 1.

19) G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1980, p.160.

 

20) L. Baldacci, Con gli occhi chiusi, in Tozzi moderno, cit., p. 41: «…Che c’entrasse di mezzo il Lombroso lo sospettò la stessa Emma annotando una lettera di Novale… Oggi, sulla base delle ricerche fatte dal Cesarini,… sappiamo che Tozzi aveva letto L’Uomo delinquente…”.

 

21) Cfr. G.B. Bronzini, Cultura contadina e idea meridionalistica, Ediz. Dedalo, 1982, p. 105.

 

22) Cerami,cit.p.235

 

23) F.de L., Massime, cit., p. 235.

 

24) V. Cerami, Introduzione, cit., pp. 10. “Nella storia dell’orso, il protagonista ha i movimenti pigri e pesanti della bestia, la stessa lentezza”.

 

25) Cerami, cit., p. 25.

 

26) F.de L., Massime, cit., p. 235.

 

27) Ivi, p. 235.

 

28) La fauna, I passeriformi, in Conosci l’Italia, Milano, Touring Club Italiano, vol. III, p. 118. Il termine ha un significato doppio, poiché può significare sia «uomo astuto» sia «ingenuo». Nel Vocabolario dell’uso toscano di P. Fanfani (Firenze, Barbera, 1863) si legge: “ Che merlo, si dice per significare che altri è un furbo”.

 

29) Cerami,cit., p. 27.

 

30) Cerami, cit. pp. 30-31.

 

31) F.de L., Massime, cit., p. 235.

 

32) V. Cerami, Introduzione, p. 10.

 

33) Cerami, pp. 39-43.

 

34) F.de L., Massime, cit., p. 235. Nelle tradizioni popolari sia italiane sia straniere il rospo è assimilato a elementi negativi e fastidiosi, per cui è da evitare. Cfr. S. Barillari, Motti, arguzie, facezie, Moltemi, 2000, p. 89. L. Di Michele, La politica e la poetica del mostruoso nella cultura e nella letteratura inglese e americana, Napoli, Liguori, 2002, p. 11.

 

35) La fauna, I rospi e altri anuri, in Conosci l’Italia, cit., p. 105.

 

36) Cerami,cit.,p.27

 

37) Cerami,cit.,pp.125-126.


Id: 551 Data: 20/02/2016 15:28:09

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- Politica

G. Sand e i “paradossi etici” della politica

Parlare oggi di George Sand potrebbe sembrare un puro esercizio letterario senza contatti evidenti con la realtà odierna. In realtà George Sand può costituire un punto di riferimento non marginale per “parlare di politica”, e, soprattutto, “sulla politica”, e sui suoi presunti “fini” (etici).

 

Un momento cruciale nella vita di G. Sand e della Francia fu la “Comune di Parigi” nata tra il 1870 e il 1871, che, sostenuta fortemente dal popolo, si propose come obiettivo di instaurare in tutta la Francia un ordinamento democratico repubblicano. Il fatto è che, per conseguire il suddetto “fine”, non si andò molto per il sottile, e il popolo si scatenò in rappresaglie feroci contro gli avversari politici.  “La Civiltà Cattolica”, intorno al 1880, venendo a discorrere dei fatti di Francia, sottolineava come “tra il 16 e il 21 maggio 1871 i Comunardi avevano […] saccheggiato e devastato il palazzo di Thiers, messe a ruba non poche chiese, arse col petrolio le Tuileries, incendiato l’ ‘Hôtel de Ville’, il Louvre”  (1). Come vedremo,   “La Civiltà Cattolica” usò termini molto simili a quelli di G. Sand: “ I Comunardi […] vogliono rifar tutto, rimaneggiare tutto, sotto  pretesto di compiere le riforme”  (2).

 

Il che produsse una reazione altrettanto violenta. Infatti, la “Comune” fu repressa nel sangue, e, tra aprile e maggio del 1871, Adolphe Tiers, l’allora capo provvisorio del cosiddetto “governo democratico-repubblicano”, innescò in Francia una vera e propria guerra civile che, alla fine, costò la vita a migliaia di comunardi (circa 30.000), mentre altrettante migliaia di essi finirono in galera (circa 40.000).

 

George Sand, nel corso di quegli eventi, ed anche in  occasioni precedenti,  e pur con tutte le simpatie nutrite per il popolo e i suoi destini ( “C'est dans le peuple, et dans la classe ouvrière surtout qu'est l'avenir du monde”) [L’avvenire del mondo è nelle mani del popolo e della classe lavoratrice] (3), criticò senza mezze misure il comportamento del “popolo”, in nome, come lei stessa ebbe a dire, della sua posizione di intellettuale neutrale “super partes”. Sand usò parole durissime già nel 1848,  perché contraria  a certi metodi usati dalle “masses”, che avrebbero dato una prova patente  “ de leur absence de sens politique” [della loro assoluta mancanza di senso politico],  continuando:

 

“La majorité du peuple français est aveugle, crédule, ignorante, ingrate, méchante et bête; elle est bourgeoise enfin!» [La maggioranza del popolo francese è cieco, credulone, ignorante, ingrato, odioso  ed anche un po’  idiota; ed è, infine, del tutto  borghese] (4).

 

Poi, in occasione della “Comune”, rincarò la dose, definendo l’esperienza di allora una vera e propria “orgie”:

 

“ C'est une orgie de prétendus rénovateurs qui n'ont pas une idée, pas un principe, pas la -moindre organisation sérieuse, pas la moindre solidarité avec la nation, pas la moindre ouverture vers l’avenir. » [ E’ una vera e propria orgia di presunti innovatori che non hanno un'idea in testa, non un principio, una benché minima seria organizzazione, la benché minima solidarietà con la nazione,  e una benché minima apertura verso il futuro] (5).

 

Queste decise prese di posizione “antipopolari” non piacquero molto alla critica francese del secolo scorso, in particolare a Jean Larnac: “Etrangère au mouvement social qui s'était poursuivi dans le secret de l'opposition […]  elle n’aperçue que la violence des communalistes, sans essayer de la justifier par la découverte d’un but” [ Completamente estranea al movimento sociale che aveva continuato nel segreto dell'opposizione […] non seppe notare che la violenza dei comunardi, senza tentare di trovare alcuna giustificazione,  indagandone i fini]  (6).

 

Più tardi, alla metà degli anni ’70 dello scorso secolo, lo stesso Jean Larnac, facendo una panoramica degli studi sulla Sand, notava che la scrittrice era variamente giudicata dalla critica una “pacifica” borghese, estremamente prudente e  timorosa: “Dame pacifique, tremblant devant l’emeute […] P. Lidsky explique le jugement négatif de Sand sur la Commune par son isolament en province » [Signora tranquilla, tremante ed impaurita alla prima sommossa […] P. Lidsky spiega il giudizio negativo della Sand sulla Comune con il suo isolamento in provincia] (7).

 

« Dama pacifica » e « tremante », una « provinciale », che  aveva saputo vedere soltanto “la violenza” dei comunardi, “senza indagarne i “fini”. In realtà George Sand  cercava di “interpretare” il ruolo di scrittrice con  onestà intellettuale, e, per questa ragione,  non si esimeva dal criticare tutto ciò che le pareva ragionevolmente “ingiusto”, “iniquo” e “immorale”, anche se tutto ciò promanava dal “popolo”, a cui essa si era sentita pur sempre vicina. La Sand, proprio in virtù della funzione che assegnava allo scrittore,   criticò ferocemente anche quanti erano “sempre e comunque” dalla parte del popolo:

 

“Et dans ce vaste public de critiques, d’historiens, de philosophes, il se trouve à peine des hommes pour protester ! Et dans cet innombrable clergé, qui prétend représenter la vérité, pas une voix , pas un orthodoxe, pas un libéral, qui ose reprocher au peuple son péché. Tous se précipitent  sur leur victime » [E in questa vasta platea di critici, storici, filosofi, si trova a fatica qualcuno che  protesta! E in questo innumerevole  ceto intellettuale, che pretende di essere il sacerdote della verità, non una voce, non un ortodosso, non un liberale, che abbia osato rimproverare il popolo del suo peccato. Tutti invece si avventano sulla loro vittima come un sol uomo] (8).

 

In effetti,  la « serietà » intellettuale di Sand pare trasparente, perché la scrittrice partiva da presupposti teorici che rinviavano tutti al concetto della « neutralità » dell’intellettuale, e tanto più forti perché, appunto, irrobustiti « anche » dalla ontologia della scienza :

 

“Non! Non! Je ne suis ni méfiante, ni confiante ! Mon rôle est la neutralité absolue, l’ ‘impersonnalité’. J’ai trouvé pour moi ce mot-là, et j’aime à me le répéter » [No! No! Non sono né prudente né fiduciosa! Il mio ruolo è quello  di rispettare la neutralità assoluta, l'impersonalità' '. Ho scovato per me questa parola, e mi piace ripeterla]  (9).

 

La diatriba su Sand scaturì essenzialmente  dal fatto che la scrittrice francese fu  “tendenzialmente”  portata a condannare tutto ciò che in politica  non le sembrava  “etico”. Il che, inevitabilmente, agli occhi della critica francese più o meno legata alle classi popolari,   avrebbe fatto della  Sand una scrittrice sì impegnata,  ma sostanzialmente “disancorata” dalla realtà “effettuale” della politica, che in sé richiede inevitabilmente, secondo taluni disincantati seguaci di Machiavelli,  strumenti talvolta “non etici” nel raggiungimento dei “fini”.

 

A parte che una critica alla “neutralità” di Sand, posta in questi termini,  risulta a ben vedere abbastanza “anacronistica”, semplicemente perché la Sand andrebbe giudicata con i parametri del suo tempo, allorché la scienza stessa addirittura prescriveva la “neutralità”. Cosa intendeva il tanto ammirato  Flaubert per “scienza”? Un qualche chiarimento sulle sue personali convinzioni  è fornito dalla stessa  George Sand: “Nel 1869, scriveva: ‘Non si tratta più di fantasticare la migliore forma di governo […] ma di far prevalere la scienza’. E  ‘la scienza sembra equivalere alla neutralità, al giudizio privo dei pregiudizi delle emozioni e delle passioni popolari’” (10).

 

George Sand non sembra affatto in contraddizione con i presupposti “scientifici” dei tempi suoi, ma  resta comunque  da valutare, insieme con lei, e per lei, in questa sede,  se la machiavelliana teoria dei “fini” da perseguirsi a “qualunque” prezzo sia da accettarsi oppure no. A questo punto, però, più che sulla Sand, si deve discorrere  sulla politica “tout court”.

 

E’ indubbio che in politica i mezzi usati per raggiungere certi “fini” non risultano sempre “etici”, anche se  possono sembrare  “buoni”. Weber in questo senso era un “pessimista” radicale:

 

“Chi voglia occuparsi di politica in generale, ma specialmente il politico di professione, deve essere consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che egli stesso può divenire per effetto di tale dimensione. Egli risulta coinvolto, giova ripeterlo, nelle potenze diaboliche che stanno in agguato dietro ogni violenza […] Chi cerca la salute della propria anima e la salvezza delle altre non lo fa percorrendo la strada della politica, che ha compiti del tutto diversi, tali che possono risolversi solo con la forza (11).

 

Esiste per Weber una “ frattura insanabile” tra etica e politica  (12), per cui, volendo proprio cercare un qualcosa “nel politico” che abbia un po’ a che fare con l’etica, Weber individua la cosiddetta “etica della responsabilità”, che, però, non è un qualcosa di “universale”, ma dipende essenzialmente dal carattere “individuale” dell’uomo politico, dalla  cultura, dalle convinzioni religiose,  ecc.  Perciò la cosa resta molto fluida, e, soprattutto, non costituisce una “regola”.

 

Sembra, tra l’altro, che non esista la possibilità di stabilire “razionalmente” un’etica “scientifica”, che abbia i caratteri della “riconoscibilità universale” (anche le diverse etiche religiose sono, in fondo,  “settoriali”). E siccome su questa conclusione sono tutti d’accordo, è evidente che dovremmo cercare l’ “etica del politico” (come forse anche quella del non-politico), nella “pratica”.

 

In fondo l’etica, avevano perfettamente ragione i greci,  è un “comportamento” (éthos), che poi, vistane la “bontà”, tende a diventare “nómos”, “regola”, ovvero “regola di comportamento”: “E’ comune a tutto il mondo classico il concetto di un comportamento (éthos), [che] nel momento in cui diviene un fatto di costume (‘mos’ a Roma), necessita di una codificazione a termine di legge (nómos)” […] L’ ‘éthos’ […] consente di realizzare il bene e, attraverso questo, di conseguire la felicità (‘eudaimonía’), che coincide con l’acquisizione della virtù (‘areté’)”(13). Questo è un fatto che la pratica della vita ci assicura avere carattere estremamente generalizzato, e su cui tutte le società umane possono (almeno credo) convergere: se si attacca qualcuno con la violenza,  è pressoché certo che la reazione sarà, eufemisticamente parlando, estremamente “spiacevole” (per entrambi). A maggior ragione gli effetti saranno più nefasti se, anziché i singoli individui, i “contendenti”  risultano essere le fazioni, i partiti  o gli Stati.

 

E’ evidente che il politico ha a che fare, per definizione, con una collettività, piccola o grande che sia, e la dovrebbe guidare  secondo “comportamenti” (etica) che lo predispongano all’ “accettazione” da parte della comunità stessa. E’ altrettanto evidente che, per raggiungere questi “fini”, il politico deve avere comportamenti “conseguenti” al raggiungimento del “fine”: cioè a dire “puntare” sulla propria  “accettazione” da parte della comunità attraverso comportamenti “non lesivi”nei confronti dei suoi componenti.  Anche i regimi totalitari, nonostante i sistemi “coercitivi”, ricercano un “ethos”, un “comportamento” meno invasivo, e volto a non “danneggiare eccessivamente” la comunità. La “propaganda”, di cui “tutti” i sistemi totalitari hanno fatto (e fanno) largo uso, è un  comportamento volto alla ricerca dell’ “accettazione” da parte della loro comunità attraverso, appunto, un “éthos” che, nella scala dei “guasti” che  le si possono procurare, è sicuramente il meno foriero di conseguenze nefaste per l’ “incolumità fisica” degli individui.

 

L’ipotesi  di un’ “etica della politica” intesa come comportamento-non-lesivo nei confronti degli individui è l’unico asse su cui si può costruire la cosiddetta “convivenza” (pacifica). In questo senso, George Sand, in buona sostanza, non riuscì a digerire (ed infatti  rifiutò in blocco, e senza incertezze, l’intera esperienza della “Commune”) né la “violenza” dei comunardi, perché essa andò in evidente rotta di collisione con l’idea di un  “comportamento.non-lesivo” (etica) che prevede, come dire, il “controllo dell’agire” verso gli altri, né la “controrivoluzione”, che, tragicamente,  sfociò in una guerra civile che comportò, alla fine, l’esecuzione sommaria di decine di migliaia di comunardi. 

 

Molti anni fa Dante Ughetti, venendo a discorrere di George Sand e, al tempo stesso, di  “teoria critica della  politica” e dei suoi “fini”, citava una riflessione di M. Horkheimer, secondo il quale  le “singole ideologie”, per essere “universalmente” accettate,  dovrebbero rispondere a certi criteri generali di “coerenza interna”, che si sintetizzerebbero in questi punti fondamentali: verità, sincerità, razionalità, aspirazione alla pace, alla libertà e, “dulcis in fundo”, alla felicità d’illuministica memoria, tanto è vero che, nel corso della Rivoluzione Francese, si instituì addirittura il “Ministero della Felicità”.

 

Il riferimento alla “felicità” come a uno dei “fini etici” della politica è tutt’altro che peregrino, e fu in qualche modo “previsto” anche nelle riflessioni “scientifiche” di filosofi della statura di Adorno. La proposta di Adorno, nonostante il suo sapore tutto sommato utopistico, centrò proprio il tema dell’etica intesa come comportamento.non-lesivo nei confronti dei componenti la società:  “Le speranze utopistiche dell’Illuminismo che Weber dileggiava come ‘irrealistiche’ e ‘irrazionali’ sono affermate iperbolicamente da Adorno. E felicità per Adorno è […] la visione di una società non antagonistica, non gerarchica, non violenta, non repressiva” (14). In pratica Adorno tese ad “isolare” gli elementi  weberianamente diabolici con cui il politico si deve spesso misurare: la violenza, soprattutto, e poi la repressione, che costituiscono il diapason delle possibilità “lesive” della politica nei confronti dei singoli componenti della società.

 

Tornando a D. Ughetti, riferendosi  a M. Horkheimer,   scrisse :

 

“Ma, dicevo, la polemica è aperta e io sarei più propenso ad aderire alle tesi di Horkheimer, alla sua ‘teoria critica’, al suo richiamo all’attività storica concreta, e quindi ad un’adesione non già a generali e moralistiche idealità, ma a precise ideologie:

‘ Per essa (la teoria critica) esiste solo una verità, e i predicati positivi della sincerità e della coerenza interiore, della razionalità, dell’aspirazione alla pace, alla libertà e alla felicità, [che] che non sono attribuibili nello stesso senso a una qualsiasi altra teoria e pratica’” (15).

 

Se potessimo trovare qualcuno con l’ “intero pacchetto” di queste “proposte” in tasca, credo sarebbe il caso di dargli un’adesione pressoché immediata (e molto calorosa), anche se, ad onore  del vero, c’è l’assoluta certezza che la riflessione di  Horkheimer confina un po’ troppo con la regione di “Utopia”, di cui mi sembra addirittura un’ “enclave”. E di ciò Horkheimer era perfettamente consapevole: “La conoscenza che vuole il contenuto vuole l’utopia”, sentenziò Horkheimer .

 

D’accordo, però,  nell’ “hic et nunc” dell’attuale mondo sub-lunare,  non soltanto italico, se dovessimo ricercare gli “strumenti minimi” dell’ “etica del politico”, potremmo  individuarli  in una semplice formula:

 

“Non licet inferre damnum alicui”. Il che, tradotto in soldoni, significa semplicemente:

 

“Non è ETICO danneggiare gli altri”, in tutti i sensi.

 

                                                                        Enzo Sardellaro

 

 

 

Note

 

1)         “La Civiltà Cattolica”, Firenze, 1880, Vol. III,  p. 121.

2)         Ivi, p. 116.

3)         Il passo è riportato in A. Poli,  « L’attitude de G. Sand vis-à-vis du peuple en 1840, 1848, 1851, 1869 », in  A. Poli, « George Sand et les années terribles», Pàtron, 1975,  p. 11.

4)         A. Poli, p. 12.

5)         Ivi, p. 239.

6)         J. Larnac, «George Sand révolutionnaire », Éditions Hier et aujourd'hui, 1948,   p. 248.

7)         J. Larnac, « L’attitude de George Sand en 1870-1871 d’après quelques études recentes », in  A. Poli, « George Sand et les années terribles », cit.,   p. 317.

8)         A. Poli, « George Sand et les années terribles », cit,, p. 118.

9)         G. Sand, « Oeuvres complètes», Levy, 1884, n. 83,   p. 112.

10)       A. Battistini,  “Letteratura e scienza”, Bologna, Zanichelli, 1977, p. 200.

11)       M. Weber, “La politica come professione”, a cura di L. Cavalli, Roma, Armando, 2005, pp. 111-112.

12)       M. Weber, “Considerazioni intermedie. Il destino dell'Occidente”, a cura di A. Ferrara, Roma, Armando, 1995, p. 55.

13)       L. R. Angeletti-V. Gazzaniga, “Storia, filosofia ed etica generale della medicina”, Elsevier Masson, 2008 (terza ediz.), p. 159.

14)       R. J. Bernstein, “La nuova costellazione. Gli orizzonti etico-politici del moderno-postmoderno”, Milano, Feltrinelli, 1994,  p. 50.

15)       D. Ughetti, “George Sand e gli anni terribili”, in “Economia e Storia”, 1975, p 661. Il passo citato è in M. Horkheimer, “Teoria tradizionale e teoria critica”, in “Teoria critica”[ M. Horkheimer, “Traditionelle und kritische Theorie”, in “Zeitschrift für Sozialforschung”,  1937, VI, 2, pp. 245 sgg.], Torino, 1974, Vol. II, p. 167.

 

 

 

 

 

 

 


Id: 468 Data: 15/01/2015 18:33:13

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- Letteratura

“(T)-AMEN” per Tibullo

Com’è ben noto a tutti quelli che s’ interessano di letteratura latina, Tibullo, poeta sensibile e schivo, era tutt’altro che un guerriero, e anzi più volte fece ben capire la sua avversione per la guerra. Legato al circolo del potente Messalla Corvino, l’unica volta che il suo “patron” lo voleva far scomodare da Roma per una  campagna contro gli Aquitani, Tibullo la prese subito a male, indirizzando al suo protettore i famosi versi “Ibitis, sine me, Messalla per undas”, che, fuori di metafora, significa semplicemente che Tibullo stava benissimo dov’era (a Roma), invitando gentilmente il potentissimo patron a sorbirsele lui le fatiche per mare (“per undas”) e le successive scomodità  legate ad una campagna militare contro gli Aquitani.

 

Tuttavia, pur amante della pace e delle delizie di Roma, Tibullo ebbe una vita amorosa tutt’altro che tranquilla, perché la “guerra” gliela portarono in casa le sue donne, in particolare la bionda e procace Delia, che gliene fece passare di tutti i colori. In vita e anche “post mortem”. Sì, perché uno dei passi filologicamente più travagliati del complesso “Corpus Tibullianum” che la tradizione ci ha lasciato riguarda proprio Delia, che non era, come si suol dire, uno “specchio” di fedeltà.

Un giorno (un brutto giorno per il nostro poeta elegiaco), Tibullo si era accorto che la bionda Delia si era portata a casa l’amante. La cosa fu scoperta e ne nacque un putiferio, con Tibullo che affidò i propri tormenti ad un’elegia (la settima), che, ancora oggi, costituisce motivo di “tormento” non tanto per il nostro poeta, quanto per i suoi esegeti che, sin dai tempi più remoti, non sono riusciti a digerire un’espressione per vari versi ritenuta dai più assolutamente “impoetica”:

 

“Illa quidem  TAM MULTA   negat, sed credere durum est …”.

 

Traducendo:  lei, la bionda Delia, “negò il fatto (di aver portato in casa di Tibullo l’amante) un sacco di volte (“tam multa”), ma credere alle sue parole è davvero duro”, avrebbe cantato Tibullo.

