Quando cominciò era un gran bel tempo.
Il microfono con il profilo da piazzista
piantato sul mixer come un cardo
- feroce e mellifluo quanto una lettera
dell’agenzia delle entrate, segnatamente la i.
Gli roteavano intorno sillabe concitate
(queste aquile annidano nella cavità orale).
Un alfabeto rapace si lanciava nel cielo
più basso, con la cadenza locale delle frane.
Una pratica durata 30 anni, che ho nel tempo
abbandonato. Andati in fumo, perché
la raucedine gracchiava ma poteva farti
passare per aria, anzi, doveva impastarti.
Dediche a parte, c’erano numeri da circa
come quei giochi privi di conoscenza
non di meno rincorsi per sapere a casa.
Il monocolo del disco mostrava un occhio
di riguardo al giro richiesto - più graffiante
lo scratch sul vinile che l’uscita dal solco
digitale. Comunque, la musica è una presa d’acqua
e spesso non si afferra; attraversa i continenti
ma non tutte le pelli. A darle corda, l’udito
abbocca, perché l’esca è l’orizzonte popolare
con una certa frequenza, da promessa in onda.
Ancora nessuna nuvola, ma di solito
piove avendo tempo.
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