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Maya

di Giacomo Fassetta
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Pubblicato il 11/06/2023 18:31:40

Dal chiaroscuro del fogliame, Maya fece il suo maestoso ingresso nella zona visitatori, dove l’alto muro di cinta lasciava il posto a una selva di sbarre d’acciaio, larghe abbastanza perché i visitatori potessero saziarsi di foto tra gridolini eccitati: “Eccola, eccola! Quant’è grossa! Com’è bella!”.
Maya veniva qui soprattutto per farsi le unghie su un tronco contorto, sistemato ad arte tra i ciuffi d’erba radi e stentati, in modo da attenuare il contrasto tra la radura e il rigoglioso boschetto di bambù che si apriva tutt’intorno. Il legno del tronco era talmente duro che anche per una tigre non era facile intaccarlo a fondo, ancor di più per una vecchia matrona come Maya.
Sdraiata sulla terra battuta, rinfrescata dall’umidità della pozza tra i bambù, la pancia piena della carne portata dai custodi, Maya si preparava per il consueto sonnellino mattutino, da cui sarebbe emersa qualche ora dopo per passeggiare lentamente lungo i sentierini disegnati sull’erba, negli anni, da migliaia dei suoi passi felpati. Sarebbe arrivata come sempre fino al muro bianco, oltre la pozza, scivolando poi nell’acqua, per trovarvi sollievo dalla calura cittadina e dal brusio incessante delle voci.
L’ampio costato arancio e nero si alzava e si abbassava regolare, con un suono leggero, a metà tra il ringhio e il guaito. Ben presto però, Maya tese le orecchie, aprì gli occhi, all’erta, destata da un rumore nuovo che non conosceva.
In cima al tronco, a cinque passi da lei, ritta su esili zampe brune, una ghiandaia, le piume rossastre e azzurre, la osservava quieta, curiosa, la testa un po’inclinata di lato, immobile.
La vecchia tigre si sollevò sulle zampe anteriori, fiutando l’aria, attenta, gli occhi d’ambra fissi sul nuovo arrivato. Nei suoi undici anni di vita allo zoo, Maya non aveva mai visto uccellini così da vicino, né mai di quei colori sgargianti. Sì, i passeri spesso si posavano sulle cime dei bambù o tra le punte in ferro sul muro di cinta, qualche volta anche sulle rocce muschiose sopra la pozza. Però nessun volatile si era mai azzardato a venire così vicino, con quell’aria spavalda, come se l’intrusa fosse lei.
Dalla gola di Maya uscì una specie di brontolio miagolato, quasi una nenia, un canto rabbioso che le affiorava gorgogliando dal profondo senza che lei se ne accorgesse. In un attimo fu in piedi, le orecchie puntate, la coda che spazzava l’erba. Era l’istinto antico della caccia che ora la colmava tutta, la eccitava inebriandola, come un liquore caldo nel sangue, riversando in lei memorie di un passato mai vissuto, una trama fitta di spazi sconfinati e odori intensi come presenze. In un lampo Maya tradusse quella sconosciuta energia in un’esplosione di movimento: balzò sul tronco, orecchie piatte, artigli sguainati e zampe protese … sul nulla. L’uccellino impassibile ora sembrava attenderla, calmo, sulla terra polverosa dov’era Maya un attimo prima, non una piuma fuori posto, la testolina inclinata nella stessa posa sfrontata e curiosa.
La tigre finse indifferenza e prese a lavarsi con la lingua ruvida le fiamme nere del manto, poi quel gioco feroce la vinse di nuovo. Accecata dalla foga, caricò come molle i muscoli possenti e si tuffò su quel minuscolo batuffolo di piume, facendo vibrare l’aria con un ruggito. I visitatori dello zoo si allontanarono dalle sbarre gridando di paura. Maya, invece, si scoprì beffata ancora una volta, accucciata a guardare l’uccello di nuovo al suo posto, sul tronco, incolume e apparentemente inconsapevole di tanta destrezza. Il cuore le batteva forte, respirava veloce, le fauci socchiuse affamate d’aria. Il richiamo della caccia era quasi un sapore che ora poteva gustare. Capiva però che quell’uccello colorato non era alla sua portata e sembrava sentire al tempo stesso che nessun’altra preda forse le sarebbe stata più concessa, né dall’uomo né dal caso.
Maya si alzò, senza più rivolgere in alto lo sguardo, poggiò la grossa testa sulle sbarre, come volesse saggiarne la consistenza, poi si addentrò lentamente tra i bambù e cercò la pozza, per placare quell’arsura senza sete che la pervadeva.
In quello stesso momento la ghiandaia si levò in volo, scivolò elegante tra le sbarre e sparì nel sole al di sopra della folla.


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