 

Ora, la faccenda “stilistica” costituita dall’espressione “tam multa” non è mai stata accettata a cuor leggero dagli esegeti di Tibullo, i quali si sono dannati l’anima per tentare di ripristinare il testo autentico. Così, sottolinea  M. Pace-Pieri, “ Il tràdito ‘multa’ fu ritenuto più volte sospetto e variamente emendato  […] Gli ultimi editori preferiscono mantenere, pur con esegesi non unanime, il testo tràdito: Putnam interpreta avverbialmente il verso ‘tam multa’ (‘e così spesso, così tante volte’), come più comunemente (Smith, André, Namia ecc.), mentre Della Corte intende sottinteso un ‘facta’, traducendo: ‘eppure lo nega più volte’). Pur essendo grammaticalmente possibili, queste esegesi non soddisfano a pieno”  (1). La stessa  M. Pace-Pieri  propone di sostituire  “magna” (grandi)   a “multa” perché, secondo la studiosa, “più chiaro [risulterebbe] il senso del verso, poiché il reato che Tibullo rimprovera alla sua donna è grande, grave, ma uno solo, non molti” (2).

 

Bene, ma,  parlando di “sospetto”, mi sovviene  il dubbio, nonché il  “sospetto”,  che le cose  non stessero nei termini forse un po’ troppo idillici preconizzati  dalla dotta studiosa di Tibullo. La soluzione (“magna”=un evento solo e talmente grande) proposta dalla studiosa andrebbe benissimo: peccato che non  si abbiano le prove provate che la  Delia si fosse portata in casa l’amante “una volta soltanto”.  Mi viene altresì il “sospetto”  che il tanto contestato “tam multa” possa semplicemente essere un classico errore  del copista, o amanuense che dir si voglia. Come ben sappiamo, i copisti facevano  molti errori di copiatura e, spesso, quando non riuscivano a dare un senso ad un termine, “interpretavano”, secondo il loro livello di cultura. I copisti più bravi, in genere, erano, per paradosso,  quelli di media cultura, che non se la sentivano di “intervenire” sul testo, per cui lo copiavano “così com’era”. Altri invece, che, a torto o a ragione, presumevano di essere a livelli “più alti”, “intervenivano”, snaturando spesso il testo con soluzioni poi difficili  da sanare.

 

Concludiamo. Sappiamo che i testi copiati dagli amanuensi erano stracolmi di abbreviazioni. Per ragioni di spazio le parole latine erano per la maggior parte abbreviate. In questo “esercizio” non mi allontanerei  dal testo tràdito, operando soltanto leggere variazioni, del resto ampiamente previste dalla lingua, ed evitando “divinazioni” che, talvolta, risultano estremamente brillanti, ma al tempo stesso sempre e comunque dubbie (3).

 

Proviamo ad immaginare ciò che potrebbe essere successo nel caso in esame, e  supponiamo che l’amanuense si fosse trovato di fronte ad un verso di Tibullo così scritto, dove

 

“ Illaquidem Tam[en]M[ultis]negatsedcrederedurumest”, cioè “ Illa-quidem-tam[en]-multis–negat-sed-credere-durum-est”, dove “TAM” è la semplice variante di “TAMEN” (tuttavia, purtuttavia), spesso interscambiabili.  “Multa”, invece, potrebbe stare per “MULTIS”, sottinteso “modis”, “rationibus”, “argumentis”. Nelle abbreviazioni, la differenza tra “multum”, “multa” e “Multis” è poca, ed è sufficiente una semplice distrazione per scrivere una cosa per un’altra. Come si può evincere dall’immagine allegata, a parte “multitudine”,  la differenza tra “Multis”, “Multum”  e “multa” è sottile e facilmente scambiabile l’una con l’altra (4).

 

In realtà  Tibullo potrebbe aver  semplicemente voluto dire  : “Illa quidem TAM MULTIS [modis]  negat sed credere  durum est”.

Ovvero:

“Lei, la Delia, TUTTAVIA (tamen) nega la cosa  in tutte le maniere [MULTIS  (modis)], ma è un po’ duro crederle”.

 

Il senso c’è, e scorre via abbastanza bene. L’espressione “negare … multis modis” oppure “rationibus ” è abbastanza comune e ben attestata negli scrittori latini. In sostanza,  l’amanuense , più che altro, confuse “mult-is” con  “mult-a”, oppure “ semplificò” la cosa a modo suo, scegliendo “multa” di proposito fra le possibili soluzioni. Siccome anche il nostro dotto amanuense probabilmente sapeva benissimo  che Tibullo ne aveva passate “tante e poi tante” (=”tam multa”) con la Delia, gli potrebbe esser  venuto “spontaneo” scegliere “multa” al posto di “multis”, oppure, più facilmente ancora, fu forse anch’egli vittima, come tutti i suoi colleghi,  di  una  svista.

 

Non so se questa estemporanea  “congettura”  possa accogliere i favori  degli specialisti di Tibullo, ma una cosa è certa: che sarebbe anche ora di mettere  un definitivo quanto liberatorio   (T-) AMEN su  uno dei (molti) “tormentati” passi che ancora affliggono la tradizione del testo del nostro grande poeta elegiaco.

 

Note

 

1)         M. Pace-Pieri, “Il testo di Tibullo nella critica dell’ultimo decennio”, in “Cultura e Scuola”, 1984, n. 89, pp. 37-38.

2)         Ivi, p. 38.

3)         Più recentemente, R. Perelli  osserva : “ ‘Tam multa’: questa la lezione dei codici che fa riferimento all'alto numero di indizi che concorrono a svelare il nuovo amore di Delia. Ma 1, 6 è ricordata più volte nel corso nella lunga elegia ovidiana che costituisce, da sola, il secondo  libro dei ‘Tristia’ […] Ovidio così ricorda il verso 7 dell’elegia tibulliana: ‘credere iuranti durum putat esse Tibullum’ [“Tibullo dice che è duro credere a colei che giura e spergiura”]. Muovendo da queste parole, Heyne congetturò ‘iurata’ al posto di ‘tam multa’ […] Ma anche se Ovidio è una fonte di grande autorevolezza per l’interpretazione dell’elegia […], mi pare davvero eccessivo aspettarsi un rispecchiamento parola per parola del testo tibulliano”. Cfr. R. Perelli,  “Commento a Tibullo, Elegie”, Rubbettino, 2002, Vol. I,  p. 193, V. 7, “Tam multa”.

4)         A. Cappelli, “Dizionario di abbreviature latine ed italiane”, Milano, Hoepli, sesta Edizione anastatica, 1973, p. 221.

 

 

 

 

 

 


Id: 465 Data: 29/12/2014 21:39:59

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- Letteratura

Moravia e le “geometrie immaginarie” anni ’60-‘70

Nel corso degli anni, mi sono occupato spesso di Moravia, anche se essenzialmente da un punto di vista filologico e linguistico. In  questa sede però il “focus” dell’indagine si sposta verso il Moravia per certi aspetti “profeta” e precorritore dei tempi moderni, dei “nostri” tempi. Potrebbe sembrare strano  evocare la  “geometria” a proposito di Moravia, ma il fatto è che fu lui a parlarne per primo, e in relazione agli eventi umani, dell’uomo e della donna.  Moravia amava ragionare “more geometrico”, e anzi questa è una caratteristica saliente dello scrittore, spesso sottolineata da lui stesso nonché, ovviamente,  dalla critica:

 

“Era inverosimile, era assurdo: Emilia non poteva  assolutamente avere qualche motivo per non amarmi più  […] Per un momento riflettei smarrito […] Finalmente , come si fa con certi problemi di geometria, mi dissi: ‘Pensiamo per assurdo che un motivo ci sia’” (1).

 

“Per Moravia la prigione dell’esistenza va rilevata con criteri di sommaria  geometria piana, una linearità da utilizzare tanto in orizzontale che in verticale” (2). 

 

Perché soffermarsi sulle “geometrie” di  Moravia tra gli anni ’60 e ’70? Il motivo di fondo è dato dalle “cronache” dei nostri giorni, stracolme di  strane quanto pericolose debolezze psicologiche e interiori. Come spesso accade, la letteratura  “anticipa” la realtà e, a rileggere Moravia anni ’60-’70,  sembra di intravvedere “qualcosa”, qualche “anticipazione” dei nostri tempi.

 

Per farla breve, Moravia in quegli anni  disegnò delle ben strane “geometrie immaginarie”, che poi in realtà sembrano in qualche modo inverarsi nella società attuale.  A Moravia pareva di raccontare cose molto importanti sulla società italiana che si stava avviando verso l’industrializzazione e la “modernità”, mentre, per converso,  egli si accorgeva che la critica del suo tempo lo snobbava letteralmente:

 

“Ricordo che fin dalla pubblicazione del mie primo romanzo ‘ Gli indifferenti’, io provai, leggendo le numerose recensioni  un senso profondo di delusione. Mi colpivano le loro superficialità, provinciali, esteriorità  e meschinità, pur sotto la vernice presuntuosa e brillante della cosiddetta critica estetica [...] Questo senso di delusione si ripeté poi puntualmente ogni volta che facevo uscire un libro. E si ripeté egualmente la sensazione della parzialità e manchevolezza  dell'esame, tanto più misteriose in quanto ormai non potevano imputarsi alla novità  della mia opera. Alla fine, dopo molte riflessioni, sono venuto alla conclusione che la mia insoddisfazione era originata da un fatto molto semplice: io ero e sono tuttora convinto che certi aspetti della mia opera andassero presi in seria considerazione” (3).

 

 “Geometria Prima”: la noia e il “vuoto di senso” 

 

Gli anni ’60 si aprono con il Moravia de “La Noia”, un romanzo che lo avrebbe fatto conoscere a livello internazionale,  e che  “superò”, e di molto,  la realtà evocata ne “Gli Indifferenti”,  del 1929. Se lì il mondo  borghese si “avvicinava” alla rovina pressoché completa, nella “Noia” esso tocca ormai il fondo. I personaggi  sono tutti “fuori registro”, e, per sopraccarico, agiscono e si muovono in un mondo privo di senso e significato, dove una qualsiasi verità appare del tutto impossibile a raggiungersi: 

 

“ L'uomo del neocapitalismo, scriveva Moravia, con tutti i  suoi frigoriferi, i suoi supermarket, le sue automobili utilitarie, i suoi missili e i suoi set televisivi è tanto esangue, sfiduciato, devitalizzato e nevrotico da giustificare coloro che vorrebbero accettarne lo scadimento quasi fosse un fatto positivo e ridurlo a oggetto tra gli oggetti (4).

 

Come sempre, in tutti i libri di Moravia, il denaro è il “primum movens immobile” dell’universo, non solo borghese. Il denaro, agli occhi del protagonista, assume i contorni dell’ “arcano onnipotente”:

 

“Arrivai a concludere che forse mi annoiavo perché ero ricco e che se fossi stato povero  non mi sarei annoiato. Quest'idea non era così chiara nella mia mente, allora, come adesso  sulla carta; più che di un'idea, si trattava del  sospetto quasi ossessivo che vi fosse un nesso indubitabile tra la noia e il denaro […] Io non ero che un uomo ricco il quale avrebbe voluto non esserlo; potevo benissimo indossare stracci, mangiare tozzi di pane, vivere in un tugurio; ma il denaro di cui disponevo trasformava in vestiti eleganti i miei stracci, in manicaretti raffinati i miei tozzi di pane, in palazzo il mio tugurio ” (5).

 

La “noia”, nelle “geometrie immaginarie” di Moravia assumeva addirittura i contorni di quello che potremmo definire il “primo motore immobile” di aristotelica memoria. La “noia” è il “primum” da cui muovono tutte le cose del mondo, dell’uomo e della donna, dell’universo tutto:

 

“In principio, dunque,  era la noia, volgarmente chiamata caos. Iddio, annoiandosi della noia, creò la terra, il cielo, l’acqua, gli animali, le piante, Adamo ed Eva; i quali ultimi, annoiandosi a loro volta in paradiso, mangiarono il frutto proibito … E via di seguito” (6).

 

“Geometria Seconda”: “L’automa” (Milano, Bompiani, 1962).

 

 Anche  nei  41 racconti raggruppati in “L’automa” domina il non-senso dell’esistenza, aggravato dall’ “automatismo” dei gesti, compiuti “automaticamente”, e che riflettono la perdita d’identità dei protagonisti:

 

“ Quindi, stranamente, meccanicamente, lei gli andò a cercare la mano e gliela strinse. Ma anche in questa stretta, Renzo avvertì, come nell’abbraccio, l’assenza di qualsiasi consapevolezza, l’automatismo” (7).

 

Ora, agire “in automatico” significa semplicemente far agire l’istinto sulla ragione, e, di conseguenza, commettere azioni spesso assolutamente aberranti. E la nostra società, per molti versi, sembra agire “in automatico”: la furia improvvisa, il calcio e il pugno: la violenza, insomma, contro gli altri e verso se stessi.  Come quando Guido “vola” con la famiglia e con la sua automobile a velocità pazzesca lungo un precipizio. Mentre  la vettura scendeva dalla  montagna il protagonista [Guido]  scatta improvvisamente in velocità e, al tempo stesso,  sente  il desiderio “irresistibile” di far precipitare la sua auto, insieme a tutti gli occupanti, in un abisso che si affacciava sul lago. L’istinto di morte lo guiderebbe nell’abisso, ma poi recede dal proposito:

 

“Anzi gli parve di non averli mai amati  come in questo momento in cui desiderava distruggerli. Ma era poi davvero un pensiero  oppure  una tentazione? Era una tentazione, quasi irresistibile” (8).

 

Nel caso in questione l’automatismo non  era scattato. Tuttavia, la realtà contemporanea ci  sottopone  “fatti” talmente “incredibili” che è ipotizzabile che l’automatismo oggi abbia raggiunto vertici  assolutamente non immaginabili.

 

“Geometria  terza”: “Un’altra vita” (1973).

 

Oggi si sente spesso l’espressione, fin troppo abusata, “Vorrei rifarmi una vita”. “Rifarsi una vita” è un cliché della modernità contemporanea, adombrato in maniera evidente in “Un’altra vita”:

 

“Almanaccavo tra me e me una teoria sulla sua condotta: lui, probabilmente, odiava la famiglia; ma per mancanza di vitalità non era capace di farsi una vita diversa” (9).

 

Ma dove porta questo irrefrenabile desiderio a una “vita diversa”. Moravia l’ha detto più volte, sia nei saggi sia nella narrativa. La “recherche” d’una vita “diversa” comporta la sconfortante scoperta del “nulla”.

 

“Il mondo moderno, scriveva Moravia  nel lontano 1964,  rassomiglia assai ad una di quelle scatole cinesi dentro la quale si trova una scatola più piccola, a sua volta involucro ad un’altra ancora più piccola e co sì via [...] L’incubo generale del mondo moderno ne contiene degli altri minori, sempre più ristretti, finché si giunge al risultato ultimo che ogni singolo uomo risente se stesso come un incubo” (10).

 

E, in  “Una cosa è una cosa”, il protagonista sentenziava:

 

“Ho preso la scatola di lacca nera e d’oro e “meccanicamente” [virgolette mie] l’ho aperta. Dentro la scatola c’era un’altra scatola. Ho aperto questa seconda scatola e ne ho trovata una terza. E poi una quarta, e poi una quinta e poi una sesta. Alla fine ho aperto la settima scatola e non ho trovato più nulla” (11).

 

La “settima scatola” di Moravia rinvia simbolicamente al “nulla” ed  è perfettamente uguale all’apertura del  “settimo sigillo” di Bergman, dove “ […] La vita è un inferno  […]  e la morte il nulla” (12).

 

La  “modernità”  comporta dunque  “geometrie” venate d’un profondo pessimismo esistenziale:

 

“Kleist non voleva più vivere perché non sperava più né per se stesso né per la propria patria;   ma non escludeva che un giorno, dopo la sua morte, la speranza sarebbe forse tornata sulla terra;  Il suo era un suicidio di impazienza. Io, invece, mentre non sopportavo il mondo nel quale mi ero trovato a nascere, non mi facevo illusioni […] perché ero sicuro, assolutamente sicuro, che la speranza in un mondo migliore non poteva che essere inganno o illusione” (13).

 

La vita ha dunque una sua struttura “geometrico-lineare”, dove tutto nasce dalla noia, “volgarmente chiamata caos”, e il cui risultato ultimo è il “nulla” e, spesso, la “follia”. Il Caos di Moravia è un caos “ordinato” da cui procedono “inesorabilmente” tutte le cose.

 

Moravia scopriva nelle  nostre esistenze qualcosa di “ sciagurato, assurdo, inestetico […] che non appartiene tanto alla modernità, ma alla vita stessa. Nella sua nuda e pura trama. Qualcosa di ‘meccanico’, ma indomabile, di banale eppure stupefacente, il cui risultato è sempre e comunque questo: la nuda e pura trama della vita. Cioè la materia delle favole. Senza lievito e a volte perfino senza volume.

Geometria piana, linee” (14).

 

Chiaro, no?

 

“ ‘Soffri molto?’ ‘Eh, sì, qualche volta mi pare di essere diventata pazza sul serio. Cioè di essere peggiorata, di essere chiusa irreparabilmente in una particolare follia.’

‘Che genere di follia?’.

‘Mi pare chiaro, no?

Quella che mi fa  credere di essere normali, simili a tutti gli altri’ ” (15).

 

Note

1)            A. Moravia, “Il conformista”, “Il disprezzo”, Milano, Bompiani, 1954, p. 342.

2)            A. Moravia, “Romanzi e racconti, 1927-1940”, a cura di E. Siciliano e F. Serra, Milano, Bompiani, 2000,  p. IX.

3)            A. Moravia, “Risposta a C. Cases, ‘Otto domande sulla critica letteraria in Italia’ ”, in “Nuovi Argomenti”, maggio-agosto 1960, pp. 2-22.

4)            A. Moravia, “L’uomo come fine”, Milano, 1964, p. 6.

5)            “La Noia”, Milano, Bompiani, 1960,  p. 13, 316.

6)            A. Moravia, “La Noia”, in  "Opere complete: "Il conformista", "Il disprezzo",  "La noia",  "L'attenzione",  Milano, Bompiani, 1976, vol. V, , p. 485.

7)            A. Moravia,  “Opere complete: “L'automa”,  “Una cosa è una cosa”, “Il paradiso”,  “Un'altra vita”,  “Boh”, Milano, Bompiani, 1976, p. 204.

8)            A. Moravia,  “Opere complete …”, cit.,  p. 43.

9)            A. Moravia,  “Opere complete”, Milano, Bompiani, 1973, p. 144.

10)         A. Moravia,  “L’Uomo come fine”, in “L’uomo come fine e altri saggi”,  Milano,  Bompiani, 1964, p. 215.

11)         A. Moravia,  “Una cosa è una cosa”, in  “Opere complete …”,  Milano, Bompiani, 1976, cit.,  p. 321.

12)         Cfr. V. Attolini, “Immagini del medioevo nel cinema”, Dedalo, 1993, p. 35.

13)         A. Moravia, “1934”, Milano, Bompiani, 1982, p. 144.

14)         P. Di Paolo, “Tornare. Luoghi del Viaggio a Roma di Alberto Moravia, in “Nuovi Argomenti”, n. 40 V serie, ottobre-dicembre 2007, pp. 120-121.

15)         A. Moravia, “La follia”, in “Opere complete”, Milano, Bompiani, 1973, p. 344.

 

 


Id: 464 Data: 20/12/2014 16:25:50

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- Letteratura

I “iach iach, pěrila, buf baf” di Merlinus Coccaius

Spirito indipendente e libero, Teofilo Folengo mal sopportava tutto ciò che sapeva di paludato e stantio. Uomo di lettere di altissimo livello, intellettuale attento alle cose del mondo e della religione, pur non essendo mai stato  molestato per eresia, dette pur tuttavia adito a sospetti, sia per certe sue affermazioni  (non propriamente ortodosse), sia perché dimostrò in qualche modo una “certa” simpatia per Lutero sia, infine, perché il fratello fu effettivamente indagato per eresia. Come dicevamo, Teofilo Folengo, che nelle sue opere maccheroniche volle chiamarsi Merlin Cocai, latinamente Merlinus Coccaius,  fece del  latino maccheronico la forma privilegiata della sua “protesta” contro la cultura e la società, laica ed ecclesiastica, del suo tempo.  Ciò perché il maccheronico gli offriva gli strumenti più adeguati per fare della satira feroce senza incorrere in eccessive censure. Anche se latino  maccheronico, Folengo usava pur sempre il latino, una lingua di “nicchia”, che si rivolgeva a un pubblico ristretto di intellettuali, in grado di gustarne le sfumature nonché i riferimenti dotti.

 

“Quale sarà stato il suo pubblico?”, si chiedeva diversi anno or sono Bruno Migliorini. “Non certo di laici, urbani o rustici, ignari di latino, ma di persone in grado di gustare almeno alcune delle sue innumerevoli allusioni a Virgilio, a Ovidio, ad altri scrittori classici”. Chi, continuava B. Migliorini, avrebbe potuto apprezzare adeguatamente l’espressione “Veteres migrate fasolos”, se non quanti conoscevano il “Veteres migrate coloni” di Virgilio? (1).

 

Come dicevamo, Folengo,  attraverso il maccheronico,  si prendeva non solo delle “libertà stilistiche”, ma anche qualche “vendetta” nei confronti della cultura ufficiale, deformandone il volto con esiti linguistici esilaranti. Quanti, “immerite”,  godevano agli occhi del mondo di fama e rinomanza, per Merlin Cocai erano soltanto dei “lecconi”, che è come a dire “scioperati perdigiorno”, golosi,  ruffiani e adulatori.   Il suffisso  “(l)-ecchus”, che intuitivamente rinvia ai lecchini e ai “leccardi”,   delinea  i contorni di figure di grande prestigio sociale. Così il pomposo quanto fatuo “astrologo”, sotto la penna arroventata  di Merlinus Coccaius diventa  un risibile “stro-lecchus” (2), che, fuori del suo misterioso  mondo, alla stregua d’altri personaggi illustri,  come i “cantori”, e  i “poeti”, scioperati e voraci mangiatori,  alla fine  affidavano le loro auguste ganasce   alle mani  sapienti del barbiere, che,  a tempo debito,  esercitava  anche la nobile arte del dentista, cavando denti a dritta e a manca con le sue temibili “tenais” [=tenaglie]. I barbieri,  “quibus officium non dico radere barbas, sed de massellis dentes stirpare tenais” [i barbieri, il cui ufficio, dico, non è soltanto quello di radere le barbe, ma anche  d’estirpare i denti dalle mascelle con le tenaglie] (3).

 

Ad essi, i barbieri, si affidano, all’unisono, cantori, poeti ed astrologi: “Quisque poeta, uni, seu cantor, sive strolecchus, barbero subiectus, ibi saepe oyme frequentat” [ e così, ahimè, che sia poeta, cantore o astrologo, tutti son soggetti al barbiere, e qui te li ritrovi molto spesso], mentre  le loro urla (alla stregua dei loro “canti et vaticinii”) salgono in alto, fino a raggiungere i  cieli: “unde infinitos audis simul ire cridores/ad coelum” [per cui odi salire al cielo all’unisono infinite e strazianti grida] (4).  La dissacrazione del “sacro” è compiuta, e  Merlinus si prende le sue “vendette sulle arti del discorso, castigando, per una specie di contrappasso, i colpevoli nella bocca, dove appunto hanno maggiormente peccato. [Una]  bizzarra invettiva contro la vanità delle scienze e delle arti, che Folengo conduce nei modi dell’invenzione comica” (5).

