XXV
Una lettera
Quella notte dormii profondamente. Mi svegliò lo sbattere di una porta e il chiacchierio proveniente dall’appartamento vicino. Sentivo distintamente la voce di Mirella: era tornato il marito che andava spesso a trovare i parenti in Nigeria, suo paese d’origine. Ricordo che ero appena andato ad abitare in quel palazzo, quando Mirella mi presentò i suoceri. Erano neri con i capelli ricci e bianchi come i loro denti, ancora intatti nonostante l’età. Il padre, un signore alto e magro, un pò curvo, forse a causa di un’incipiente sordità, era ingegnere elettronico e aveva lavorato in California all’epoca del pionierismo informatico. Al culmine della carriera era tornato in Nigeria perché, come disse, sentiva il dovere morale di aiutare il suo paese. La moglie era una donnina dall’espressione calma e sorridente, di bassa statura, almeno così sembrava accanto al marito. Conservava un bel viso dai lineamenti regolari, quasi privo di rughe.
Allora frequentavo spesso Mirella ed ero stato parecchie volte a casa sua per cena. Quando arrivò Adelina i nostri rapporti si raffreddarono perché le due ragazze non simpatizzavano tra loro.
So che il marito la stringeva tra le braccia, la sollevava da terra, la portava fuori dalla porta e poi nuovamente dentro casa. Faceva sempre così ogni volta che tornava da un lungo viaggio. Lei protestava ridendo, facendo un gran chiasso, così tutto il palazzo sapeva che il marito era tornato. Parlavano velocemente, non si capiva cosa dicessero. Sentii il rumore di tazze sul tavolo e il borbottio della caffettiera insieme allo sciacquone del water: evidentemente Mirella preparava la colazione, mentre lui era in bagno. Erano quasi le nove, mi alzai in tutta fretta, il treno di Adelina sarebbe arrivato alle undici e mezza. Volevo fare le cose con calma e godermi quelle ultime ore di solitudine.
Uscendo trovai una lettera nella cassetta della posta. Non era affrancata: “Per Piero” niente indirizzo, niente di più. La misi in tasca proponendomi di leggerla al bar, davanti al cappuccino con la pasta alla crema. Mi avviai verso la stazione. A non più di dieci minuti di cammino, all’angolo di Via Savoia, mi sedetti al tavolo del bar all’aperto e ordinai la colazione. Il mattino era fresco, l’aria tersa e chiara come in primavera. Adelina sarebbe scesa dal treno trascinandosi la valigia come se fosse un peso enorme. Odiava la fatica fisica, fosse pure il peso minimo di un trolley mezzo vuoto. Io facevo finta di non vederla, facevo sempre così, per scherzo. Lei si sarebbe avvicinata e con aria supplice mi avrebbe tirato per la manica indicandomi la valigia. Avremmo riso e ci saremmo abbracciati.
Pensavo di portarla a pranzo fuori, non in collina, perché tornava appunto dalla montagna, né al mare, che era troppo distante, e lei non avrebbe avuto voglia di rimettersi in viaggio. L’avrei portata al ristorante del castello: erano cinque minuti di taxi, l’ambiente era elegante e semplice, là in alto si sarebbe goduto un bel fresco. Di sicuro lei avrebbe chiesto di fare prima una doccia. Era tanto tempo che non facevamo l’amore, avrei potuto rimandare a dopo aver mangiato, non sapevo, un desiderio sottile mi pervadeva. A vederla umida dei vapori del bagno, profumata e tenera, non ero sicuro che avrei potuto rimandare. Mi rammentai allora che forse era insemenzata: una vertigine mi colse improvvisa. Appena scesa dal treno, oppure a pranzo, o meglio a letto tra le braccia, nei lunghissimi preliminari che precedevano l’amore, mi avrebbe detto che ero padre, quasi a rimarcare che ero proprio io il responsabile del misfatto e che dovevo riparare. Ero piuttosto sconvolto al pensiero, e lo sarei stato ancora di più in quel momento. Mi proposi di coprirla di baci, di dimostrarmi felicissimo, come forse lo ero, in fin dei conti, perché la paternità è una bella cosa, una meta nella vita di ogni uomo. Pensai ancora di portare per mano il marmocchio a passeggio, e di giocare con lui sopra un prato. Certo essere padre fa parte della vita e, prima o poi, deve succedere. Forse con l’arrivo del marmocchio Adelina sarebbe diventata meno possessiva e assillante.
Ci saremmo sposati in municipio. Pensavo di avere un carattere troppo indipendente e di non essere adatto alla vita matrimoniale, anche se il nostro rapporto era divenuto così assiduo, così stretto, che era più che un matrimonio. Anzi, forse una volta sposati, acquistata la certezza dell’unione legale, avremmo cominciato una vita routinaria in cui ciascuno si sarebbe ritagliato uno spazio proprio.
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