 

Allo stesso modo, il “Prologo”, elemento “principe” dell’arte teatrale del nostro Cinquecento,  di cui si faceva più che un uso, un vero e proprio “abuso” nella commedia  da parte degli immancabili  pedanti, si trasforma,  sotto l’irriverente satira di Merlini Cocaii, in un magnifico “Pro-leccho”, ovvero in una seducente “leccata”  “pro” ( a favore del ) pubblico per ingraziarselo. “Proleccho”, fratello  “ deforme” della più nobile “captatio benevolentiae”, come avrebbero detto i dottissimi retori.  “Et mihi nescio quo vis predicare proleccho?” [“ Vuoi forse propinarmi un prologo?”] (6). Anche i pedantissimi retori non sono risparmiati dall’irriguardosa satira di Merlinus, tanto che la sempre paludata  e onorata retorica (o “rettorica”, come si diceva ai bei tempi di Merlinus) , subisce una rapida quanto inopinata   metamorfosi  verso la “Rethori-cagas ”: “Quid … mihi tantum rethoricagas?” [Perché mi “caghi” tanta retorica?”].  E lo stesso “significat”, verbo nobilissimo e sacro ai retori, col quale si spiegavano gli arcani  degli antichi, si trasforma  in un “indecoroso”  “Signifi-cagat”: potenza dello stile comico, avrebbe detto Dante (7).

 

La cultura “accademica” è pertanto letteralmente ridicolizzata, e il “perfido”  Merlinus  le “dat pro pane fugazzam” [“le rende pan per focaccia”] (8). Sicché i tanto frequentati  e nobili “madrigali” dei poeti cortigiani  variano e scivolano  nei meno eleganti ma spassosissimi  “Merda-gallibus” (9). Neppure i medici sono risparmiati, per cui il medico è definito, secondo la pronuncia popolare, “medecco”, senza però la “l”, per cui ne sarebbe sortito un “ mede(l)ecco”, che  sarebbe andato a colpire di “lecchinaggio”  uno tra i più affezionati  frequentatori del pubblico di Merlin Cocai, costituito, come sottolineava B. Migliorini, da “ ecclesiastici, medici, notai”. Comunque neppure i medici se la cavano a buon mercato sotto la penna di Folengo, assimilati a dei veri e propri “succhiasangue”. Infatti,  Il suffisso  “–[l]ecco” s’attagliava perfettamente agli animaletti più fastidiosi e succhiatori, ovvero i “pulecchi” (sing. puleccus”), cioè a dire le piccole pulci: “ La forma parossitona “prolecco” va accostata a “medeccus” [accusativo “medeccum”)  e “puleccus” (pulce) (10). Talvolta per i medici va ancora peggio, perché definiti  “merd-ecchi”: “La solita tendenza del Folengo alla scatologia (come merdecchi per medici e simili), indispensabile del resto alla sua violenza espressiva e alla vis della sua comicità” (11).

 

Libertà di spirito e di pensiero: questa fu la caratteristica peculiare di Teofilo Folengo, che, attraverso il maccheronico si prese  gioco di tutti, ma ben al riparo  d’una lingua “culta”, compresa da pochi, ma  che proprio in forza di essa  molti erano disposti a perdonargli praticamente tutto, ridendo con il poeta.

 

No, Merlinus non era un eretico “patente”, ma un uomo estremamente cauto, che però aveva il vezzo di far intendere ( a chi sapeva intendere) che egli aveva “capito tutto”, ma che al tempo stesso non era disposto a pagare un prezzo eccessivamente alto per questa sua “intelligenza” del mondo e delle cose. Non era facile per niente  “incastrare” Folengo con accuse di eresia, perché il “mago”  Merlinus sapeva usare la lingua maccheronica con sottigliezze che letteralmente sfuggivano a tutti, o quasi. Prendiamo questo verso a mo’ d’esempio:  “Ecce preti et frati, cum cottis cumque capuzzis cantantes veniunt infrotta boatibus altis: “Eu oe iach iach, eu oe, pirila, buf baf” [ Ed ecco preti e frati, con le loro cotte e i loro cappucci che vengon cantando in frotta con alte grida: “Eu oe iach iach, eu oe, pirila, buf baf] (12) . Ebbene, anche dopo molti secoli,  in essi Ettore Paratore non ci trovava pressoché nulla di “eretico”: “Non direi che si diano precise intenzioni di satira degli ecclesiastici nel quadretto del libro XXIV, 174-76 : Ecce preti et frati, cum  cottis cumque capuzzis, cantantes veniunt infrotta boatibus altis : — Eu oe iach iach, eu oe. pìrila, buf baf.” (13). In realtà  il commento più acuto a questi versi resta quello di Cesare  Federico Goffis : “ Al grido bacchico (Eu oe) seguono due ‘ragli’  spondaici (iach iach), mentre negli ultimi due piedi c’è un “rutto eufonizzato” (pìrila) e infine due note (buf baf) ‘di macaronica flatulenza’” (14).   Cesare Federico Goffis dunque ci svela che in quei preti e quei frati Folengo  intravvedeva una turba spregevole di gente che, (indegnamente) per l’abito che indossava,  emetteva ragli d’asino, rutti e certi suoni  (buf baf) che il LEI (=Lessico Etimologico Italiano) definisce come  “'soffi emessi con forza”, vale a dire “corregge”.  “ ‘Bouf-elà vale assolutamente ‘scorreggiare’  e ‘boufélou”  ‘ chi scorreggia’” (15). Se non è “satira antiecclesiastica” questa, non saprei proprio cosa sia mai  la “satira antiecclesiatica”. 

 

 Folengo forse  non fu compreso sino in fondo  da tutti, ma  era sicuramente apprezzato  da molti, e non tra gli ultimi. Non per nulla Merlinus e il maccheronico piacevano  tanto ad un altro famoso “eretico”, Giordano Bruno (16), a cui però le cose andarono tutte di traverso . Ma Merlinus Coccaius, al contrario, sapeva vivere, anche se, ogni tanto, entrava in una qualche più o men profonda crisi spirituale. Egli infatti  aveva trovato, attraverso il maccheronico,   la via più sicura per dire ciò che pensava, ridendoci sopra, per soprammercato:

 

“Dum Pomponazzus legit ergo Perettus et omnes/ voltat Aristotelis magnos sotosora librazos/, carmina Merlinus secum macaronica pensat/ et giurat nihil hac festivius arte trovari” [ E così,  mentre Pomponazzi compulsa il Peretto, e mette sottosopra i libroni d’Aristotele, Merlino pensa e scrive in maccheronico, e giura e spergiura che nulla si possa trovare nel mondo  di più spassoso di quest’arte”] (17).

Forse Giordano Bruno avrebbe dovuto meditare più a fondo la grande lezione di Merlin Cocai, al secolo Teofilo Folengo (1491-1544), anzi, Girolamo, anzi, meglio ancora “Merlinus Coccaius de Patria diabolorum” (della patria dei diavoli) (18)

 

Note

 

1)            B. Migliorini, “Aspetti rusticani del linguaggio maccheronico del Folengo”, in “Atti del Convegno sul tema: la poesia rusticana del Rinascimento”, Problemi attuali di scienza e di cultura, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, Quaderno n. 129, 1969, p. 173.

2)            “Baldus”, XXV, 631.

3)            “Baldus”, XXV, 628-629.

4)            “Baldus”, XXV, 631-632, e 637.

5)            G. Parenti, “Phantasiaplus quam phantastica e l’spirazione del ‘Baldus’”, in “Le tradizioni del testo. Studi di letteratura italiana offerti a Domenico de Robertis”, a cura di F. Gavazzeni e G. Gorni, Napoli, Ricciardi, 1993,  p. 160.

6)            “Zanitonella”in “Opus Merlini Cocaii Poetae Mantuani Macaronicorum, Amsterdam, 1692, p. 28.

7)            Per “rethoricagas”, cfr.   “Opus Merlini Cocaii Poetae …”, cit. “Zanitonella”, p. 28. “Antiqui dicebant significagare … pro significare” [Gli antichi dicevano “significagare” per “significare”], in  “Opus Merlini Cocaii Poetae …”, nota a margine, p. 28.

8)            “Baldus”, XXV, 411.

9)            “Baldus”, XVI, 519.

10)         M. Zaggia, “Maccaronee minori”, Torino, Einaudi, 1987, p. 28 e “Glossario”, p. 780.

11)         “ I maccheronici prefolenghiani”, in appendice a “Opere di Teofilo Folengo”, a cura di C.  Cordié, Milano-Napoli,  Ricciardi, 1977, Vol. I,  p. 421.

12)         “Baldus”, XXIV,  175-176.

13)         E. Paratore, “Le maccheronee di Teofilo Folengo”, 1956,  p. 223 nota 40.

14)         C. F. Goffis, “Roma, Lutero  e la poliglossia folenghiana”, Pàtron Ed., 1995, p. 126 nota 11.

15)         Cfr. “Lessico etimologico italiano: LEI”, 1979,  p. 390.

16)         “Or qua te voglio, dolce Mafelina, che sei la musa di Merlin Cocaio”. Cfr. G. Bruno, “La Cena de le Ceneri”, a cura di G. Aquilecchia, Torino, Einaudi, 1955, p. 121.

17)         “Baldus”, XXII, 129. Lo stesso Folengo definì in questa maniera “l’arte maccheronica”: “ Quisque es, o tu, qui meum hoc grossiloquum perlegendum volumen ridere paras, ride, sed non irride […] Ars ista poetica nuncupatur ars macaronica a macaronibus derivata, qui sunt quoddam pulmentum farina, caseo, botiro compaginatum, grossum, rude et rusticanum ; ideo macaronices nil nisi grassedinem, ruditatem et vocabulazzos debet in se continere” [ Chiunque tu sia che stai per leggere questo mio libraccio rude e  grossolano, preparati pure a ridere, ma stai bene attento a non irridere […] Questo modo di comporre è detto “poesia maccheronica”, e il suo nome deriva dai maccheroni; si tratta d’una pasta di farina, formaggio e burro,  roba da poveri contadini; pertanto, il “parlar maccheronico” deve contenere soltanto cose  grossolane e parolacce], Cfr. “Merlini Cocaii in sui excusationem”, in  “Le Maccheronee”, a cura di A. Luzio, Bari, Laterza, 1911, Vol. II, p. 284). “Ma stai ben attento a non irridere”,  cioè a prendere sottogamba l’arte maccheronica, avvertiva, quasi minacciosamente,  “Merlinus”, perché qui ci sono cose forse più grandi di te.

18)         C. F. Goffis, “Merlinus Coccaius de Patria diabolorum”, in  “L’Italia che scrive”, 1943, XXXIV, marzo-aprile 1943, p. 50.

 

 

 

 

 

 

 

 


Id: 463 Data: 16/12/2014 18:33:18

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- Storia

L’Unitŕ d’Italia vista dal Vaticano

 In questo articolo affronteremo il tema dell’unificazione d’Italia nell’ottica di alcuni importanti protagonisti dell’epoca, largamente ignoti al pubblico, perché emersi all’attenzione della storiografia dopo l’apertura degli Archivi Vaticani. Oggi ci si lamenta del fatto che l’Italia sembra in qualche modo “prigioniera” dell’Europa, ma, a conti fatti, l’Italia e i suoi destini sono sempre stati nelle mani dell’Europa, dell’Austria, della Francia, della Russia e dell’Inghilterra. I protagonisti “classici” del nostro Risorgimento restano un po’ in ombra, definiti spesso con l’epiteto di “mestatori”; ma nonostante ciò, forse ci avvicineremo di più alla verità della formazione dello stato unitario italiano nel 1861.

 

L’apertura degli Archivi Vaticani ha permesso agli studiosi di verificare più da vicino il modo con cui si arrivò all’Unità  nel 1861. I protagonisti di questa nostra storia sono il Cardinal Antonelli, plenipotenziario pontificio,  il Nunzio Apostolico  De Luca, suo corrispondente alla Corte di Vienna, e Mons. Sacconi, Nunzio Apostolico a Parigi.  Intorno ad essi, e ai loro “dispacci”,  si muovono le cancellerie di Austria, Francia, Russia e Inghilterra, ognuna con un proprio “progetto” per l’Italia. L’impressione che si ricava dai numerosi dispacci intercorsi tra il potentissimo Cardinal Antonelli e De Luca è che la prima fase unitaria ( quella del 1861, senza Roma), si concluse positivamente solo perché le maggiori potenze europee, specialmente Inghilterra e Francia, dopo non pochi dubbi e tergiversazioni sul da farsi sullo scacchiere italiano, decisero alla fine di appoggiare il Piemonte.  A ridosso della prima fase dell’unità d’Italia, il problema politico più urgente fu quello relativo alla posizione “instabile” dello Stato Pontificio, che si vedeva minacciato dai moti rivoluzionari in Romagna e temeva, a giusta ragione, non soltanto  una perdita secca di territori, ma addirittura di veder compromessa per sempre l’ “esistenza” stessa  dello stato pontificio,  con la conseguente perdita delle prerogative reali  del Papa.

 

Di fronte a questa imminente e minacciosa prospettiva,  la diplomazia pontificia era altresì molto dubbiosa circa il fatto che la “cristianissima” Austria, nonostante le molte profferte di aiuto, intendesse seriamente impegnarsi in una guerra in Italia a favore del Papa: e non aveva tutti i torti, perché l’Austria di Francesco Giuseppe non voleva complicazioni internazionali, né era militarmente preparata per una guerra. In realtà, secondo C. Meneguzzi Rostagni, l’Austria non voleva aprire un fronte di guerra in Italia, perché “l’Italia avrebbe coinvolto l’Austria in rischi europei che non era il caso di correre; […]  I limiti dell’organizzazione militare rendevano molto vulnerabile l’Austria in caso di guerra”  (1). Questa “neutralità” dell’Austria preoccupava molto la Curia , perché si temeva che l’ondata rivoluzionaria portasse alla dissoluzione dello Stato Pontificio. La cosa preoccupava molto sia il Cardinal Antonelli sia il Nunzio De Luca, il quale, nel dispaccio n. 764, vergato a Vienna il 27 agosto 1859,  scriveva:

 

 “Il signor conte di Rechberg mi assicurò ieri che nelle conferenze di Zurigo non si tratterà di riforme per l’amministrazione interna degli stati italiani e specificamente de’ domini pontifici. L’Imperiale governo non consentirà mai a qualsivoglia progetto, che possa menomamente offendere la piena ed assoluta indipendenza del Santo Padre”  (2).

 

Certo è che il Cardinal Antonelli era tutt’altro che tranquillo, perché giungevano “notizie tristissime dall’Italia settentrionale e dalla Toscana. La tempesta rivoluzionaria già scatenata, par non voglia ormai più ubbidire a’ voleri che si avevano immaginato di guidarla fino a certi termini da non valicarsi. L’Austria resterà mera spettatrice de’ sollevati flutti”  (3).

 

 Vista la situazione piuttosto fibrillante dell’Italia centrale, percorsa da preoccupanti insurrezioni nei territori dello Stato Pontificio, l’Austria, che avrebbe pertanto  voluto evitare grane internazionali che l’avrebbero  messa  in grave difficoltà, astutamente suggerì   l’idea di una “confederazione” di stati italiani:

 

“Ho saputo dappoi –sottolineava de Luca- che Sua Altezza Reale (scil. Francesco Giuseppe) abbia palesata l’intenzione di seguire l’esempio della Santità di Nostro Signore relativamente all’amnistia, alle riforme amministrative, ed alla Confederazione […] Fece poi l’augusto sovrano menzione della ulteriore adunanza di plenipotenziari de’ soli stati d’Italia per deliberare sul modo e su le norme della futura confederazione da stabilirsi” (4).

 

L’Austria pertanto, ben lungi dal progettare una qualsiasi azione bellica in Italia, puntava sulla formazione di una “confederazione” di stati italiani, i quali avrebbero dovuto trovare le soluzioni più idonee per una pacifica coesistenza.

 

L’Inghilterra, dal canto suo, era più o meno sulle posizioni “pacifiste” dell’Austria. L’Inghilterra, per salvaguardare i propri interessi economici basati sui traffici marittimi, non voleva assolutamente trovarsi coinvolta in una situazione di guerra in Italia. In tal senso “frenava” a tutto spiano sullo scacchiere italiano, puntando addirittura a un “disarmo” del Piemonte, che sembrava lo stato più “pericoloso” in Italia. Così, De Luca scriveva al cardinal Antonelli:

 

“All’E (ccellenza).V(ostra).Rev(erendissi).ma sarà senza dubbio pervenuta la notizia del nuovo progetto del governo inglese, secondo il quale si dovrebbe nominare una commissione speciale ch’esaminasse e definisse la questione del disarmo, e indi si radunerebbe il congresso de’ cinque maggiori potentati con voto delibrativo. Tutti gli stati italiani sarebbero invitati a spedirvi speciali rappresentanti in quella medesima guisa come si praticò nel congresso di Leibach” (5).

 

Inoltre, secondo De Luca, l’Inghilterra aveva presentato un “progetto  per l’Italia” di tre punti:

 

“1) Avvisare in modo di [=Fare in modo di] togliere qualunque causa di guerra tra l’Austria ed il Piemonte.

 2) Sgombro dell’occupazione straniera dagli Stati della Chiesa; ed esame delle riforme da introdursi negli stati italiani.

 3) Modificazione dei trattati speciali stipulati dall’Austria coi governi italiani”  (6).

 

L’Inghilterra comunque palesava un atteggiamento piuttosto alterno, perché, da un lato desiderava che l’Italia non fosse scossa da sommovimenti rivoluzionari,  mentre dall’altro si mostrava anche sensibile alle “insistenze” dei patrioti italiani che ne auspicavano l’appoggio internazionale. Questa ambivalenza dell’Inghilterra era ben presente alla diplomazia pontificia, e trova adeguato riscontro nei “dispacci” tra il Cardinal Antonelli e De Luca. Così, nella sua corrispondenza con il Cardinal Antonelli, De Luca, Da Vienna, faceva sapere al suo potente interlocutore che l’Inghilterra sarebbe stata  propensa ad eliminare “qualunque causa di guerra” tra l’Austria e il Piemonte sabaudo, mostrandosi favorevole a un completo “disarmo” dello stesso Piemonte. Ma poi,  De Luca, in un successivo dispaccio, non poteva  non informare il cardinal Antonelli che a Londra, un patriota di spicco, il D’Azeglio, ambasciatore del Piemonte in diretto contatto con Cavour,  faceva pressioni sul governo inglese per avere, da parte dell’Inghilterra, almeno una benevola “astensione” nel caso di un’azione bellica promossa dal Piemonte.

 

“ Questa Corte imperiale” [di Vienna] era tutta protesa a far pressioni su Londra per “spedire al Piemonte un’intimazione perentoria”.

“ Sul silenzio tenuto su questo proposito nella recente discussione de’ 18 da Lord Malmesbury e Derby se ne argomenta la tacita approvazione. Resta però a vedersi qual variazione abbia prodotto nelle mire di que’ ministri la missione del cavalier D’Azeglio e la supposta adesione del Piemonte al disarmo notificata col telegrafo”  (7).

 

Per quanto riguarda la Russia, la posizione  di taluni ministri era più o meno simile a quella dell’Inghilterra “seconda  maniera”, cioè quella di “lasciar fare”, però tale soluzione non era benvista dallo Zar Alessandro II. Infatti, il Nunzio Apostolico  De Luca scriveva al Cardinal Antonelli:

 

“Il conte Rechberg opina che la Russia vi sarà favorevole; dubita, come io annunziai nel precedente mio foglio numero 814, della Russia. Il principe-reggente tentò nella conferenza di Breslavia  di tirare l'Imperatore Alessandro II al partito preso dall'Inghilterra, di lasciar libera facoltà alle popolazioni dell’Italia centrale di adottare governo e principi che più loro andassero a grado ma l'Imperatore Alessandro ributtò il suggerimento”  (8). La posizione di Alessandro II era simile a quella del suo ministro degli esteri Gorčacov, “succeduto al Nesselrod nel 1856, [il quale] era fortemente ostile all’Austria, che definiva un regime non uno stato”  (9).

Altrettanto oscillante era l’atteggiamento  della Francia. Parte dell’opinione pubblica francese era contraria ad un intervento in Italia, e lo stesso  Napoleone III, in un primo tempo, sembrava assolutamente ostile ad un intervento del Piemonte di Vittorio Emanuele II, e ciò soprattutto in odio all’Inghilterra, che sembrava invece appoggiarlo. Il Nunzio De Luca, da Vienna, informava il Cardinal Antonelli che  Parigi

 

“ebbe [informazioni]  sulle segrete intenzioni dell’Inghilterra, la quale vorrebbe coadiuvare le ambiziose mire di quel sovrano. Tutti gli sforzi adunque ed i maneggi di Napoleone tendono presentemente a render frustranee [=inutili] le speranze piemontesi”  (10).

 

L’accorto  Nunzio Apostolico, riguardo le intenzioni di Napoleone III, usò sapientemente l’avverbio “presentemente” ( per il momento). In effetti, come ben sappiamo, in seguito, dietro la promessa della cessione di Nizza e della Savoia alla Francia, Napoleone III avrebbe appoggiato il Piemonte. Le oscillazioni  dell’imperatore francese furono però  intuite ed adeguatamente  registrate dallo stesso Cardinal Antonelli, che, ai primi di maggio del 1859,  ne fece partecipe   il Nunzio Apostolico a Parigi, Mons. Sacconi:

 

“Quanto si è assicurato in varii modi dall’imperatore e dal suo ministero rispetto al Santo Padre e al suo temporale dominio, speriamo che sia per essere una guarentigia (garanzia) valevole a renderci tranquilli (11) .

 

In effetti, il Cardinal Antonelli, visto come andarono le cose in seguito, aveva ottime ragioni per non sentirsi per niente tranquillo.

 

Concludiamo. Come si può evincere da questi documenti, la questione dell’unità d’Italia fu, sin dall’inizio, una “faccenda” eminentemente “europea”, e se gli eventi poi maturarono favorevolmente fu soltanto in grazia di determinati e “mutevoli” atteggiamenti di alcune fra le più influenti nazioni europee, in particolare dell’Inghilterra e della Francia.

 

 

 

 

Note

 

1)            “Il carteggio Antonelli-De Luca, 1859-1861”, a cura di C. Meneguzzi Rostagni, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1983, Vol. II, Fonti,   p. XV, XXIV.

2)            De Luca ad Antonelli, p. 110.

3)            Antonelli a De Luca, p. 89.

4)            De Luca ad Antonelli,  pp. 104, 145.

5)            De Luca ad Antonelli,  p. 35.

6)            De Luca ad Antonelli,  p. 23.

7)            De Luca ad Antonelli,  p. 34.

8)            De Luca ad Antonelli,  p. 132.

9)            C. Meneguzzi Rostagni, “Introduzione”, p. XXVII.

10)         De Luca ad Antonelli,  p. 106.

11)         Cfr. “Il carteggio Antonelli-Sacconi: 1858-1860”, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1962. Antonelli a Sacconi,   p. 112.

 

 


Id: 461 Data: 06/12/2014 13:31:20

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- Storia

Isonzo, Battles of the 1915-1917

I present here a short essay  on Italian army battles on the Isonzo front on the occasion of the Centennial commemorations of the Great War. 

 

“This Was a Strange and Mysterious War Zone”

 

“This was a strange and mysterious war zone […]  The Austrian Army was created to give Napoleon victories; any Napoleon.  I Wished we had a Napoleon, but instead we had ‘II Generale Cadorna,’ fat and prosperous and Vittorio Emmanuele, the tiny man with the long tin neck and the goat beard… ( See E. Hemingway, “A Farewell to Arms”, New York, 1929, p. 38).

Between  1915 and  1917, there were 13  battles of the Isonzo River, and the Supreme Commander  was General Luigi Cadorna, the son of Raffaele Cadorna, commander-in-chief of the Italian army that occupied Rome in  1870 [in the same year Rome was consecrated as the capital of Italy]. Luigi Cadorna was  born at Pallanza in 1850 and fast (at ten years old)  entered  the Military Academy in Turin (1).

 

It is certain that  General Cadorna caused many problems

 

By general consent, and although some qualified observers recognized that the Italian Army's equipment was in many aspects insufficient (both the Italian  weapons were effectively obsolete  and munitions sometimes insufficient), it is certain that  General Cadorna caused many problems because he  had no concern for his soldiers. During the battles of the Isonzo,   the strategies performed by General Cadorna (64 years old in 1914 )  were essentially a foregone conclusion   and, moreover, unjustified  and unnecessary disciplinary measures had been inflicted by him. With these premises the 13 battles  of the Isonzo River Valley were performed with the only result of sending thousands and thousands  Italian soldiers off to the slaughter. The battles of the Isonzo were one of the most decisive proofs of the enormous sacrifices to which the Italian soldiers of  the Great War were submitted  .

 

Scenery of the Battlefield 

 

The Isonzo front shows a wide scene of huge and inaccessible mountains. A precipitous mountain barrier,  rich in Alpine peaks,  increases beyond the Isonzo river.   Gorizia is situated on the left bank of the Isonzo and it may be seen  between insuperable peaks and  plateaus . On the north of Gorizia there is  the Bainsizza plateau,  South of the city the  Carso plateau, while the Julian Alps run West of the Isonzo River Valley . The Austrians barricaded  such natural fortifications and the view took the breath away. The machine guns gave no rest to the Italian troops in their  hard advance with frontal assaults against mountain peaks  obstinately defended by the Austro-Hungarian soldiers,  and the Alpini Corps suffered  tremendous losses.

 

Italian Attack on Monte Nero: The first offensive: about 20,000 Italian  soldiers died

 

The Austrians locked themselves in Monte Nero, and  the Italian army needed to attack this place of great  strategic importance because of Monte Nero provided a bird’s-eye vision of every enemy advance night and day and round the clock. The Italian troops attempted numerous attacks on Monte Nero at the beginning of  June, 1915, but they suffered severe losses from the Austrian defenders, who were in a very advantageous and fortified  position against the  Italian soldiers.

 

However, by June 16th  the Austrians entrenched on Monte Nero were decisively beaten by the Italian Army. But the Austrians  were  also well entrenched on Mount Cucco,  and they entirely controlled  the Isonzo Valley.  The Italian soldiers conquered Mount Cucco  but the win was very difficult and costly, because, according to M. Thompson, they  reported 500 dead and about 1000 wounded.  In the first month of the Isonzo Valley offensive,  the Italians lost about 20,000 soldiers  (2).

 

The Second Offensive: about 1,916 killed , 11,500 wounded

 

Although the Italian soldiers were mown by the  modern machine guns,  General Cadorna attempted new offensives along the Isonzo in 1915. The Second Offensive began on July 18 and endured  until August 3, 1915, with the attack to the Carso,  near  the city of Gorizia. General Cadorna maintained the same strategy with massed frontal assaults, but  Insufficient artillery supplies and a spray of bullets of machine guns increased death toll. The Italian losses were 1,916 killed , 11,500 wounded and  more than 1,600 were missing, while the Austro-Hungarians suffered 8,800 dead  (3).

 

The Third  and The Fourth Offensive

 

General Cadorna recalled   reservists and more artillery and new men were added to the first lines. In the meantime the Austrians strengthen their defensive positions. The Third Offensive began  with massed assaults and tremendous artillery bombings from the Italian lines. The main  military targets were  both Gorizia and the Austrian fortifications. As a result, the Third Offensive ended on November 4th, and knocked out about 60,000 Italian soldiers.

 

The Offensive Launched by General Cadorna Cost the Italians About  40,000 Losses.

 

On November 9, 1915,  the Alpine troops attempted new frontal assaults against the well-entrenched Austrian soldiers, but troops’ advance was hindered be the artillery fire, barrage of the machine guns, and barbed wire fences. Besides,  winter  became intolerable to soldiers in  the area on which the battles were fought, and  the offensive was over.  The fifth offensive launched by General Cadorna cost the Italians about  40,000 losses while the Austrians lost about 20,000 soldiers . In June 1916  the Austrians  unleashed a phosgene attack on Italian lines with devastating effects. Both phosgene attack and artillery caused more than 7,000 casualties.

 

The Seventh, Eighth, and Ninth Offensives on the Isonzo Front

 

The Italian army faced a ghastly situation for artillery fire,  inexpugnable entrenchments and phosgene attacks when General Cadorna  launched  the Fifth Offensive (1916) which caused around 8,000 casualties. During the sixth offensive,  the capture of Gorizia  cost the Italian soldiers about 30,000 casualties. The Seventh, Eighth, and Ninth Offensives caused more than 140,000 causalities. During the Tenth Offensive,  on the Carso, the Italians suffered 150,000 casualties, and during the  capture of the Bainsizza Plateau they lost about   160,000 soldiers (4).

 

The Explanations of the Italian Collapse Along the Isonzo River Valley

 

Moreover, General Cadorna resorted to measures against his soldiers (with decimation,  the execution of every tenth soldier) to enforce discipline.  But, overall, he failed to adapt to the changing nature of combat and the nature of environmental problems [high mountain passes], because of, along  “this strange and mysterious war zone”, as E. Hemingway said,   trench warfare on the Isonzo Front impeded to have room for a war of maneuver. Automatic machine guns, phosgene gas exposure and cannons were a lethal weapon because of the rocky ground and its narrow passageways.  The battleground is consequently part of the explanation of the Italian collapse along the Isonzo Valley which led to the inevitable massacre of  the Italian mountain troops  in 1915, 1916 and 1917 .

 

The “Foolish Strategy” of General Cadorna and the ' Crazy War '

 

Professor Isnenghi said that General Cadorna “was no worse than other generals of the Great War”.

It is true.

General Cadorna was 67 years old in 1917, and, after all, he was almost contemporary with General Joffre (62 years old in 1914), General  Conrad von Hötzendorf (64 years old),  General Moltke ( 66 years old) and General Kitchener (64 years old), but, as many his colleagues,  he was linked to obsolete war strategies which were carried out in the 19th century. However, while the Austro-Hungarian High Command, after the heavy defeat and tremendous losses on the Eastern Front against the Russians, [the Austro-Hungarian Army lost about 700.000 officers and soldiers] CHANGED ITS STRATEGY (5), General Cadorna had no regrets about his “foolish strategy”.  Indeed,  Italian army would require new strategies and several new officers, such as the young Rommel, who, thanks to his  new strategic principles,  achieved legendary fame during  the battle of Caporetto, the major Italian defeat of 1917 [The defeat of Caporetto cost the Italian army about 10,000 dead] (6).

 

Notes

 

1)            R. K. Hanks, “Cadorna, Luigi”, in “The Encyclopedia of World War I”, edited by Spencer C. Tucker, ABC-CLIO, Santa Barbara, California,  2005, Vol. I,   p. 247.

2)            M. Thompson, “La guerra bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919”, Milano, Il Saggiatore, 2009, pp. 86-87.

3)            G. Tomasoni, “Prima e seconda battaglia dell’Isonzo” in “La grande guerra: raccontata dalle cartoline”, Arca, 2004, p. 127.

4)            About the Italian losses on the Isonzo Front, See: J. R. Schindler “Bainsizza Breakthrough” in “Isonzo: The Forgotten Sacrifice of the Great War”, Westport, Praeger Publishers (United States of America), 2001, pp. 219 ff. According to J. R. Schindler, Luigi Cadorna “showed little concern for his soldiers” (p. 62).

5)            On the new strategies performed by the Austro-Hungarian High Command after the defeat on the Eastern Front in 1914, See: R. Lein, “A Train Ride to Disaster: The Austro-Hungarian Eastern Front in 1914”, in “Contemporary Austrian Studies”, University of New Orleans Press, New Orleans, 2014,  p. 124). The expression “Foolish Strategy” is by R. Lein.  General E. Caviglia said that the Italian offensive actions of 1915 were “a crazy war” [“Purtroppo […] la ‘guerra da pazzi’ continuò per tutto il 1915” (Unfortunately [...], the ' crazy war ' continued throughout 1915] ( See E. Caviglia, “Diario, aprile 1925-marzo 1945”, Roma,  G. Casini, 1952,   p. 116). About General Luigi Cadorna's strategy, See:  L. Cadorna, “Attacco frontale e ammaestramento tattico” [=”Frontal Attack and Tactical Training”], in “Comando del Corpo di Stato Maggiore. Ufficio del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Circolare n. 191 del 25 febbraio 1915, Roma, Tipografia Editrice ‘La Speranza’, 1915” ( Free PDF book by R. Bagna  in  It.Cultura.Storia.Militare On-Line: http://www.icsm.it/articoli/documenti/docitstorici.html. Dottrina e Regolamenti).

6)            G. V. Cavallaro, “The Beginning of Futility”, Library of Congress, 2009, p. 230. See also J. R. Schindler, “Caporetto”, p. 243 ff. and “Battle of Caporetto”, in Wikipedia, note 2.

 


Id: 448 Data: 13/11/2014 14:00:57

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- Storia

Isonzo, 1915-1917

Premessa

In occasione delle commemorazioni  per il  centenario della  “Grande Guerra”, presento in questa sede un breve saggio sulle battaglie combattute dall’esercito italiano sul fronte dell’Isonzo. Al saggio in italiano, farà seguito la versione in inglese.  La scelta della lingua inglese  mi è parsa opportuna  per  far conoscere ad un pubblico più vasto  alcune valutazioni storiografiche piuttosto significative sulle sanguinose battaglie combattute sul fronte dell’Isonzo. In particolare,  il saggio si sofferma sulle perdite subite dalle truppe italiane, legate, come è stato sottolineato con forza dalla critica italiana e straniera,  alle strategie propugnate dal generale Luigi Cadorna.  In nota rinvio all’importante e famoso opuscolo di L. Cadorna, intitolato “Attacco frontale e ammaestramento tattico”, che si può leggere nella prima edizione del 1915.

 

“Questa era una zona di guerra strana e misteriosa”.   Isonzo,   1915-1917.

“This was a strange and mysterious war zone […]  The Austrian Army was created to give Napoleon victories; any Napoleon.  I Wished we had a Napoleon, but instead we had ‘II Generale Cadorna,’ fat and prosperous and Vittorio Emmanuele, the tiny man with the long tin neck and the goat beard… ( E. Hemingway, “A Farewell to Arms”, New York, 1929, p. 38)  [“Questa era una zona di guerra strana e misteriosa  [...]  L'esercito austriaco è stato creato per regalare vittorie a Napoleone; a  qualunque Napoleone.  Avrei voluto  che avessimo un Napoleone, ma invece avevamo  'II Generale Cadorna,' grasso e prosperoso e Vittorio Emmanuele,  l’ometto dal  lungo collo sottile  e la barba di capra...” (  E. Hemingway, “Addio alle armi”,  Mondadori, 2010,  pp. 43-44).

 

Fra il 1915 e il 1917 furono combattute ben  tredici battaglie sul fronte del fiume Isonzo e l’allora comandante supremo dell’esercito italiano era il generale Luigi Cadorna,  figlio di Raffaele Cadorna, comandante in capo dell'esercito italiano che occupò Roma nel 1870. Luigi Cadorna era nato nel 1850 a Pallanza e ben presto  (all'età di dieci anni) entrò nell'Accademia militare di Torino (1).

 

Per unanime consenso  della critica, e anche se alcuni osservatori qualificati hanno riconosciuto che l'equipaggiamento dell'esercito italiano era per vari aspetti  insufficiente (  le armi italiane erano  effettivamente obsolete e le  munizioni spesso insufficienti), è certo che il generale Cadorna causò molti problemi perché non ebbe  alcuna cura per i suoi soldati. Nel corso  delle battaglie dell'Isonzo, le strategie messe in atto dal generale Cadorna (64 anni nel 1914) ebbero essenzialmente una conclusione scontata e, inoltre, egli inflisse  misure disciplinari ingiustificate ed inutili. Con queste premesse,  le tredici battaglie della valle del fiume Isonzo ebbero come unico risultato di mandare migliaia e migliaia soldati italiani al macello. Le battaglie dell'Isonzo costituiscono una delle prove più decisive dei sacrifici enormi a cui furono sottoposti i soldati italiani nel corso della “Grande Guerra”.

 

Lo scenario del campo di battaglia

 

Il  fronte italiano dell’ Isonzo  presenta un  vasto scenario  di enormi ed inaccessibili montagne. Una barriera di montagne scoscese, ricche di cime alpine, s’innalza oltre il fiume Isonzo.   Gorizia si trova sulla riva sinistra dell'Isonzo ed è visibile tra altipiani e vette insuperabili. A nord di Gorizia c'è l'altopiano della Bainsizza, a sud della città l'altopiano del Carso, mentre le Alpi Giulie  scorrono  ad ovest della valle del fiume Isonzo. Gli austriaci erano asserragliati in tali fortificazioni naturali,  la cui sola vista toglie  il respiro. Le mitragliatrici austriache non dettero tregua  alle truppe italiane nella loro difficile avanzata con assalti frontali contro vette ostinatamente difese dai soldati austro-ungarici, e il corpo degli Alpini subì perdite enormi.

 

L’ attacco al  Monte Nero. Nella  prima offensiva persero la vita circa 20.000 soldati italiani

 

Gli austriaci erano asserragliati sul Monte Nero, e l'esercito italiano doveva attaccare questo luogo di grande importanza strategica perché il Monte Nero forniva una visione dall'alto di ogni movimento del nemico, giorno e notte e ventiquattro ore al giorno. Le truppe italiane tentarono numerosi attacchi al Monte Nero all'inizio di giugno 1915, ma subirono gravi perdite da parte dei difensori austriaci, che erano in una posizione molto vantaggiosa e fortificata contro i soldati italiani. Tuttavia, dal 16 giugno gli austriaci trincerati sul Monte Nero furono decisivamente  battuti dall'esercito italiano. Ma gli austriaci erano ben fortificati anche sul Monte Cucco, e di lì controllavano interamente la valle dell'Isonzo.  I soldati italiani conquistarono il Monte Cucco, ma la vittoria fu molto difficile e costosa in termini di vite umane, perché, secondo M. Thompson,  le perdite furono 500 con circa 1000 feriti.  Nel primo  mese dell'offensiva nella  valle dell'Isonzo, gli italiani persero circa 20.000 soldati (2).

 

La seconda offensiva: circa 1.916 perdite e  11.500 feriti

 

Anche se i soldati italiani erano letteralmente falciati dalle moderne mitragliatrici, il generale Cadorna tentò nuove offensive lungo l'Isonzo nel 1915. La seconda offensiva  iniziò il 18 luglio e continuò fino al 3 agosto 1915 con l'attacco sul Carso, nei pressi della città di Gorizia. Il Generale Cadorna mantenne  la stessa strategia fatta di  assalti frontali , ma  supportata da un’ insufficiente artiglieria, mentre  le mitragliatrici aumentavano il tributo di morte. Le perdite italiane assommarono a 1.916 uomini,  con 11.500   feriti e più di 1.600  dispersi, mentre gli Austro-ungarici subirono la perdita di circa 8.800 uomini (3).

 

La terza e la quarta offensiva

 

Il Generale Cadorna richiamò i riservisti e nuovi uomini e  nuova artiglieria si aggiunsero alle prime linee del fronte dell’Isonzo. Nel frattempo gli austriaci rafforzarono le posizioni difensive. La terza offensiva  iniziò con  assalti massicci e tremendi bombardamenti di artiglieria  dalle linee italiane. I principali obiettivi militari erano Gorizia e le fortificazioni austriache, ma la terza offensiva terminò il 4 novembre con la perdita di  circa 60.000 soldati italiani.

 

L'offensiva lanciata dal generale Cadorna costò  circa 40.000 perdite.

 

Il  9 novembre 1915 le truppe alpine tentarono  nuovi assalti frontali contro i soldati austriaci ben trincerati, ma l'avanzata delle truppe fu ostacolata dal  fuoco di artiglieria, dalle  raffiche delle mitragliatrici e dal  filo spinato. Inoltre,  l’inverno diventò intollerabile per i soldati operanti nella zona e l'offensiva ebbe termine.  La quinta offensiva lanciata dal generale Cadorna costò agli italiani la perdita di circa 40.000 uomini,  mentre gli austriaci persero circa 20.000 soldati. Nel giugno 1916 gli austriaci  scatenarono un attacco al  fosgene sulle linee italiane, con effetti devastanti. L’attacco al fosgene e l'artiglieria causarono più di 7.000 vittime.

 

La settima, ottava e nona offensiva sul fronte dell'Isonzo

 

Quando il generale Cadorna  lanciò  a quinta offensiva (1916),  che  causò circa 8.000 vittime,  l'esercito italiano affrontò una tremenda situazione  per il fuoco di artiglieria,  trincee inespugnabili e  attacchi al  fosgene. Nel corso della sesta  offensiva, la conquista  di Gorizia costò  circa 30.000 soldati.   La  settima, ottava e nona offensiva  costarono  più di 140.000 uomini . Nel corso della decima offensiva, sul Carso, gli italiani subirono la perdita di  150.000 soldati, e nel corso della conquista  dell'altopiano Bainsizza le truppe italiane persero circa 160.000 uomini (4).

 

Le spiegazioni del crollo italiano lungo la valle del fiume Isonzo

 

Inoltre, il generale Cadorna, per imporre la  disciplina,  fece ricorso a gravi misure disciplinari  (con la decimazione, l'esecuzione di un soldato ogni dieci).  Ma, nel complesso,  egli non riuscì ad adattarsi alla natura mutevole del moderno combattimento e ai problemi ambientali [passi di alta montagna],  perché,  lungo "questa strana e misteriosa zona di guerra", come la definì  E. Hemingway, la guerra di trincea sul fronte dell'Isonzo fu ostacolata da  spazi esigui  per una guerra di manovra.  Le mitragliatrici, l'esposizione al gas fosgene e i cannoni si rivelarono  un'arma letale in un terreno roccioso fatto anche di stretti passaggi. Di conseguenza,   il campo di battaglia  costituisce parte fondamentale  nella spiegazione del  crollo italiano lungo la valle dell'Isonzo, che portò al massacro inevitabile delle truppe di montagna nel 1915, 1916 e 1917.

 

L’ “insensata  strategia" del generale Cadorna

 

Il Generale Cadorna aveva 67 anni nel 1917 e, dopo tutto, era pressoché coetaneo  del  generale Joffre (62 anni nel 1914), del generale Conrad von Hötzendorf (64 anni), del generale Moltke (66 anni) e del  generale Kitchener (64 anni), ma, come molti suoi colleghi, egli era legato ad obsolete  strategie di guerra tipiche del  XIX secolo. Tuttavia, mentre l'alto comando Austro-Ungarico, dopo la pesante sconfitta e le tremende perdite sul fronte orientale contro i russi, [l'esercito Austro-Ungarico  perse circa 700,000 uomini tra  ufficiali e soldati] CAMBIÒ la sua strategia (5), il generale Cadorna non mostrò ripensamenti circa la sua “insensata” strategia.  Infatti, l’esercito italiano avrebbe richiesto nuove strategie e nuovi ufficiali, come il giovane Rommel, che, grazie ai suoi nuovi principi strategici,  raggiunse  fama leggendaria dopo  la battaglia di Caporetto, la più grave sconfitta italiana del 1917 [la disfatta di Caporetto  costò all'esercito italiano, la perdita di circa 10.000 uomini] (6).

 

Note

 

1)            R. K. Hanks, “Cadorna, Luigi”, in “The Encyclopedia of World War I”, edited by Spencer C. Tucker, ABC-CLIO, Santa Barbara, California,  2005, Vol. I,   p. 247.

2)            M. Thompson, “La guerra bianca. Vita e morte sul fronte italiano 1915-1919”, Milano, Il Saggiatore, 2009, pp. 86-87.

3)            G. Tomasoni, “Prima e seconda battaglia dell’Isonzo” in “La grande guerra: raccontata dalle cartoline”, Arca, 2004, p. 127.

4)            Circa le perdite italiane sul fronte dell'Isonzo, vedi: J. R. Schindler “Bainsizza Breakthrough” in “Isonzo: The Forgotten Sacrifice of the Great War”, Westport, Praeger Publishers (United States of America), 2001, pp. 219 sgg. Secondo J. R. Schindler, Luigi Cadorna “showed little concern for his soldiers” [ mostrò scarsa cura dei propri soldati] (p. 62).

5)            Sulle nuove strategie perseguite dall'alto comando Austro-Ungarico dopo la sconfitta sul fronte orientale nel 1914, vedi : R. Lein, “A Train Ride to Disaster: The Austro-Hungarian Eastern Front in 1914”, in “Contemporary Austrian Studies”, University of New Orleans Press, New Orleans, 2014,  p. 124). L'espressione "Insensata Strategia " è di R. Lein. Il Generale E. Caviglia affermò che le  offensive italiane del 1915 erano "una guerra da pazzi” [“Purtroppo […] la ‘guerra da pazzi’ continuò per tutto il 1915” [...] “ ( E. Caviglia, “Diario, aprile 1925-marzo 1945”, Roma,  G. Casini, 1952,   p. 116). Circa la strategia del generale Luigi Cadorna, vedi:  L. Cadorna, “Attacco frontale e ammaestramento tattico”, in “Comando del Corpo di Stato Maggiore. Ufficio del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Circolare n. 191 del 25 febbraio 1915, Roma, Tipografia Editrice ‘La Speranza’, 1915” ( Free PDF book a cura di  R. Bagna  in  It.Cultura.Storia.Militare On-Line: http://www.icsm.it/articoli/documenti/docitstorici.html. Dottrina e Regolamenti).

6)            G. V. Cavallaro, “The Beginning of Futility”, Library of Congress, 2009, p. 230.  Vedi anche J. R. Schindler,  “Caporetto”, p. 243 sgg. e “Battle of Caporetto”, in Wikipedia, nota 2.

 


Id: 447 Data: 13/11/2014 13:51:31

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- Letteratura

Luigi Pirandello. Siamo uomini, sě, ma “irrelati”

 Si riuniscono in questa  sede (LaRecherche), con  numerose   revisioni  testuali e  formali,  alcuni saggi (questo è il primo) che scrissi  anni or sono (tra il 2009 e il 2010), variamente sparsi su diversi siti.

 

Iniziando a discutere  sulla lingua di Pirandello, partirei da alcune considerazioni di Maria Luisa Altieri Biagi, che si era impegnata non tanto nell’ operazione di storicizzare la lingua di Pirandello, rivalutandone gli indubbi meriti per la scelta di una “lingua media”, atta ad “aiutare” in qualche modo la lingua italiana a farsi “nazionale”,  quanto ad individuare  il modo con cui Pirandello avrebbe, per così dire, “piegato” la lingua italiana per adattarla alle sue esigenze filosofiche. Come ben ha detto l’Altieri Biagi, la neutralità, la medietà, lo stesso “grigiore” spesso  individuato  nella lingua di Pirandello, non devono condurci a un giudizio conclusivo di “banalità”, o peggio  di “ovvietà” trita e insignificante, perché tali aspetti in apparenza negativi, invece, si “…rivelano le caratteristiche più idonee alla trasmissione efficace del messaggio…” di Pirandello (1). 

   

Pirandello fu uno scrittore estremamente prolifico, considerando la sua produzione romanzesca, novellistica e teatrale. Però, nonostante la diversità dei generi frequentati, si può tentare un’analisi globale della sua produzione letteraria, sia a livello di temi sia sotto il profilo linguistico. I toni cromatici pirandelliani sfumano tutti verso il “grigio”, se non verso il “nero”: quanti sono i personaggi “grigi”, vestiti di nero, in Pirandello? Tutta la sua attività letteraria converge  pertanto nella rappresentazione di quelle “grigie” e assillanti angoscie e angustie quotidiane in cui si dibattono i suoi personaggi solitari e “intraducibili”, come a dire, chiusi ermeticamente nella loro disperata solitudine, e incapaci di trasmettere attraverso le parole il  “mondo di dentro”. Solitudini e grigiori quotidiani costituiscono quindi l’essenza dell’opera di Pirandello. Lo squallore grigio di una vita quasi “invisibile”, vissuta tra l’indifferenza generale, è esemplificata in modo prodigioso nella novella Nell’albergo è morto un tale, dove, appunto, in un’anonima camera d’albergo di una grande città è  trovato, morto stecchito, “un tale”, un viaggiatore, che ha concluso la sua parabola esistenziale fra l’indifferenza generale, in un albergo anonimo, frequentato da frettolosi clienti.

Questo è  l’ambiente in cui è morto “un tale”, un’icona, un simbolo che anche strutturalmente rimanda all’atmosfera grigia che avvolge le persone che vi transitano rapide, ignote, indifferenti:

“Cento cinquanta camere, in tre piani, nel punto più popoloso della città. Tre ordini di finestre tutte uguali, le ringhierine [sic] ai davanzali, le vetrate e le persiane grigie, chiuse, aperte, semiaperte, accostate…» (2).

Il “cromatismo psicologico” trasmesso ad un possibile osservatore, sia pure distratto, dell’albergo è definito perfettamente dalle persiane, che sono “grigie”, come la vita delle “ombre” che passano, veloci, al suo interno. Allo stesso modo degli ambienti e dei personaggi, così la lingua di Pirandello sfuma verso il grigio, il banale, senza sussulti stilistici, specialmente quando l’attenzione è posta su determinati “contesti descrittivi”. Il contesto è fondamentale perché rispecchia il sentimento dominante  dei personaggi:

“… Scesi alla stazione, montai sulla mia automobile che m’attendeva all’uscita, e m’avviai per ritornare a casa. Ebbene, fu nella scala della mia casa; fu sul pianerottolo innanzi alla mia porta. Io vidi a un tratto. Innanzi a quella porta scura, color di bronzo, con la targa ovale, d’ottone, su cui è inciso il mio nome… vidi a un tratto, come da fuori, me stesso e la mia vita” (3).

E’ questa una descrizione “impassibile” e neutra di un protagonista che guarda, come dice egli stesso, “da fuori”, neutro obiettivo di una “macchina”  che registra, indifferente, il banale svolgersi degli eventi. Giustamente B. Terracini sottolineò a suo tempo che, alla base di una siffatta invenzione linguistica,  stavano antefatti di poetica miranti all’ impersonalità dei Naturalisti, ma non per acquisirne le tecniche, bensì per superarle; e il critico citava un passo di Pirandello:

“… I poeti veri, cioè quelli in cui la rappresentazione si vuole per se stessa… e tale essi la vogliono, quale essa si vuole. In questo totale disinteresse, e non in altro, può consistere la impersonalità dello scrittore sulla realtà da lui creata…” (4). 

Ufficio dello scrittore, dunque, non è tanto quello di interpretare la vita, quanto quello di “registrarla”: come fa Serafino Gubbio operatore:

“… - Forse col tempo, signore. A dir il vero, la qualità precipua che si richiede in uno che faccia la mia professione è l’ impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti alla macchina…” (5). La neutralità “vitrea” della scrittura “mima” la vita dell’uomo su questa terra, “inconoscibile maschera”: qualunque “abbellimento” tradirebbe pertanto la convinzione che sta alla base della poetica di Pirandello, ovvero l’impossibilità di conoscere “realmente” l’intima essenza dell’individuo. La parola impassibile, descrittiva e neutra è quanto di più vero può esprimere lo scrittore; la parola “connotata”, tendente all’interpretazione del profondo si rivelerebbe un’opinione non una verità; la parola connotativa è menzognera, perché pretenderebbe di individuare una realtà profonda di cui non si può, assolutamente, sapere nulla. E  B. Terracini, acutamente, chiosava:

“La parola è inconsistente e menzognera come la maschera… non dice nulla: mera illusione”.

Non solo la parola è menzogna, ma neppure è trasmissibile agli altri, perché  “ciascuno a suo modo” ne percepisce il significato, diventando essa  il “symbulum symbulorum”  dell’isolamento totale a cui siamo dannati:

“Ma se è tutto qui il male! Nelle parole!- dice “il padre” nei Sei Personaggi in cerca d’autore -  Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro? Crediamo d'intenderci; non c'intendiamo mai!…”.

Quando pertanto la critica, tutta la critica, chi più chi meno, recepì  la lingua di Pirandello come “grigia”, “disarmonica”, “senza grazia”, dai toni “neutri”, avvertì  giustamente un fatto di stile che si faceva “sostanza del contenuto”  di una realtà umana inconoscibile o conoscibile se non “per umbras”, in maniera non solo imprecisa,  ma spesso anche soggetta ad una severa distorsione del mondo interiore dei personaggi. Pirandello stesso era un uomo  che raramente lasciava trasparire qualcosa di sé, e si mostrava al mondo con la sua maschera illusionistica, ovvero falsa ed imperfetta,  mai vera e  mai veramente capita in  profondità.

 

La lingua pirandelliana è “la”  lingua dell’ “uomo”, all’anagrafe Luigi Pirandello. E quando egli mostra  di compiere uno sforzo sovrumano per tentare di farsi capire, il discorso si fa ancor più labirintico, e il periodo diventa “mostruoso”  per complicanza di nessi sintattici, riprese, cadute, nuove riprese dell’argomento. Anche in questo caso, il tentativo  risulta alla fine vano, perché, anziché dipanare le tenebre, inviluppa viepiù i concetti, che finiscono per perdersi nei gorghi dell’indistinto. Gli esempi più significativi si riscontrano nei lunghissimi monologhi di molti personaggi “raziocinanti”, che cercano disperatamente di evocare dal profondo qualche verità solo in apparenza trasmissibile.

 

“ Landolfo Arialdo Ordulfo: (sconvolti, trasecolati, guardandosi tra loro). Come! Che dice? Ma dunque?

Enrico IV: (si volta subito alle loro esclamazioni e grida, imperioso): Basta! Finiamola! Mi sono seccato!

Poi subito, come se, a ripensarci, non se ne possa dar pace, e non sappia crederci:

Perdio, l'impudenza di presentarsi qua, a me, ora col suo ganzo [amante] accanto... - E avevano l'aria di prestarsi per compassione, per non fare infuriare un poverino già fuori del mondo, fuori del tempo, fuori della vita! - Eh, altrimenti quello là [Belcredi], ma figuratevi se l'avrebbe subìta una simile sopraffazione! - Loro sì, tutti i giorni, ogni momento, pretendono che gli altri siano come li vogliono loro; ma non è mica una sopraffazione, questa! - Che! Che! - È il loro modo di pensare, il loro modo di vedere, di sentire: ciascuno ha il suo! Avete anche voi il vostro, eh? Certo! Ma che può essere il vostro? Quello della mandra [=mandria]! Misero, labile, incerto...E quelli ne approfittano, vi fanno subire e accettare il loro, per modo che voi sentiate e vediate come loro! O almeno, si illudono! Perché poi, che riescono a imporre? Parole! parole che ciascuno intende e ripete a suo modo. Eh, ma si formano pure così le così dette opinioni correnti ! E guai a chi un bel giorno si trovi bollato da una di queste parole che tutti ripetono! Per esempio: “pazzo!” - Per esempio, che so? – “imbecille” - Ma dite un po', si può star quieti a pensare che c'è uno che si affanna a persuadere agli altri che voi siete come vi vede lui, a fissarvi nella stima degli altri secondo il giudizio che ha fatto di voi? – “Pazzo, pazzo”! - Non dico ora che lo faccio per ischerzo! Prima, prima che battessi la testa cadendo da cavallo...”(6) .

 

    Pirandello appare  assolutamente convinto dell’impossibilità di farsi capire attraverso la parola. Lo scrittore siciliano ha  radicata in sé tale convinzione, e pertanto si esime  dall’enorme quanto presuntuosa responsabilità di farsi intendere. Nelle opere teatrali ciò gli risulta più facile: il personaggio vive   “oltre” l’autore, in una dimensione autonoma rispetto ad esso, parla di sé e per sé, perché, appunto, l’autore si è eclissato, e, ormai ombra evanescente, non si vede più. Nelle novelle e nei romanzi, nei generi cioè dove la possibilità  del coinvolgimento emotivo dell’autore con il personaggio è più forte, e il pericolo di farsi attirare e coinvolgere nel dramma in fondo “incomprensibile” degli “altri” è tanto maggiore in ragione della tonalità espressivo-connotativa del discorso diretto, Pirandello gioca la  sua carta estrema: il discorso indiretto libero. In tal maniera egli riesce, comunque, a  “sganciarsi”  dal personaggio, limitandosi ad osservarlo dal di fuori, sotto la cappa protettiva  dell’impersonale descrittivismo della neutra “terza persona”, dove, come nell’esempio che segue, domina gigantesca l’immagine terribile e temibile d’un uomo che ha subito l’onta cocente di uno schiaffo, e ha deciso, senza possibilità di appelli, una vendetta  inesorabile, che solo il sangue spicciante del “nemico”, soltanto la sua morte, può placare. L’uomo è sovraeccitato, pensa per frasi minime, sintatticamente slegate, e solo l’ultimo periodo si rovescia, come un fiume corrente e violentissimo,  a travolgere il “miserabile”:

“… E l’ irritazione nervosa gli crebbe.| Se, la sera avanti, dopo lo schiaffo a tradimento.| Glielo avessero lasciato bastonare ben bene, non si sarebbe trovato ora nella dura necessità di uccidere quel povero pazzo, così malandato e miserabile …” [La signora Speranza].

Nei suggestivi e tremendi discorsi interiori espressi nell’indiretto libero, Pirandello abbandona dunque la lingua “grigia” tipica delle descrizioni dei contesti piccolo-borghesi , e tende invece ad assumere toni e colori decisamente drammatici, e talvolta poetici: di qui l’uso di termini evocativi, di aggettivi, di toni enfatici, di figure retoriche:

“… Guardava le stelle; aveva sotto gli occhi tutto il paese, una strana vista; tra il chiarore che sfumava dai lumi delle strade anguste, brevi o lunghe, tortuose, in pendio, la moltitudine dei tetti delle case, come tanti dadi vaneggianti in quel chiarore; udiva nel silenzio profondo delle viuzze qualche suono di passi: la voce di qualche donna che forse aspettava come lei; l’abbajare [sic] di un cane e, con più angoscia, il suono dell’ora del campanile della chiesa più vicina. Perché misurava il tempo quell’orologio? A chi segnava le ore? Tutto era morto e vano…” [Leonora, addio!].

Ma il tono poetico del discorso indiretto libero non significa “comprensione”, ma soltanto intuitiva appercezione di taluni sentimenti indistinti del personaggio, che si sofferma incerto e dubbioso di fronte a certi oggetti simbolici:

“Perché misurava il tempo quell’orologio?”.

L’ “estraneità assoluta”  è conseguita da Pirandello al diapason delle possibilità  linguistiche nel teatro, dove il rapporto dell’autore con i suoi personaggio si  spezza e s’infrange del tutto. Il teatro è l’inevitabile esito di un’arte forgiata sull’incudine dell’indifferenza, dell’estraneità, e dell’impersonalità del “parlato” teatrale , ove, tra l’altro, come nota Giovanni Nencioni, egli consegue risultati di notevole rilievo sotto il profilo stilistico, soprattutto per “l’alternarsi e intrecciarsi delle voci… Un costrutto lanciato da un personaggio, e interrotto da un altro, può essere raccolto e proseguito da un terzo e concluso da un quarto, così da passare mnemonicamente e formalmente integro, ma non monotono…” (7).

Attraverso il teatro  Pirandello dimostra, “come in  un  teorema”, ad una platea vasta di spettatori, il suo credo viscerale circa l’ assoluta incomunicabilità tra gli uomini; e, per risultare più convincente, egli si eclissa completamente, facendo parlare  gli “altri”, quei suoi “personaggi” che ormai vivono di vita autonoma rispetto ad esso. Per Pirandello dunque noi, noi tutti, senza distinzioni, senza eccezioni, siamo isole  separate da un mare innavigabile, sempre in tempesta.  Si legga una parte del dialogo tra L’uomo dal fiore in bocca e Un avventore. Alla fine, l’impressione che si ricava è netta: nonostante i titanici (ma inani) tentativi dell’ “uomo dal fiore in bocca” di farsi capire, l’ “avventore” viene letteralmente spiazzato. Egli non comprende, risponde a monosillabi: cosa che tutti fanno, quando  il senso di un discorso non è assolutamente inteso, e le risposte, a loro volta,  si riducono a monosillabi incomprensibili, o di pura compiacenza rispetto a un discorso che, scaturendo dal profondo, non può, quasi per definizione, essere compreso dagli “altri”.

 L'UOMO DAL FIORE IN BOCCA

UN PACIFICO AVVENTORE

…E così ha lasciato tutti quei pacchetti in deposito alla stazione?

L'AVVENTORE. Perché me lo domanda? Non vi stanno forse sicuri? Erano tutti ben legati...

L'UOMO DAL FIORE. No, no, non dico!

Pausa

Eh, ben legati, me l'immagino: con quell'arte speciale che mettono i giovani di negozio nell'involtare la roba venduta...

Pausa

Che mani! Un bel foglio grande di carta doppia, rossa, levigata... ch'è per se stessa un piacere vederla... così liscia, che uno ci metterebbe la faccia per sentirne la fresca carezza... La stendono sul banco e poi con garbo disinvolto vi collocano su, in mezzo, la stoffa lieve, ben piegata. Levano prima da sotto, col dorso della mano, un lembo; poi, da sopra, vi abbassano l'altro e ci fanno anche, con svelta grazia, una rimboccaturina [sic], come un di più per amore dell'arte; poi ripiegano da un lato e dall'altro a triangolo e cacciano sotto le due punte; allungano una mano alla scatola dello spago; tirano per farne scorrere quanto basta a legare l'involto, e legano così rapidamente, che lei non ha neanche il tempo d'ammirar la loro bravura, che già si vede presentare il pacco col cappio pronto a introdurvi il dito.

 

L'AVVENTORE. Eh, si vede che lei ha prestato molta attenzione ai giovani di negozio.

L'UOMO DAL FIORE. Io? Caro signore, giornate intere ci passo. Sono capace di stare anche un'ora fermo a guardare dentro una bottega attraverso la vetrina. Mi ci dimentico. Mi sembra d'essere, vorrei essere veramente quella stoffa là di seta... quel bordatino... quel nastro rosso o celeste che le giovani di merceria, dopo averlo misurato sul metro, ha visto come fanno? se lo raccolgono a numero otto intorno al pollice e al mignolo della mano sinistra, prima d'incartarlo.

Pausa

Guardo il cliente o la cliente che escono dalla bottega con l'involto appeso al dito o in mano o sotto il braccio... Li seguo con gli occhi, finché non li perdo di vista... immaginando... - uh, quante cose immagino! Lei non può farsene un'idea.

Pausa - Poi, cupo, come a se stesso:

Ma mi serve. Mi serve questo.

L'AVVENTORE. Le serve? Scusi... che cosa?

L'UOMO DAL FIORE. Attaccarmi così - dico con l'immaginazione - alla vita. Come un rampicante attorno alle sbarre d'una cancellata.

Pausa

Ah, non lasciarla mai posare un momento l'immaginazione: - aderire, aderire con essa, continuamente, alla vita degli altri... - ma non della gente che conosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, una nausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione può lavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minime apparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora! fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; ci vivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire... sa quel particolare alito che cova in ogni casa? nella sua, nella mia. - Ma nella nostra, noi, non l'avvertiamo più, perché è l'alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che lei dice di sì...

L'AVVENTORE. Sì, perché... dico, deve essere un bel piacere codesto che lei prova, immaginando tante cose...

L'UOMO DAL FIORE (con fastidio, dopo averci pensato un po'). Piacere? Io?

L'AVVENTORE. Già... mi figuro...

L'UOMO DAL FIORE. Mi dica un po'. E` stato mai a consulto da qualche medico bravo?

L'AVVENTORE. Io no, perché ? Non sono mica malato!

L'UOMO DAL FIORE. Non s'allarmi! Glielo domando per sapere se ha mai veduto in casa di questi medici bravi la sala dove i clienti stanno ad aspettare il loro turno per essere visitati.

L'AVVENTORE. Ah, sì. Mi toccò una volta d'accompagnare una mia figliuola che soffriva di nervi.

L'UOMO DAL FIORE. Bene. Non voglio sapere. Dico, quelle sale...

Pausa

Ci ha fatto attenzione? Divano di stoffa scura, di foggia antica... quelle seggiole imbottite, spesso scompagne... quelle poltroncine... E` roba comprata di combinazione, roba di rivendita, messa lì per i clienti; non appartiene mica alla casa. Il signor dottore ha per sé, per le amiche della sua signora, un ben altro salotto, ricco, bello. Chi sa come striderebbe qualche seggiola, qualche poltroncina di quel salotto portata qua nella sala dei clienti a cui basta questo arredo cosi, alla buona, decente, sobrio. Vorrei sapere se lei, quando andò con la sua figliuola, guardò attentamente la poltrona o la seggiola su cui stette seduto, aspettando.

L'AVVENTORE. Io no, veramente...

L'UOMO DAL FIORE. Eh già; perché non era malato...

Pausa

Ma neanche i malati spesso ci badano, compresi come sono del loro male.

Pausa

Eppure, quante volte certuni stanno lì intenti a guardarsi il dito che fa segni vani sul bracciuolo [sic] lustro di quella poltrona su cui stan [sic] seduti! Pensano e non vedono.

Pausa

Ma che effetto fa, quando poi si esce dalla visita, riattraversando la sala, il rivedere la seggiola su cui poc'anzi, in attesa della sentenza sul nostro male ancora ignoto, stavamo seduti! Ritrovarla occupata da un altro cliente, anch'esso col suo male segreto; o là, vuota, impassibile, in attesa che un altro qualsiasi venga a occuparla.

Pausa

Ma che dicevamo? Ah, già... Il piacere dell'immaginazione. - Chi sa perché, ho pensato subito a una seggiola di queste sale di medici, dove i clienti stanno in attesa del consulto!

L'AVVENTORE. Già... veramente...

L'UOMO DAL FIORE. Non vede la relazione? Neanche io.

 

Così Pirandello ci lascia la sua eredità, il suo credo di tutta la vita, che coincide esattamente con questa semplice proposizione: siamo uomini, sì, ma … irrelati

                                                                                         

                                                                Enzo Sardellaro

 

Note

    

 

1) M. L. Altieri Biagi, Pirandello, dalla scrittura narrativa alla scrittura scenica, in La lingua in scena, Bologna, Zanichelli, 1980, pp. 172-173. Sull’importanza di Pirandello nella formazione di una lingua media per l’italiano, cfr. p. 163: “…Diciamo subito… che… Pirandello, se non ha attirato come meritava l’attenzione dei linguisti distratti da più vistosi oggetti, si è assicurato un posto significativo nella storia della formazione della nostra lingua nazionale…”.

     2) L. Pirandello, Nell’albergo è morto un tale, in  Novelle per un anno, a c. di M. Costanzo Milano, Mondadori, 1990.

     3) L. Pirandello, La carriola, in Novelle per un anno, cit., vol. III.

     4) B. Terracini, Le ‘Novelle per un anno’ di Luigi Pirandello, in Analisi stilistica, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 335-336, nota 70. Il saggio di Terracini, estremamente ampio e articolato, con ricchissima bibliografia, si legge alle pp. 285-395.

    5) L. Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Quaderno I, capp. I-II, in Tutti i romanzi, a c. di G. Macchia e M. Costanzo, vol. II, Milano, Mondatori, 1973.

  6)   L. Pirandello, Enrico IV, in Maschere nude, a c. di A. D’Amico, Atto II, vol. II, Milano, Mondatori, 1993.

 7)   G. Nencioni, Tra grammatica e retorica, Torino, Einaudi, 1983, p. 222.

 


Id: 419 Data: 27/06/2014 21:50:48

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- Storia

Gli “assi portanti” della Guerra nel Vietnam

La Guerra nel Vietnam ha prodotto, nel corso degli anni,  lo sviluppo di una grande quantità di studi e di “opinioni” intorno alle “cause” di questo conflitto che, a tutt’oggi, grazie anche, e forse bisognerebbe dire “soprattutto”, al cinema, è rimasto nella memoria collettiva delle società occidentali come un fatto “enorme”, per via delle sofferenze inaudite cui furono sottoposti “tutti”, senza eccezione, dalle popolazioni civili locali ai soldati americani.

 

Intanto, bisogna considerare un fatto fondamentale, e cioè che, “prima” degli americani, in Indocina c’erano stati i francesi e che la loro azione in questo scacchiere strategico del mondo, immerso in quegli anni nella “Guerra Fredda”, operò feroci repressioni che, alla fine, non ebbero tuttavia l’effetto di piegare le popolazioni locali. A quei tempi, uomini molto vicini al Generale De Gaulle, come Jean Sainteny, avevano capito perfettamente che la repressione non sarebbe servita a niente. Sainteny, un personaggio oggi pressoché dimenticato, ebbe invece, in quegli anni, un duplice ruolo, come storico e come “protagonista” degli eventi. Come storico infatti scrisse l’ Histoire d’une paix manquée: Indochine 1945-1947 (1) . Sainteny era  assolutamente convinto del fatto che la politica  di repressione e di aggressione  in Indocina era condannata alla disfatta. Queste sue idee erano maturate in seguito ad una larga esperienza di uomini e di fatti. Egli aveva conosciuto  personalmente Ho Chi Min, e godeva al tempo stesso della fiducia del Generale De Gaulle. Per queste ragioni,  Sainteny fu inviato nel 1966 in Indocina per discutere con Ho Chi Min il problema della “neutralità” dell’Indocina secondo le linee-guida impostate a suo tempo  a Ginevra. Per di più, Sainteny era anche  assolutamente contrario ad un eventuale intervento degli americani  volto a “sostituire” in qualche modo  i francesi.

 

Quali furono  le motivazioni che spinsero gli Stati Uniti a impegnarsi in Vietnam? Quali furono  le ragioni profonde che spinsero gli Stati Uniti, nonostante il recente fallimento francese, a entrare in rotta di collisione con uno dei più forti movimenti rivoluzionari anti-coloniali del XX secolo?  Penso che queste ragioni non stessero né nella stupidità del governo americano, né nella mancanza di informazioni, né tantomeno nella incapacità di comprendere da parte degli americani in quale ginepraio si sarebbero andati a cacciare.

 

In questa nostra operazione di “descrizione” di quel lontano passato, osserveremo un dato che allora fu reiterato con un’ insistenza parossistica da “tutte” le componenti governative americane e da quanti, storici e giornalisti, ne sostennero la tesi di fondo, e cioè che gli Stati Uniti intendevano dimostrare al mondo di essere l’unica potenza in grado di bloccare l’ “espansionismo comunista cinese” in un Paese (il Vietnam) che, agli occhi di molti americani dell’epoca, appariva come “l’ultimo baluardo” al dilagare del  comunismo in Indocina, impedendo quello che, da allora, fu chiamato “l’effetto domino”, ovvero l’avanzata, che pareva inarrestabile, delle forze comuniste nel Sud-Est Asiatico. Questa convinzione fu l’ “asse portante” su cui molti storici e giornalisti basarono il loro sostegno all’intervento americano in Vietnam.

 

Sul versante opposto, gli analisti di sinistra sostennero, al contrario,  che il “blocco” dell’espansionismo comunista non fu la  ragione “reale” dell’intervento americano nel Vietnam. Infatti molti storici di sinistra dell’epoca sottolinearono  che “l’effetto domino” era soltanto la “piattaforma ideologica” che nascondeva una realtà,  politica, strategica, ed economica molto più “cruda” , ovvero che la presenza americana  in Vietnam avrebbe segnato soltanto il passaggio dal “colonialismo europeo” all’ “imperialismo americano”, appoggiato dalle classi sociali privilegiate del Vietnam del Sud.

 

Si parlò pertanto di un “Neo-colonialismo Americano”, di un’ indebita ingerenza  economica e militare, che preludeva all’ occupazione  di un paese “terzo”, e ciò in contrasto con le ipotesi ventilate a Ginevra (che prevedevano una possibile riunificazione del Paese dopo libere elezioni). Ci furono anche severe critiche da sinistra alla politica di John Kennedy nel Vietnam del Sud, perché, secondo alcuni osservatori,  gli americani avrebbero implementato alcune strategie che, effettivamente, potevano far pensare ad una vera e propria repressione. I sospetti  in particolare afferivano  al “ Piano Taylor ”, così chiamato perché  escogitato da Stanley Taylor, al tempo uno  stretto collaboratore di Kennedy,  che prevedeva il “forzato trasferimento” di tutta la popolazione rurale sud-vietnamita  in alcuni campi a Saigon, per avere così un capillare controllo sulle popolazioni locali e “stroncare” la guerriglia alle radici.

 

A questo punto del nostro discorso,   abbiamo individuato gli “assi portanti” della guerra in Vietnam; gli americani la  presentarono come la “lotta contro il  dilagare del comunismo  nel Sud-Est Asiatico”, mentre dai Vietnamiti e da molti storici ed intellettuali di sinistra il conflitto fu vissuto come una “Guerra d’Indipendenza” dall’ “Imperialismo americano”, che, a loro modo di vedere, si proponeva esclusivamente la salvaguardia  degli interessi politici, economici e strategici americani nel mondo.

 

Queste furono le “macro-cause” della Guerra  nel Vietnam.

 

A queste due cause probabilmente qualcuno potrebbe aggiungerne altre, che, in fondo, a mio avviso, altro non sarebbero se non  ulteriori (e forse anche pletorici) “corollari” alle due poc’anzi citate. Non si vuole affrontare in questa sede il problema relativo alla “fondatezza” delle cause stesse, ma soltanto sottolineare il fatto che esse furono, comunque, sentite e vissute come “vere”, a seconda delle rispettive posizioni ideologiche, dagli opposti schieramenti, anche perché la propaganda delle due parti in conflitto batté sempre, e pressoché esclusivamente,  su queste due tesi di fondo, ciascuna parte parlando  al  “proprio popolo” (2) .

 

                                                                    Enzo Sardellaro

 

 

 

Nota

 

1)      Jean Sainteny, Histoire d’une paix manquée: Indochine 1945-1947, [Paris, Amiot-Domont, 1953].

2)  Intorno alla storiografia vietnamita contro l’ Imperialismo e il Neo-colonialismo  americano, ricordo qui gli articoli dell’economista Vo Nhan, pubblicati sulla Rivista di lingua francese  Le Courier du Vietnam. Per la storiografia americana dell’epoca, cfr. Bernard Fall, The Vietminh Regime, New York, Institute of Pacific Relations, 1956; Le Vietminh, Paris, Colin, 1960; Street without Joy, Harrisburg,  Stackpole, 1961;  The Two Vietnam, New York, Praeger, 1965).

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Id: 417 Data: 19/06/2014 01:40:56

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- Letteratura

Sanguineti e i campi semantici della Livida Palus

Sanguineti nella Livida Palus: “un viaggio esploratore e demistificatore nell'inferno della storia” (G. Sica)

 

Sanguineti fu uno scrittore e un poeta “culto”, che sapeva trarre dalla nostra tradizione letteraria i succhi più intriganti e “misteriosi”, che, proprio per la loro apparente “incomprensibilità”, attirano il lettore, e  lo fanno arrovellare (spesso invano)  su quella materia che, per tradizione, è stata etichettata come “Neo-Avanguardia”.  La poesia d’avanguardia è già di per sé  materia ostica, specialmente perché attua un gioco baroccheggiante con la lingua, rendendola estremamente impermeabile ad una facile comprensione. Del resto, Sanguineti  fece della destrutturazione della lingua uno dei suoi cavalli di battaglia, e uno dei punti cardine della sua lotta asperrima contro la “lingua borghese”, il mercato e tutto ciò che sapeva di “capitalismo”, e di “mercificazione”.

 

La decodifica delle poesie di Sanguineti non è dunque semplice, perché richiede il riferimento a tutta una vasta serie di strumenti linguistici,  eruditi, storici, letterari, e psicanalitici. Però, in questo saggio,  focalizzeremo essenzialmente la nostra attenzione sulle molteplici implicazioni semantiche  della  “livida palus”, un’espressione che ricorre insistentemente in Laborintus, di cui riportiamo qui  alcuni versi:

                                                                                      Livida Palus

Livida nascitur bene strutturata Palus; lividissima (lividissima terra)

(lividissima): cuius aqua est livida (aqua) nascitur (acqua) lividissima!

Et omnia corpora oh strutture! Corpora o strutture mortuorum

Corpora mortua o strutture putrescunt; … (1).

 

Che la “palus-palude”, “la cui acqua è livida” [“cuius aqua est livida”], e da cui nasce un’acqua ancor più livida, dove imputridiscono [“putrescunt”] i cadaveri, i “corpora mortua”, è un fatto incontestabile. “Corpora mortua”  è una tipica espressione con cui in latino  si indicavano i cadaveri.  In generale,  la “lividissima palus” è stata vista, partendo dal punto di vista psicanalitico,  come una “descensio ad inferos”,  nel profondo dell’inconscio. L’assunto di questo lavoro è tuttavia quello di mettere tra parentesi gli aspetti psicanalitici per riunire, per quanto  è possibile, i fili che riconducono  la  “livida palus” alla “palude sociale”,   venefica per l’ “intera società”. Il che non  è un dato  da dimostrare, ma un fatto  ampiamente assodato dai presupposti teorici della Neoavanguardia e da Sanguineti stesso, il quale in Laborintus destrutturò sì la lingua,  ma per parlare d’ “altro”, certamente non di “estetica”. “Ciò che l’avanguardia esprime, osservò Sanguineti, è dunque, in modo privilegiato, una verità generale di carattere sociale, e non già, semplicemente, una verità particolare di carattere estetico […] E le neo-avanguardie costituiscono, nella loro configurazione generale, un appello contro l’ordine neo-capitalistico” (2).

 

“Il bisogno di liberazione, di emancipazione, vissuto nella memoria, prosegue, senza soluzioni di continuità, nella realtà”, scrisse G. Sica,   perché “il caos torbidamente contraddittorio della società capitalista viene sardonicamente e tragicamente percorso, attraversato fin nei recessi più oscuri […] L'inferno storico è […] metaforizzato dall'inferno coscienziale […] La nuova poesia sanguinetiana emerge dalla profondità della ‘Livida Palus’ alla superficie della storia; la struttura metaforica di Laborintus si distende ora orizzontalmente, nel senso della contiguità” con la storia (3). E di nuovo G. sica  sottolinea: “Sanguineti tenta di reinterpretare le possibilità critiche di un autore ideologicamente borghese, assumendo Alberto Moravia come figura emblematica […], [che] consuma la sua partecipazione negativa al mondo borghese, offrendo un paradigmatico esemplare di intellettuale borghese che, praticando la via del realismo, sviluppa forti istanze critiche nei confronti di quella realtà, assunta come totalizzante, che è, propriamente la realtà della borghesia” (4). In conclusione, Laborintus è  “un viaggio esploratore e demistificatore nell'inferno della storia”, perché è questo il compito dello scrittore d’avanguardia, che si fa paladino di una “société démocratique”, ma senza infingimenti e puerilità, perché, come acutamente sottolineava E. Zola, debitamente citato da Sanguineti,  “il faut reconnaître la puissance, la justice et la dignité de l’argent” [Bisogna riconoscere la potenza, la giustizia e la dignità del denaro] (5).

Laborintus  è un titolo  che già di per sé costituisce un problema interpretativo. Sanguineti prediligeva i termini latineggianti o comunque i riferimenti colti. Si pensi, per esempio, alle poesie de Il purgatorio de l’inferno, titolo tratto da un’opera perduta di Giordano Bruno, dedicata dal filosofo di Nola all’inglese Smith.

 Laborintus è stato concordemente spiegato dalla critica come un  “labor intus”: “Le néologisme Laborintus est formé à partir de deux monèmes latins (le substantif labor et l'adverbe intus)” [ Il neologismo Laborintus è formato da due monemi latini ( il sostantivo labor e l’avverbio intus]  (6). Titululus est laborintus/quasi laborem/habens intus [il titolo Laborintus rimanda al concetto di scavo interiore] , con riferimento alla glossa di un interprete  della retorica medievale di Everardo: “Il Laborintus di Everardo il Germanico fa parte, come è noto, del novero degli innumerevoli trattati di retorica e di versificazione che, sullo scorcio del XII e per tutto il corso del XIII secolo, caratterizzarono la riflessione critica e teorica sulla poesia” (7). Laborintus implica dunque il concetto di “scavo interiore”, “a descent into the inferno of his own psyche” [una discesa nell’inferno della propria psiche] (8),  attraverso una  rutilante e straordinaria combinazione di sostanza politico-sociale e di parole antiche e preziose.

 

Venendo ora alla “Livida Palus”,  è pressoché un truismo ricordare  che Sanguineti intendeva  riferirsi non soltanto all’in sé, ma anche al “fuori da sé”, ovvero  alla “palude sociale” e “capitalistica” con cui tutti, nessuno escluso, ci dobbiamo confrontare. I riferimenti dotti sono  espliciti, perché l’espressione “livida palus” ricorre spesso nei classici e, tradotta, anche in Dante, con riferimento a Caronte, vero e assoluto dominatore della “livida palude”. Tuttavia,  il problema  è soprattutto quello di chiarire  in che modo la palude-società-capitalistica di Sanguineti sia così potente da invischiare praticamente “tutti” e “tutto”. Certamente l’idea di “palude”, dell’essere “invischiati nella palude”,  è un’immagine di per sé potente, che rende bene il concetto, ovvero che “questa” società ci sta “impaludando” tutti  dentro  “lo straripante e magniloquente bazar della civiltà dei consumi” (G. Sica).  Però, l’ “imago” diventa di gran lunga più potente se pensiamo che la parola “palus” è variamente “imparentata” con un altro termine mortifero, ovvero “pestis”, la terribile peste.  Che in Sanguineti fosse presente il rapporto “palus-pestis” è un altro  dato pressoché scontato: “Che la Grande Peste sia percepita, scrisse Sanguineti,  e non dal Boccaccio soltanto, come sintomo e segno di una crisi di civiltà, anzi come la Grande Crisi per eccellenza, sembra un fatto storicamente assodato” (9). In effetti,  soltanto lo stretto rapporto “palus-pestis” può effettivamente assumere quella “terribilità” che la “livida Palus”  sembra voler esprimere. Molte cose legano la “palus” alla “pestis”: tutti gli antichi sapevano che la “palus” era foriera della terribile peste. I campi semantici della “palus-pestis” sono affetti da eccezionale prossimità. La palude emana “effluvi” mortiferi che spesso sono “forieri” della peste.

 

I campi semantici della “livida palus”

 

Ora, la palude è definita nei dizionari antichi  in vari modi, tra cui “grave caenum”, con il significato etimologico di “palus”, ovvero “fango” e “melma”. Poi il campo semantico si allarga, e si arriva a “grave olens”, cioè “puzzolente” e a “grave olentia”, con il significato di “morbo” e “puzza”. Pertanto il campo semantico della “palus” sfocia verso un “morbo puzzolente”, e un “effluvio” che produce “morbi” (10). G. Devoto, a proposito dell’etimologia della parola “peste”, sottolineava che il termine ha un significato “immobile”: “E’ una origine etimologicamente controversa: ‘dal latino pestis - scrive il glottologo Giacomo Devoto - la parola è immobile, così per forma come per significato. Ma la sua forma - aggiunge - mi conduce a collegarla con una radice indoeuropea antichissima, pes, che significa soffiare. Un soffio mortale dunque, […]”  (11). Pertanto,  “palus” e “pestis” sono entrambi  “effluvi mortali”. Stabilita questa equazione,  è sicuramente più semplice intuire ciò che Sanguineti andava dicendo, ovvero che la “palus-pestis” ( sott. capitalistica) andava semplicemente “destrutturando alle radici” l’uomo e la società. Storicamente, la peste è sempre stata vista come un qualcosa di “distruttivo”, che letteralmente “snaturava”  i rapporti sociali. E subito la mente corre a Manzoni, al Ripamonti e a tutta una serie di esempi che percorrono tutta la “letteratura” sulla peste, fin dall’antichità.

 

Alcuni anni or sono su Lingua e stile apparve un bel saggio, dedicato al Ripamonti e a tutta una serie di significati relativi alla peste e alla sua forza distruttiva sulla società  (12).  Dagli esempi classici citati da C. P. Bonfitto, emerge, dispersa  qua e là, una parola latina su cui la peste infieriva senza pietà: corpora. I corpi martoriati degli appestati.  Corpora è un  termine latino “forte”, che rimanda appunto al corpo nella sua cruda naturalità, soggetto alla morte e alla corruzione, molto diverso da figura o forma, che invece si soffermano  sul senso estetico della visione del corpo. In Sanguineti i “corpora … putrescunt” [i corpi imputridiscono].  Che è poi l’immagine medievale più forte del dispregio per il corpo, “segnato dalla ‘dissolutio’ , dalla ‘pollutio’ e dalla ‘putredo’".  Innocenzo III scriveva: “ Quale frutto produce l’uomo? Osserva le piante erbacee e gli alberi: producono da sé fiori, fronde e frutti; e tu da te lendini, pidocchi e vermi. Essi spandono da sé olio, vino e balsamo, e tu da te sputo, orina e sterco; da sé essi spirano prodotti soavi, e tu da te emani un puzzo abominevole” (13).

 

Laborintus 

 

Innanzi tutto, la peste è “metafora del disordine” (14), e “disordine” è termine che ricorre spesso in Sanguineti: “Sanguineti vede nel  ‘ritorno al disordine’ indiscussamente e pure spavaldamente proclamato dai novissimi e, più in generale dalla neoavanguardia,  ‘la via maestra del ritorno al tragico’ ” (15).  Allorché il Ripamonti descriveva gli effetti “sociali” della peste, le considerazioni che “erano dietro tali visioni è che la peste ‘non conosce età né sesso. Non istima egualità o inegualità d’humori. Non cura buono o reo comportamento. Tanto i ben disposti quanto i mal sani divora. Non meno i rustici che i nobili trangugia’ […] La confusione indecorosa è un motivo presente anche nelle narrazioni classiche della peste […]  “mixta iacentia incondita vivis/ corpora ”; “Omnis aetas pariter et sexus ruit/ corpora” ( Lucano, “Pharsalia”, VI, vv. 101-102) (16) . Spesso, la peste è anche indicata come una “malattia dello spirito”: “L’archetipo della peste come metafora risale, per la cultura cristiana, alla stessa Bibbia, dove gli aggettivi ‘pestilens’ e ‘pestiferus’ indicano non una malattia fisica ma un vizio dello spirito” (17), Inoltre, la peste è anche “metafora del niente, del non senso […] ‘La peste comme signifiant le non-sense’ [La peste intesa come non-senso]”  (18). Anche in Laborintus le incursioni verso il nonsense sono frequenti. In una intervista a Sanguineti, l’interlocutore osservava: “Molte frasi in Laborintus mi hanno intrigato ma ce n’è una in particolare […]: ‘i fiammiferi con secchezza sotto i tuoi conigli sottrarre’. Si tratta  di un’immagine che è sorta pressoché direttamente dal suo inconscio?”

Risposta: “ In quella zona di Laborintus [c’è] […] una serie di poesie, seppure non del tutto priva di senso, proiettata verso un nonsense” (19). In effetti, molte  immagini di Laborintus sono di una rapidità tale che il lettore perde letteralmente i rapporti sintattici, e si lascia travolgere in modo inesorabile  dall’avanzare tumultuoso,  confuso e fangoso  della “Livida Palus”: ci troviamo di fronte a quello che si può a giusta ragione definire un reale “assemblage a-semantico” (G. Sica).

 

e ah e oh? (terre?)

complesse composte terre (pietre); universali; Palus;

(pietre?) al tuo lividore; amore; al tuo dolore; uguale tu!

Una definizione tu! Liquore! Definizione! Di Lazlo definizione!

Generazione tu! Liquore liquore tu! Lividissima mater:

 

Lirica come spectaculum

 

In realtà Sanguineti, con le sue effervescenti scelte semantiche ed erudite  sta semplicemente “spettacolarizzando”  la lirica. Quello a cui stiamo assistendo è uno “spettacolo”, oserei dire “pirotecnico”,  che letteralmente ci “sbalordisce”. E’ ciò che Sanguineti voleva, perché qui egli stava applicando, con successo, ciò che si chiama l’ “effetto straniante” sul  lettore, ed è, al tempo stesso, l’ “effetto straniante” che la  stessa “Palus-pestis” offriva con il suo spettacolo di orrori. Anche la parola spectaculum entra nel campo semantico della peste, e sappiamo come il teatro costituisse continuo motivo di riflessione in Sanguineti (20).  Il termine spectaculum rimanda infatti al teatro e alla commedia, condannato dalla chiesa come “negotium diaboli”, “spectacula abominanda” e “fascinazione” sugli spettatori. La fascinazione è pericolosa, perché prelude alla volontà di un “mutamento sociale”: “La finzione […] provoca meraviglia e guadagna gli animi degli spettatori […]  e [li] influenza negativamente”; in conclusione, lo spectaculum , come la peste, esprime metaforicamente “la violazione dell’ordine” e dell’ “imago di una ordinata società” (21) . C. Bonfitto ricorda anche quanto scriveva Antonin Artaud: “La fascinazione gioca un ruolo importante nel teatro della crudeltà: ‘Come la peste, la rappresentazione teatrale è un delirio […]  Lo spirito crede in ciò che vede e fa ciò che crede: è il segreto dell’incantesimo” (22).

 

Sanguineti: saltimbanco della propria anima e arcifilologo arcimboldesco (A. Giuliani)

 

E a far vacillare tale “imago ” di società, interviene dunque l’effetto straniante. Ancora G. Sica  ricorda che Bertold Brecht diceva: “Il modo di parlare dei clown da circo e il modo di dipingere usato nei baracconi da fiera esercitano un’azione di straniamento” (23). E ancora, lo straniamento “è una tecnica con la quale si può dare ai rapporti umani rappresentati  l’impronta di cose sorprendenti, che esigono spiegazioni non ovvie. E infine, lo straniamento è necessario perché si capisca, di qui dunque l’importanza del sorprendente (24). G. Scalia sottolineava al proposito che “l’azione-programma  (che si manifesta attraverso la fondamentale azione dello ‘straniamento’) è un’azione distruttiva sulla lingua intesa come sistema di rapporti comunicativi e di tipi di comunicazione. Tale azione è, insieme, azione di demistificazione, de-sublimazione e destrutturazione del sistema” (25).  E mentre Sanguineti  definì se stesso, a mo’ dei “clown da circo” evocati da  Brecht,  saltimbanco della propria anima, A. Giuliani usava nei suoi confronti un’espressione di straordinaria efficacia, arcifilologo arcimboldesco, mentre G. Sica rilevava nel poeta genovese un  “dotto e blasfemo scribacchino”, “dotato di un furore filologico di incredibile energia”.

 

Sanguineti dunque, applicando in Laborintus la tecnica dello straniamento, ci sbigottisce perché il lettore cominci a capire in quale “palus lividissima”  egli si trova a  vivere.  Il tentativo di “smascheramento” della società capitalistica fu uno, se non forse il più importante degli obiettivi della Neoavanguardia, che Sanguineti incarnò alla sua massima potenza. Non per nulla egli è considerato, oggi più di ieri, uno dei maestri indiscussi  e indiscutibili della Neovanguardia italiana.

 

Note

 

1)         E. Sanguineti, Segnalibro: poesie, 1951-1981, Milano, Feltrinelli, 1989,  p. 47.

2)         E. Sanguineti, Avanguardia, società, impegno, in Avanguardia e Neo-Avanguardia, Milano, Sugar, 1966, p. 89, 91.

3)         G. Sica, Edoardo Sanguineti, in Il Castoro, n. 89, Firenze, La Nuova Italia, 1975, p. 78.

4)         Ivi, p. 15.

5)         E. Sanguineti, Avanguardia, società, impegno, cit., p. 100.

6)         V. Thévenon, L’ ‘agrammaticalité’ entre Laborintus et ‘Il giuoco dell’oca’ d’Edoardo Sanguineti, in De la prose au cœur de la poésie, Presse Sorbonne Nouvelle, 2007,  p. 120.

7)         A. Bisanti, L' ‘Interpretatio nominis’ nella tradizione classico-medievale e nel ‘Babio’, in  Filologia mediolatina, 2003,  p. 165.

8)         Cfr. Italian Poetry 1950-1990, Translated and Edited by G. Ridinger-G.P. Renello, Dante University of America Press, 1996, p. 93.

9)     E. Sanguineti, Il chierico organico, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 54.

10)       Vocabolario della Crusca, Venezia,  1734, Vol. II,  p. 122.

11)       G. Cosmacini, Le spade di Damocle: paure e malattie nella storia, Laterza, 2006,  p. 32.

12)       C. P. Bonfitto, Teatro e contagio nella storia del Ripamonti, in Lingua e Stile, a. XVI, n. 2, aprile-giugno 1981, pp. 235 sgg.

13)       Lotharii Cardinalis (Innocentii III), De miseria humanae conditionis, edidit M. Maccarrone, Lucani, in Aedibus Thesauri mundi, 1955, pp. 14-15. Il passo è citato in P. Camporesi, Il sugo della vita. Simbolismo e magia del sangue, Milano,  Arnoldo Mondadori, 1988, p. 87, nota 176. Su altre accezioni latine riguardanti il corpo, cfr. L. Enterline: “Forma can refer to corporeal form, material appearance, contour, figure, shape: it can also refer to physical beauty”[ La parola “Forma” può riferirsi alla forma corporea, al profilo, alla figura, all’ aspetto materiale, alla  forma: si può anche riferire alla bellezza fisica].   L. Enterline, The Rhetoric of the Body from Ovid to Shakespeare, Cambridge University Press, 2004,  p. 63.

14)       C. P. Bonfitto, Teatro e contagio …, cit.,  p. 237, nota 7.

15)       G. Sica, Edoardo Sanguineti, cit., p. 11.

16)       C. P. Bonfitto, Teatro e contagio …, cit.,  p. 238, nota 9.

17)       Ivi, pp. 238-239.

18)       Ivi, p. 241, nota 39, p. 242, nota 21.

19)   Da ‘Laborintus’ a ‘Postkarten’: Intervista ad Edoardo Sanguineti, a cura di J. Butcher, in From Eugenio Montale to Amelia Rosselli: Italian Poetry in the Sixties and Seventies, a cura di J. Butcher e M. Moroni,  Troubador Publishing Ltd, Leicester, 2004, p. 225.

20)       Si pensi a “Passaggio, libretto di un'omonima composizione musicale di Luciano Berio; non un melodramma ma ‘una messa in scena’  per un soprano, due cori e strumenti, scritto tra il1961 e 1962. Eseguito per la prima volta alla Piccola Scala di Milano, nel 1963 […] L'ambigua etimologia di Passaggio ( passus, ma anche patior) rinvia al tema della rappresentazione: il Passaggio sofferto, doloroso dell'individuo moderno nel caos della civiltà tecnologica scandito in sei tappe o stazioni (sei atti), denominati con versetti biblici ed evangelici che alludono parodicamente alla Via Crucis cristiana. Sulla scena vuota una donna, sola, percorre le stazioni di un dramma personale 79 e collettivo; il Coro A, nell'orchestra, amplifica vocalmente, commentandole, le avventure della protagonista; il Coro B, disseminato tra il pubblico, pubblico esso stesso, collettività, costituisce il polo dialettico, drammatizzante, della rappresentazione. Nell' Introitus, a scena aperta, assolutamente buia, le parole del Coro B si levano con una intenzionalità pedagogico-moralistica: sono i difensori dell'ordine costituito, di una ‘ordinata gerarchia’ , ‘imago di una ordinata società’” (G. Sica, p. 81).

21)       C. P. Bonfitto, Teatro e contagio …, cit.,  p. 237 e nota 7.

22)       Ivi, p. 250, nota 42.

23)       Ivi, p. 243, nota 23.

24)       Ivi, pp. 244-245, nota 25.

25)       G. scalia, La Nuova Avanguardia (o della ‘miseria’ della poesia), in Avanguardia e Neo-Avanguardia, op. cit.,   p. 45.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Id: 412 Data: 29/05/2014 12:41:41

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- Letteratura

Arrabbiati e rampanti inglesi e italiani anni ’50 -’60

 La letteratura inglese, già dai primi anni ’50, espresse un gruppo di giovani scrittori “ribelli”, che  proseguirono sulla scia della generazione precedente degli anni ’30, costituita da  Auden, Spender,  Lewis e altri,  che  cercarono di superare la crisi  del loro tempo  con un'attività letteraria in gran parte ispirata al marxismo. Come scrisse acutamente  Mario Praz  nella prima metà degli anni ’60: “Non è soltanto dall’ultima decade [degli anni ‘50] che i giovani si rivoltano in Inghilterra […] Negli anni ’30 si reagiva contro la minaccia di diventare ‘una nazione di aspirine e tè fiacco’ […] si cercava un nuovo ordine, un nuovo senso della vita […] e si credette di trovarlo nel verbo marxista” (1) . I "nuovi ribelli" inglesi ben presto furono etichettati dalla critica come   Giovani Arrabbiati [Angry Young Men],  dal titolo di un dramma che sembrava esprimere al meglio la loro protesta,  cioè Look Back in Anger, di John Osborne: “Osborne, scrisse Elson,  fu rapidamente associato a un gruppo di scrittori, tra cui Colin Wilson e John Braine, che erano noti come i ‘giovani arrabbiati’. Osborne, attraverso Jimmy Porter, riuscì ad esprimere efficacemente le incertezze dei giovani del tempo, le loro frustrazioni e le loro eventuali aspettative di promozione sociale" (2).

I cosiddetti Giovani Arrabbiati  erano poeti e romanzieri che, esplicitamente, “dichiararono guerra”  alla tradizione, all’opportunismo sociale imperante e, in genere,  al  cosiddetto "establishment".  La protesta degli “arrabbiati” si concretizzò  in linea di massima in  un'amara satira della cultura contemporanea e in un aperto  atto d'accusa della cosiddetta  “società del benessere”, esprimendo però, almeno “apparentemente”, è doveroso sottolinearlo,  non tanto il desiderio di una “palingenesi sociale”, quanto la “rabbia” di gente che era esclusa dalle leve del potere e dal denaro. In Italia gli “Arrabbiati” ebbero un’accoglienza critica non particolarmente favorevole. Mario Praz, che fu tra gli ’50 e ’60 uno dei massimi studiosi  dei fermenti della nuova letteratura inglese, ebbe parole molto dure nei loro confronti: “Sono usciti dall’Università come da un sogno, e lungi dall’assimilarsi o dal sentire riconoscenza per la società che li ha così favoriti, son diventati degli spostati. Ecco il perché della loro rabbia, che sovente è una rabbia a vuoto, senza scopo preciso, una turbolenta e incoerente protesta contro l’ambiente circostante, che talora assume un colorito che ricorda davvicino quello del  fascismo”  (3). Mario Praz non risparmiò commenti sarcastici neppure a Osborne, il mentore degli “arrabbiati”, creatore del personaggio di Jimmy Porter,  dipinto, più o meno, come un fenomeno da baraccone: “Lesley Allen Paul, un filosofo religioso, pubblicò nel 1951 un volume dal titolo Angry Young Man, la storia di un marxista che negli anni tra le due guerre s’impegna nella lotta di classe e infine si converte al cristianesimo. Ma l’espressione entrò nell’uso generale dopo la rappresentazione al Royal Court Theatre, l’8 maggiio 1956, di Look Back in Anger di John Osborne, un attore provinciale che fino allora non aveva fatto parlare di sé. Jimmy Porter, l’eroe del dramma, è un nostalgico mascherato da energumeno, che camuffa da lotta di classe la sua nevrosi sessuale […] La figura del ribelle del tipo […] Jimmy Porter  ‘arrabbiato per il fatto stesso di non aver nulla di cui arrabbiarsi’,  […] ricorre in parecchi altri libri pubblicati dopo il 1950 […],  [come] Room at the Top  di John Braine” (4). Più recentemente, la critica non ha usato mezze parole per definire gli “arrabbiati” alla John Brain: “Il denaro quindi, e il successo per mezzo del denaro sono gli ideali anche dei ‘Giovani Arrabbiati’, ideale sintetizzato nel titolo del romanzo di John Braine Room at the Top (1957),  “Un posto in alto”, dove il denaro è il massimo valore […] E pur di raggiungere lo scopo, tutti i mezzi sono buoni, anche sposare una donna non amata, purché di rango sociale superiore” (5).

 

E quella sopra descritta sembrerebbe la “reale essenza”  de L’Arrivato, di John Braine.

Alcuni “Giovani Arrabbiati” scelsero  il romanzo come veicolo privilegiato  della loro protesta, e John Braine fu uno di questi. Egli diventò famoso con due suoi romanzi, uno del  1957 [Room at the Top]  e l’altro del 1962 [Life at the Top ], che  fu tradotto con tempestività  in Italia un anno più tardi, nel 1963,  da Longanesi,  con il titolo emblematico de L’arrivato,  un chiaro riferimento alla corrente dei giovani arrabbiati “rampanti”  in cui Braine era inserito. Tuttavia, già dai primissimi anni ’60 si levò la voce autorevole di Moravia in difesa dei “Giovani Arrabbiati”. Moravia non credeva molto alle interpretazioni correnti, a suo parere restrittive della critica del tempo. In una intervista del 1963 su L’Espresso, Moravia spiegò cosa si dovesse intendere per “protesta” contro l’ “establishment” inglese degli anni ’50: “ Ma che cos’era l’establishment britannico? Era la corte, la società dei potenti, le istituzione, lo Stato etc etc. Non già scrittori come T. S. Eliot […] Auden e tanti altri. In Italia l’establishment non è Bassani […] Cassola, Pasolini, come udii suggerire a Palermo, bensì lo stato italiano, la chiesa, i grandi monopoli industriali” (Intervista su L’Espresso, 20 ottobre 1963). Poi Moravia aggiunse di essere convinto che  nell’interpretazione di questi scrittori “bisogna per forza ricorrere alla diagnosi marxista. Ora la diagnosi marxista, se applicata correttamente all’opera di  questi scrittori, porterebbe secondo me a un giudizio critico diverso” (6) . Lo stesso John Braine sembrò piuttosto incerto circa una precisa definizione degli “Arrabbiati”, cui pure apparteneva:

 

Angry Young Man is a misused and over-used label, but it does have some significance if only that it means that the young writer is rejecting literary formulas” [ Angry Young Man è un’etichetta troppo usata e fin troppo  abusata , ma non ha altro significato se non quello di sottolineare  che il giovane scrittore  rifiuta le formule letterarie precostituite] (7)

 

In realtà il caso di Braine è abbastanza diverso da quello dei suoi colleghi. Lo stesso Kenneth Allsop, che non fu tenero con i “Giovani Arrabbiati”, lo riconobbe esplicitamente: “The larger result is that the new dissentients feel unassimilated […] The go-getter is no new type, either to society or fiction, but the difference in the post-war model is that, although driven by ambition, envy and greed […], he has no admiration or liking for the class he is gatecrashing.  He wants its advantages and privileges, but […] he has no wish to be assimilated. […]” [Il risultato più evidente  è che i nuovi dissidenti si sentono non assimilati […] La figura dell’arrampicatore sociale  non è nuova  nella  società o nella “fiction” , ma nel modello del dopoguerra la differenza sostanziale è che , anche se guidato da ambizione , invidia e avarizia [ ... ] , non ha particolare ammirazione o simpatia per la classe nella quale vuole inserirsi .Vuole  i vantaggi e i privilegi , ma […] non ha nessuna voglia di esservi assimilato] (8).

 

Questo sembra  il caso specifico de  L’Arrivato di John Braine.

 

In questo romanzo si racconta la storia di un uomo che, avendo sposato una donna molto ricca per raggiungere il “top” della scala sociale,  scopre a poco a poco  di non  essere accettato nell’ “high society” cui la moglie appartiene e tenta, senza molto successo, come vedremo, di tornare alla vita di prima, di cui però ben presto si stanca. Il protagonista assoluto de L’Arrivato è Joe Lampton, che ha appunto sposato Susan Brown, la figlia del suo capo, proprietario di un'industria siderurgica, allo scopo di raggiungere il “top” nella scala sociale,  e un successo economico  difficilissimo da conseguire per un uomo della sua estrazione sociale.

 

Il matrimonio con  Susan Brown, tuttavia, si rivela un fallimento pressoché totale. Susan si mostra  insoddisfatta del suo rapporto sentimentale con Joe, finendo per riavvicinarsi a un  suo vecchio amante, Mark.   Joe, a questo punto, si trova impantanato in  un’esperienza esistenziale fatta di superficialità e di aridità sentimentale, con una vita familiare pressoché distrutta (9). Inoltre, anche i rapporti personali  di Joe con il padre di Susan diventano sempre più  tesi e difficili, sfociando in una lite nel corso di una riunione del Consiglio di Amministrazione.  Tornato a casa,  Joe ha, nello stesso giorno, anche una discussione violentissima con Susan, la quale gli confessa per l’occasione che uno dei loro figli, Barbara, è figlia di Mark.  A questo punto, la frustrazione di Joe raggiunge veramente il “top”. Amareggiato, quasi  disperato,  Joe ha uno scatto di  ribellione e vuole fuggire lontano da quel mondo. Infatti lascia tutto e va a vivere in un vecchio appartamento di Londra con la sua amante, Norah. Tuttavia, la determinazione di Joe di rompere ogni legame con Susan e la sua famiglia, a poco a poco, comincia a scemare. Egli inizia  a detestare l'atmosfera grigia e anonima di quel vecchio  quartiere di Londra,  e gli sembra di vivere una vita vuota e priva di significato. Il culmine della frustrazione  è raggiunto quando Joe apprende che Harry, il suo secondo figlio, ha addirittura abbandonato la scuola. Joe prende coscienza che difficilmente si può “tornare indietro” nella vita e decide appunto  di ritornare, sconfitto e con la netta sensazione di un totale fallimento spirituale,  dentro  l’ “istituzione” . 

 

Perché  L’Arrivato ebbe tanto successo?

 

 Il successo del romanzo di John Brain e del suo protagonista,   Joe Lampton, l'eroe della serie di romanzi di  John Braine,   scaturì essenzialmente dall'identificazione dei suoi  lettori con Joe  stesso. Egli infatti riflette  gli obiettivi, le ambizioni e anche il fallimento del “giovane arrabbiato” tipico della società inglese negli anni che seguirono la Seconda  Guerra Mondiale, caratterizzato da una insaziabile volontà di “arrampicata” sociale. Inevitabilmente,  nella sua lotta per raggiungere “la vetta”, il “top”,  si ritrova a dover soffrire di tutta  una serie di conflitti interni (ed esterni),  che  tuttavia egli  è incapace di elaborare, perché  sostanzialmente  “inconsapevole” delle ragioni profonde della sua sconfitta  esistenziale, legata essenzialmente al fatto che era pressoché inevitabile pagare un prezzo molto alto per la sua ascesa  in una classe sociale che non era la sua (10).

 

 Il romanzo di Braine fu tradotto in Italia nel 1963, e, nonostante i duri rilievi della critica, non c’è dubbio che la figura dell’arrampicatore sociale fece breccia nella cultura italiana in genere, soprattutto nel cinema, e specialmente con Alberto Sordi, protagonista insuperabile  delle “incarnazioni” italiane dell’ “arrampicatore sociale”. Già nel 1955, Sordi aveva dato ottima prova di sé con L’Arte di arrangiarsi [1955] di Luigi Zampa, con il personaggio di Rosario Scimoni, “deciso a farsi strada con ogni mezzo” (11). Ma nel 1972 uscì  La più bella serata della mia vita, che è appunto la storia di un “rampante” senza scrupoli. Protagonista de La più bella serata della mia vita è Alfredo Rossi (Alberto Sordi), “un intraprendente commerciante di tessuti, romano ma residente a Milano, disinvolto e cinico arrampicatore  […] che ha fatto una rapida carriera grazie alla moglie del principale, di cui ha preso il posto, alla sua morte” (12). Comunque, la lezione inglese ebbe discreta risonanza in Italia: “Troverà poi spazio sugli scaffali delle librerie italiane anche una nuova narrativa inglese che ritrae in modo terribilmente realistico un’ Inghilterra quasi irriconoscibile per un pubblico educato alle ‘grandi narrazioni’ della prima potenza mondiale, per quanto critiche esse fossero. È un’ Inghilterra ripiegata su se stessa, dalle ambientazioni provinciali e periferiche come in Lucky Jim  (1954) di Kingsley Amis (1922-1995) o della working class  dei romanzi di Alan Sillitoe (1928-2010), Saturday Night and Sunday Morning  (1958) e The Loneliness of the Long Distance Runner  (1959), spinto anche dal successo della trasposizione cinematografica. Si tratta di narrazioni che trovano immediatamente una cassa di risonanza in Italia. Ormai, salvo rare eccezioni, le due letterature, italiana e inglese (britannica), proseguono ‘in simultanea’” (13). In seguito si faranno sentire  anche gli “arrabbiati” italiani, e sarà allora il tempo della Neoavaguardia.

 

Note

 

1)     M. Praz, Cronache letterarie anglosassoni, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1966,  p. 149.

2)     J. Elsom,  Post-War British Theatre,  London,  Routledge, 1976, p. 76.

3)     M. Praz, Cronache letterarie anglosassoni …, op. cit., p. 150.

4)     Ivi, pp. 151-152.

5)     G. Carinelli, The Angry Young Men: una specie di romanzo, in Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Editrice Antenore, 1977, pp. 657-658.

6)     Intervista su L’Espresso, 20 ottobre 1963.

7)     Citato in H. Carpenter, The Angry Young Men: Literary Comedy of the 1950s, London, Penguin Books, 2002, p. 154.

8)     K. Allsop, The Angry Decade, London, Peter Owen Limited, 1958, p. 27 sgg.

9)     H. Blamires,  A Guide to Twentieth Century Literature,  London,  Methuen and Co. Ltd., 1983, p. 33.

10)   J. Braine, Life at the Top,  Boston,  Houghton Mifflin Co., 1962, p. 188.

11)   C. G. Fava, Alberto Sordi, Roma, Gremese, 2003,  p. 84.

12)   P. M. De Santi-R. Vittori, I film di Ettore Scola, Roma, Grenese, 1987,  p. 108.

13)   S. Sullam, Le traduzioni di letteratura inglese in Italia dal 1943 ai primi anni sessanta …”, in  Enthymema, VII, 2012, pp. 146-147.

 

 

 

 

 

 

 

 


Id: 410 Data: 14/05/2014 19:50:38

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- Letteratura

Immagini di Utopia: Joseph Hall e il Mundus Alter et Idem

In genere, allorché si pensa all'Utopia inglese, subito la mente corre a Thomas More; tuttavia, a volte, le Isole Britanniche ci riservano qualche felice sorpresa, e una di queste è costituita dal trattato di uno  scrittore molto prolifico, Joseph Hall, che visse tra '500 e '600, e che si auto-proclamò il primo scrittore di satire della letteratura inglese.

 

Qualche  notizia sulla vita di Joseph ci viene da Henry Morley, che, esaminando alcuni scrittori canonici del pensiero utopico europeo (Plutarco, Licurgo, Moro, Campanella), inserì anche,  in appendice al libro e per  ultimo ,  Joseph Hall, il quale fu autore di un curioso libretto dal titolo abbastanza trasparente, il  Mundus Alter et Idem, che, fuori di metafora, voleva fare intendere ai propri lettori che, bene o male, “tutto il mondo è paese”, e che anche i beati e favolosi regni “altri” di Utopia sono, tutto sommato,  pressoché identici a quello in cui normalmente ci troviamo immersi. Per Joseph Hall, quindi, anche Utopia è “idem”, simile in tutto al nostro mondo. Egli, secondo le notizie forniteci da Morley, era nato nel 1574 a Ashby-de-la-Zouch, Bristow Park, e aveva studiato all' “Emmanuel College” di Cambridge. Tra il 1597 e il 1598 Hall aveva dato alle stampe sei libri di satire, i cosiddetti  Virgidemiarum Six Books, dove, tra l’altro, auto-proclamandosi il migliore poeta satirico sulla piazza, scatenò le ire furibonde di John Marston, che, ovviamente, riteneva se stesso il migliore.

 

Oltre a ciò, le satire di Hall furono dannate al rogo (anche se la sentenza non fu poi eseguita)  per ordine dell'Arcivescovo di Canterbury Withgift, il quale, sempre a detta di Morley, non provava particolari simpatie per il “genere satira” . Joseph Hall però non si perse d'animo, e dopo aver lasciato trascorrere una decina d'anni, nel 1607,  diede alle stampe un nuovo libro “satirico”, ossia il Mundus Alter et Idem, di cui andremo tra breve a discorrere. Joseph Hall era un ecclesiastico e un Accademico (Peregrinus Quondam Academicus) dotato di notevolissima cultura, che fece una brillante carriera, diventando Vescovo di Exeter e Norwich e dimostrando nel contempo di non possedere alcuno spirito arcigno e inquisitoriale, ma, al contrario, un carattere estremamente bonario e tollerante, tanto da mettersi in contrapposizione con John Milton circa la disciplina ecclesiastica, e pagando in prima persona un certo modo di pensare definito da molti “libertino”; infatti Joseph Hall finì in prigione perché i Puritani inglesi non riuscivano proprio a sopportarlo. Ma il nostro faceto Vescovo di Norwich aveva però una fibra di ferro, tanto che, con grave discorno dei suoi detrattori,  visse fino al 1656, meritandosi anche l'appellativo di “Seneca Cristiano”. Il Mundus di Hall fu tradotto dal latino in inglese da John Haley nel 1609, e, intorno al 1709-1710 da William King. Henry Morley, nel 1885  ripropose al pubblico inglese  la traduzione di King (  ignorando quella di Haley). Propongo a mia volta, in italiano, il primo paragrafo del Mundus di Hall: Crapulia.

 

Cap. I  Crapulia

 

The Situation of the Country.

 

Crapulia is a very fair and large territory, which on the north is bounded with the Ethiopia Ocean, on the east with Laconia and Viraginia, on the south by Moronia Felix, and westward with the Tryphonian Fens. It lies in that  part of the universe where is bred the monstrous bird called  Ruc, that for its prey will bear off an elephant in its talons ;  and is described by the modern geographers.  The soil is too fruitful, and the heavens too serene ; so  that I have looked upon them with a silent envy, not without pity, when I considered they were blessings so little deserved by the inhabitants. It lies in seventy-four degrees  of longitude, and sixty degrees of latitude, and eleven degrees distant from the Cape of Good Hope; and lies, as  it were, opposite to the whole coast of Africa. It is commonly divided into two provinces, Pamphagonia and Ivronia, the former of which is of the same length and breadth as Great Britain (which I hope will not be taken as any reflection), the other is equal to the High and Low Dutch Lands. Both obey the same prince, are governed by the same laws, and differ very little in their habit or their manners.

 

Com'è fatta

 

Crapulia è una terra enorme e bellissima, delimitata a nord dall'Oceano Etiopico, ad est dalla Laconia e Viraginia, a sud dalla  Moronia Felix, e verso ovest dalla Palude Trifonia. Si trova in quella parte dell'universo in cui è allevato l'uccello mostruoso chiamato Ruc, che riesce a sollevare con gli artigli un elefante, e così  è descritto da tutti i geografi moderni. Anche il suolo di Crapulia è  fecondo, e il cielo sereno, tanto che li  ho guardati entrambi con una certa invidia, in silenzio, e non senza un sentimento di pietà,  ritenendo fossero benedizioni  poco meritate da parte degli abitanti. Crapulia  si trova a settantaquattro gradi di longitudine,  sessanta  di latitudine, e undici gradi distante dal Capo di Buona Speranza, ed è situata, per così dire, tutta quanta di fronte alla costa africana. È comunemente suddivisa in due province, la Pamphagonia e l’ Ivronia, la prima delle quali è della stessa lunghezza e larghezza della Gran Bretagna (e spererei che la cosa non sia presa come una mia fantasia); l'altra è simile alle Alte e Basse terre olandesi. Entrambe obbediscono allo stesso Prìncipe, sono regolate dalle stesse leggi, e, per abitudini e costumi, differiscono pochissimo tra loro.

                                                             Enzo Sardellaro

 

Nota

 

Ideals Commonwealths: Plutarc's Licurgus More's utopia, Bacon's “New Atlantis”, Campanella's “City of the Sun”, and a fragment of Hall's “Mundus Alter et Idem”, with an Introduction by Henry Morley, London, George Rutledge and sons, 1885, pp. 272-284. Il libro di Hall è di libera lettura (in inglese).

 

 


Id: 404 Data: 08/05/2014 23:40:31

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- Letteratura

L’ Ultimo “rifugio” di Pasolini

Il “Primitivismo” di Pasolini: “poeta” o “romanziere”?

Pasolini fu sempre “contro” la società industriale non soltanto per i mali intrinseci del capitalismo (sfruttamento), ma soprattutto perché letteralmente “corrompeva”  irrimediabilmente lo spirito delle classi popolari, che diventavano come “burattini”, perché sprovvisti di coscienza storico-critica, nelle mani di un “burattinaio” (il capitalismo) che ne distorceva le coscienze “innocenti”. La predilezione di Pasolini per le classi popolari “ancora non tocche” dai traviamenti dell’industrializzazione è un fatto ben noto a tutti. I suoi primi romanzi (Ragazzi di vita e Una vita violenta), ambientati nelle periferie romane, sono la chiara testimonianza di questa sua “passione” per il “primitivismo”, che egli manifestò in varie occasioni, di fronte, per esempio, al degrado cui furono sottoposte le spiagge e le coste italiane agli “albori” dell’industrializzazione in Italia, vale a dire agli inizi degli anni ’60.

 

Diciamo altresì che l’atteggiamento di Pasolini “contro” tutto ciò che sapeva di industrializzazione, specie se “selvaggia”,  era sì un dato “culturale” dell’uomo colto di sinistra, del “comunista critico” che era in lui, ma soprattutto un dato oserei dire “viscerale”, che gli era dettato dal fatto che il suo ’”istinto”  era, sopra tutto, un “istinto poetico”: Pasolini era soprattutto un poeta, e un poeta amante della campagna e delle solitudini nella natura incontaminata. Moravia, che lo conosceva bene, “da sempre” definì Pasolini “essenzialmente” un poeta: “Secondo me Pasolini è il miglior poeta della seconda metà del '900 […] Ho sempre detto che la poesia in Pasolini era preminente, che era un poeta anche nel cinema, nel romanzo, eccetera. Cioè, la sua intelligenza era costituita non di un prosatore o di uomo del cinema, ecco. Non ho detto che era un artista totale, ho  detto che Pasolini era prima di tutto un poeta, poi è stato, secondo me, un cineasta e poi un romanziere, e poi artista in ordine d'importanza”.

 

E per quanto riguarda l’ avversione di Pasolini  per  l’industrializzazione, Moravia, nell’intervista citata sopra, ricordò al suo interlocutore, che, dopo tutto, Pasolini era, per così dire,  “un uomo di campagna”, che veniva da  Casarsa, mentre lui, Moravia, parlava francese “prima di parlare l’italiano”  ed era tutt’altro che avverso all’industrializzazione: “ Io parlavo il francese prima di parlare l'italiano, avevo una posizione europea. Lui veniva invece da Casarsa […]  Pasolini aveva un'idea un po' diversa dalla mia sulla situazione dell'Italia. Lui pensava che tutti i guai  d'Italia venivano dalla fine della cultura contadina, dal consumismo. Io  pensavo il contrario, cioè pensavo invece che non ce n'era abbastanza di cultura industriale, e lo penso ancora, che i mali in Italia vengono da deficiente industrializzazione, dalla corruzione della cultura contadina. Insomma, per dare un esempio, parte dell'Italia era di cultura contadina che però si dissolve, mentre il Nord, bene o male, si è industrializzato, perciò per me l'Italia non è abbastanza moderna, per Pasolini lo era troppo ” (1).

 

La sostanziale  “vocazione poetica” di Pasolini  gli fu riconosciuta anche da critici molto severi, come Seroni, che,  quando apparve il romanzo  “Ragazzi di vita”,  lo stroncò senza tanti complimenti, anche se poi il giudizio fu in qualche modo “limato” da G. Petrocchi  verso la fine  degli anni ’50. E’ comunque significativo che anche Seroni riconobbe esplicitamente il fatto che Pasolini aveva dato il meglio di sé come poeta: “ Che cosa c’è nelle pagine di ‘Ragazzi di vita’? La risposta potrebbe essere molto semplice, un verismo ultra-letterario […]  e i personaggi son marionette senza vita. L’unico elemento positivo del romanzo (che poi romanzo non è) è l’abilità letteraria dello scrittore. Sulla quale, del resto, nessuno ha mai avanzato dubbi. Manca l’umanità, una dote che il Pasolini poeta ci aveva abituato a riconoscergli come propria. E che speriamo di ritrovare ancora …” (2). Il duro giudizio di Seroni fu controbilanciato da quello di G. Petrocchi, che “salvò” Pasolini “anche” come romanziere, ma solo in virtù delle sue doti poetiche. Pasolini nel romanzo espresse  “immagini di FOSCA PUREZZA LIRICA e di torbida morbosità. E’ NATO il POETA di un inedito (o quasi) paesaggio […] dove il limitare della città di Roma sulla CAMPAGNA è effigiato in un sapiente accordo di concretezza ottica e di EMOZIONATA SOLENNITA’ di toni […] L’aspra pietà di Pasolini arriva a pagine di amara dolente POESIA” (3).

 

Il suo “animus” poetico  verso il “primitivismo” Pasolini lo manifestò chiaramente soprattutto nel corso dei  suoi viaggi in Africa, spesso insieme con Moravia,  un paese che egli vedeva minacciato dalla “civiltà industriale” dell’Occidente, per via dello “scandaloso rapporto dialettico che il terzo mondo instaura col mondo industrializzato, neocapitalista o marxista” (4). La stessa Natura era vista da Pasolini “con gli occhi di un poeta”, che ne sentiva inconsciamente la “terribilità”, e la cui “violazione” avrebbe comportato “una catastrofe enorme”, per riprendere alcune significative parole di Svevo: “La Preistoria avrà le sue rivincite: ci umilierà con la sua terribile, trionfante incomprensibilità … Ma che fare?” (5) .

 

L’ “unica alternativa” di Pasolini

 

Nel 1968 Pasolini aveva compiuto un viaggio in Africa, dove prese appunti per la messa in cantiere  di una Tragedia, l’ “Orestiade” di  Eschilo. Proprio in quella occasione, Pasolini si espresse in modo tale che è impossibile non ravvisare in lui  un “poeta”  per eccellenza. L’ “occhio” di Pasolini era l’occhio del poeta, che, in modo oscuro, “vaticinava” catastrofi senza fine “auscultando” semplicemente il vento impetuoso fra gli alberi, forza “terribile” della Natura. Il viaggio in Africa di Pasolini e i suoi “Appunti per un’Orestiade africana” furono e sono tuttora oggetto di ampia disamina da parte della critica, nazionale ed internazionale, e non è mia intenzione entrare in un simile dibattito, se non di sghembo,  per parlare di Pasolini “poeta”.

 

Pasolini negli “Appunti” dice:

 

“Restano altri personaggi da ricercare: le Furie. Ma le Furie sono irrappresentabili sotto l'aspetto umano e quindi deciderei di rappresentarle sotto un aspetto non umano. Questi alberi, per esempio, perduti nel silenzio della foresta, mostruosi, in qualche modo, e terribili. La terribilità dell'Africa è la sua solitudine, le forme mostruose che vi può assumere la natura, i silenzi profondi e paurosi. L'irrazionalità  è  animale.  Le  Furie  sono  le dee del momento animale dell'uomo (6).  Dunque, con una  immagine poetica potentissima, Pasolini ci rappresenta  gli alberi “africani” (le Erinni), che  appaiono  “mostruosi e terribili”,  poiché l’ aspetto “terribile”  dell’  Africa sono  appunto le forze tremende che sa scatenare e le  sue immense  solitudini. Gli alberi-Erinni rappresentano le forme “mostruose” che la Natura può assumere, insieme con  i suoi  silenzi profondi e spaventosi.

“L'irrazionalità è animale”.

 

“Le Furie dell’Orestiade di Eschilo sono destinate ad essere sconfitte, a scomparire. Con esse scompare dunque il mondo degli avi, il mondo ancestrale, il mondo antico; e nel mio film, con esse, è dunque destinata a scomparire una parte dell’Africa antica” (“Appunti”)

 

Nella “Lettera del traduttore”, 1960, Pasolini scrisse:

“La trama delle tre tragedie di Eschilo è questa: in una società  primitiva dominano dei sentimenti che sono primordiali, istintivi, oscuri (le Erinni), sempre pronte a travolgere le rozze istituzioni (la monarchia di Agamennone), operanti sotto il segno uterino della madre, intesa appunto come forma informe e indifferente della natura.  Ma contro tali sentimenti arcaici, si erge la ragione (ancora arcaicamente intesa come prerogativa virile: Atena è nata senza madre, direttamente dal padre), e li vince, creando per la società  altre istituzioni, moderne: l'assemblea, il suffragio. Tuttavia certi elementi del mondo antico, appena superato, non andranno del tutto repressi, ignorati: andranno, piuttosto, acquisiti, riassimilati, e naturalmente modificati. In altre parole: l'irrazionale, rappresentato dalle Erinni, non deve essere rimosso (che poi sarebbe impossibile), ma semplicemente arginato e dominato dalla ragione, passione producente e fertile” (7).

 

Prima di trarre una conclusione, sarebbe anche interessante affrontare   il problema delle “fonti” sia dei concetti espressi nella “Lettera del Traduttore” sia negli “Appunti” sull’ “Orestiade” di Eschilo. Sappiamo che Pasolini aveva tradotto l’ “Orestiade” nel 1959 , e che la pubblicò nel 1960, mentre  gli “Appunti” sono del 1970. Su quali suggestioni Pasolini poté “coinvolgere” un personaggio della tragedia greca come Oreste   nella sua avversione per la società industriale? Le “fonti” di Pasolini furono sicuramente Hegel e Lukàcs, che, appunto, avevano parlato dell’ “Orestiade” proprio in relazione alla società capitalistica. Con il concetto della “tragedia nell’etico”,

 

“Hegel coglie una reale contraddizione insita nella società capitalistica […]  Hegel ci ha dato, secondo Lukàcs, una critica magistrale di quella particolare forma insita nella “tragedia nell’etico”, che è la concezione di essa come lotta degli ‘aspetti luminosi dell’essere umano’ con le ‘oscure potenze sotterranee’. Hegel cita l’ ‘Orestiade’ di Eschilo, dove la lotta di Apollo contro le Eumenidi va intesa per l’appunto come un simbolo della lotta tra il ‘luminoso’ e l’ ‘oscuro’. Tale lotta non si conclude, non può concludersi con la vittoria di uno dei due princìpi e con la distruzione dell’altro. L’ ‘Orestiade’ si conclude con un compromesso, con una conciliazione imposta dal di fuori […] La conciliazione delle Eumenidi vendicatrici è imposta da Pallade Atena. Un intervento esterno ‘aggiusta’ un contrasto, fondamentale, senza sopprimerlo, senza poter evitare che esso insorga di nuovo in futuro […] La civiltà non riesce ad avere la meglio sulla barbarie. Essa può solo porre dei freni” (8).

 

Si noterà che i concetti qui espressi sono pressoché “identici” a quelli di Pasolini. Questa lunga citazione è di Tito Perlini, uno dei maggiori conoscitori di Lukàcs in Italia, e la data di pubblicazione di questo libro è il 1968, due anni prima del viaggio di Pasolini in Africa.  Pasolini era  esperto  sia di Hegel sia di Lukàcs, dei quali conosceva perfettamente il pensiero, e certamente non aveva bisogno di ulteriori conferme. Tuttavia è poco credibile che  il libro di Perlini, del 1968,  fosse ignoto a Pasolini, un libro che, tra l’altro,  “confermava” in modo sintetico ed efficace ciò che egli stesso aveva enunciato già dai primi anni ’60, e poi avrebbe ribadito negli “Appunti”. Credo anzi che il libro di Perlini abbia costituito per Pasolini un’ulteriore “occasione” di riflessione su un tema che gli era caro sin dalla fine degli anni ’50. Come Pasolini ben sapeva,  sarebbe stato  “impossibile” rimuovere  le Furie , né era possibile evitare che esse insorgessero “di nuovo in futuro”.

 

Pasolini non morì nel suo letto.

 

“Africa! Unica mia alternativa” (“Frammento alla morte”). L’ “alternativa africana”, come “ultimo rifugio”,  non gli fu concessa da “Ananke”, la terribile “Necessità”. Le  “Furie” infatti si impadronirono di lui  e ne straziarono il corpo  nelle solitudini notturne di  un anonimo idroscalo. Una morte tragica, ma che  al tempo stesso è  il più ALTO MONUMENTO che “Ananke” e le “Furie” potessero mai erigere  al poeta-vate  che forse più di ogni altro nel XX secolo aveva scrutato  nella propria e nell’altrui “tragedia” esistenziale con accenti  pressoché divinatori.

 

                                                                                        Enzo Sardellaro

 

 

 

 

Note

 

1) A. Mazza, “Ideologie e Passioni”: Alberto Moravia su Pier Paolo Pasolini”, in “Quaderni di Italianistica”, Vol. IX, n. 1, 1987, p. 139 sgg.

2) A. Seroni, “Leggere e sperimentare”, Parenti, 1957, p. 188.

3) G. Petrocchi, “Le speranze dello Sperimentalismo” in “Lettere Italiane”, Olschki , ottobre-dicembre  1959,  p. 500.

4) P.P. Pasolini, “Lettere 1955-1975”, a c. di N. Naldini, Torino, Einaudi, 1986, p. CI.

5) P.P. Pasolini, “Il Padre selvaggio”, 1975, p. 51.

6) P.P. Pasolini, “ Appunti per un’ Orestiade africana”, in “Pasolini per il Cinema”, Milano, Mondadori, vol. I, p. 1183.

7) “Lettera del traduttore”,  in “Eschilo, ‘Orestiade’”, versione di Pier Paolo Pasolini, Quaderni del Teatro Popolare Italiano, Torino, 1960, pp. 1-3.

8) T. Perlini, “Utopia e prospettiva in György Lukács”, Dedalo Libri, 1968,  p. 148,

 

 

 

 

 


Id: 398 Data: 24/04/2014 22:06:17

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- Letteratura

La lingua e lo stile del Principe di Machiavelli

Che i nostri classici siano praticamente “incomprensibili” ai più è un dato di fatto incontrovertibile. Non ci soffermeremo ad analizzare il perché di questo ormai consolidato fenomeno, ci limiteremo soltanto a registrarlo e a sottolineare come esso  abbia ormai una tale portata da “convincere” molti studiosi a tradurre alcuni tra i nostri maggiori scrittori in una lingua più accessibile. Tale evento ha interessato recentemente anche  Machiavelli. In  una situazione politica così confusa e contorta come quella italiana, la “riscoperta” di Machiavelli sembra quasi il  segno di una labilità psicologica che va alla ricerca di “rassicurazioni” presso un pensatore che, a suo tempo, si trovò intrigato in un'Italia non meno confusa e pericolante di quella attuale. Al di là della “demonizzazione” che nei tempi andati si è fatto di Machiavelli e soprattutto del suo pensiero politico, non si può certo dire che l'autore del Principe avesse le idee confuse in testa.

 

La “materia” che fa da sfondo al pensiero di Machiavelli  è l'Italia “parcellizzata”, assolutamente incapace di porre un freno alle mire espansionistiche di Francia e Spagna, saldamente installatesi sul nostro territorio. Nelle lotte per il predominio tra queste due potenze dell'età moderna, l'Italia si  trovò in completa balìa dei contendenti. I Prìncipi dell'epoca avevano il loro da fare per sopravvivere tra i due colossi, e tutti, chi più chi meno volenti o nolenti, entrarono nell'orbita spagnola o francese: “ non datur libertas”. Per superare questa “impasse”, l’Italia necessitava, a tutti i costi, di soluzioni radicali, che rompessero definitivamente con il passato: occorreva un “Prìncipe Nuovo”, che desse vita ad uno Stato “in toto” diverso dai precedenti, praticamente imbelli. Ed è a codesto “Prìncipe Nuovo” che Machiavelli si ingegna di consegnare gli strumenti idonei di governo, tenendo ben presente la “realtà effettuale”, ovvero la particolare contingenza storica in cui l’Italia si trovava. Machiavelli pensò di affidare le “chiavi” del nuovo Stato nelle mani di Cesare Borgia, l’unico “Prìncipe” italiano che sembrasse in grado  di instaurare un “nuovo ordine”.

 

Il “Prìncipe Nuovo” doveva anzitutto essere “virtuoso”, nel senso che Machiavelli dava al termine, come a dire “capace di superare ogni ostacolo”, badando poco ai mezzi, né incline a quei “sentimentalismi” che rendono (secondo Machiavelli)  l’animo fiacco e inadatto alle azioni più azzardate e rischiose, e gravide di conseguenze. Soltanto se il “Prìncipe Nuovo” fosse risultato tetragono a tutti i colpi della “fortuna” avrebbe avuto successo. Anzi, la “fortuna” andava piegata e domata ai voleri del “Prìncipe Nuovo”. L’obiettivo di Machiavelli e del suo “Prìncipe” era dunque ambizioso, anche perché il Prìncipe stesso doveva alla fine costruire  un nuovo Stato capace di sopravvivere al suo stesso fondatore, poiché, a tempo debito, egli aveva saputo avviare una nuova “organizzazione” dello Stato, stabilendo nuovi rapporti con i propri sudditi.  Cesare Borgia non riuscì nel suo scopo, perché, secondo Machiavelli, egli non ebbe il tempo materiale di “mettere radici”, le necessarie “barbe e corrispondenzie” (1).

 

Come dicevamo sopra, Machiavelli aveva le idee chiare e sapeva ragionare secondo una logica stringente, che non lasciava spazio ad equivoci. La lingua e lo stile di Machiavelli rispecchiano uno scrittore “diabolicamente raziocinante” in cui i concetti si legano l’uno all’altro secondo una struttura ferrea del periodo. Soltanto che  il periodo era sì ferreo, ma anche estremamente complesso, talmente complesso che oggi la lingua e il periodare  di Machiavelli sono praticamente “incomprensibili”: di qui le “traduzioni” cui si accennava sopra. Giulio Herczeg, che studiò a fondo gli elementi fondanti della prosa di Machiavelli, ci illustrò con esempi a dir poco illuminanti la complessità del periodo di Machiavelli. Dopo aver sottolineato che Machiavelli partì con “frasi di breve estensione” e con “semplicità di stile” nei dispacci scritti nel corso delle sue “Legazioni”, la struttura del periodo diventò sempre più complessa nei “Discorsi”, e, soprattutto, nel “Principe”. Era inevitabile che così fosse: la materia era talmente ingarbugliata che occorreva trattarla con una razionalità “spossante” e senza respiro. Vediamo, sulla scorta di G. Herczeg, com’era costruito uno dei periodi di Machiavelli, “logicamente concepito e diviso in varie parti”. Si tratta di una frase complessa che si riferisce ad un momento piuttosto critico nella vicenda del Valentino, allorché si trattava “spegnere”, o sbaragliare tutti gli avversari “prima” di perdere l’appoggio di suo padre, papa Alessandro VI Borgia, che era gravemente malato e sul punto di morire:

 

“PRIMO TIPO: divisione del periodo in unità di frasi, simmetriche, comincianti con ‘primo’, ‘secondo’, ‘terzo’, ecc.:

‘Di che pensò [scil. Cesare Borgia] assicurarsi in quattro modi:

PRIMO, di spegnere tutti i sangui di quelli signori CHE lui aveva spogliati PER torre al papa quella occasione,

SECONDO, di guadagnarsi tutti e gentili uomini di Roma, COME è detto, PER potere con quelli tenere il papa a freno,

TERZO, ridurre el collegio più suo che poteva,

QUARTO, acquistare tanto imperio AVANTI CHE il papa morisse” (2).

 

Se alla struttura del periodo aggiungiamo il lessico arcaico, abbiamo tutti gli ingredienti per comprendere PERCHE’ Machiavelli deve, giocoforza, essere tradotto.

 

                                           Enzo Sardellaro

 

 

 

 

 

Nota

 

1)      Per un’ampia disamina del pensiero politico di Machiavelli, cfr. Il Principe, con Introduzione di G. Procacci, a c. di S. Bertelli, Milano, 1960.

2)       G. Herczeg, Alcuni tipi di frasi nella prosa di Machiavelli,  in Saggi linguistici e stilistici, Firenze, Olschki, 1972, pp. 222-223.

 

 

 


Id: 396 Data: 21/04/2014 15:59:27