C’erano nubi ad imbrigliare i pensieri nelle lunghe sere di questo inverno inoltrato. L’intervento alle ginocchia aveva intervallato spazi e momenti, mescolanze tra i dolori acuti, la fisioterapia e il Santo Graal del momento: l’antidolorifico. Serviva tempo, costanza, fatica per riprendere il percorso di una vita pseudo/normale. I perni che tenevano unite le mie articolazioni, ben addentrati nelle ossa, sarebbero rimasti una parte di me fintanto che camminavo, fintanto che non si sarebbero consumati, pronti per essere sostituiti, con una risoluzione più pesante e più dolorosa. Confortavo la mia mente con il pensiero sull’evoluzione della medicina e delle tecniche chirurgiche, perché già da un po’ mi sentivo una macchina dalle parti intercambiabili, e per fortuna, sostituibili.
Più di un mese di TV accesa, di telenovele e ghiaccio, di giochi con lo smartphone e qualche rara lettura, perché mi sono resa conto che quando si ha tanto tempo a disposizione e non si può fare ciò che si vuole, la concentrazione è scadente, manca anche la forza per immaginare una nuova primavera, tutto diviene pallido, smorto, come le occhiaie che mi fanno gli occhi da Panda.
L’esistenza diventa una lunga sequenza di giorni che si trascinano uguali, uno inciampa addosso all’altro e la malinconia accende la luce della sera fino a scemare sulle note stanche della noia. Spariscono le speranze, anche il barlume di qualche intrepido raggio di sole che impacciato e infreddolito vuole entrare dalla serranda. “La vita è un pendolo che oscilla tra dolore e noia” diceva Arthur Schopenhauer, tuttavia prima, in un’era glaciale semi dimenticata, la mia vita per me non era proprio così.
È come se l’incidente si fosse portato via un’altra me stessa e avesse tolto ogni gancio dal cielo al quale potersi aggrappare per affidarsi a un destino diverso.
Se la noia avesse un colore tutto suo sarebbe senz’altro il grigio, con infinite sfumature cupe, striature tra il nero e il bianco, spalmate nell’indefinitezza di questa sensazione che galleggia tra l’apatia e il niente. Non ho proprio voglia di fare niente, tanto meno di pensare e tanto meno ho le forze per sognare. La foschia della sera annuvola le minime percezioni di vita che invadono il mio essere per afflosciarsi immediatamente tra le coltri del divano, un tutt’uno tra il mio essere persona/oggetto.
La noia mi avvinghia, è una lacerazione sospesa nell’aria, è la polvere di frantumi morali che deprimono il mondo che mi circonda e me stessa. Collassa la mia curiosità, avvelena la mente, i miei neuroni che prima si nutrivano della voglia di conoscere. Aleggia nell’etere e dannatamente toglie il desiderio e l’interesse per la vita. Nemmeno il cielo sembra vicino, solo un cammino pieno di vuoto, un percorso corroso dall’inutilità.
La ripresa verso il camminare è stata dura, sentivo delle lame trafiggermi le gambe, ero come una sirenetta degli anni 2000. Ed eccomi a barcollare con quattro zampe, due stampelle e due gambe sofferenti, poi solo tre, ed infine ogni singolo piccolo passo con il solo ausilio dei miei arti inferiori e della forza di volontà, una determinazione sconosciuta che piano piano s’insinuava nella mia vita.
In fondo l’incidente era stato uno sberleffo del fato, una capriola della vita alla quale non ero assolutamente preparata, un torbido imprevisto che mia avrebbe condotta chissà dove.
Camminavo e rallentavo. Volevo e dovevo fare un po’ di spesa, un trofeo in onore alla mia ritrovata indipendenza. La commessa mi ha salutato chiedendomi come stavo, poi mi fece una filippica su quanto noiosa doveva essere stata la mia convalescenza. A casa incominciai ad elaborare il concetto di noia e non nel senso di dare fastidio. Noia come scontentezza, come un malessere vestito di malinconia, come la ripetizione delle medesime azioni. Mi sedetti sul divano sorseggiando una tisana zenzero e limone, inserii sul lettore un DVD di Beethoven, in sottofondo la Sonata al chiaro di luna echeggiava nella stanza, iniziai a pensare. Ritmavo i pensieri con la musica, mi ritrovai a sorridere, mi divertiva scrutare il pensiero che cercava di indirizzare i pensieri, era come scrivere le note su un pentagramma invisibile. L’immaginazione si scatenò a più non posso, entrando in profondità con la melodia, ed ecco apparizioni di paesaggi maestosi, di oceani in burrasca che si alternavano con il purpureo di un tramonto di montagna, di pianure verdeggianti a perdita d’occhio e di ciliegi in fiore, fotogrammi portentosi a seconda delle emozioni provate. Ero rapita dal componimento, quando interruppi bruscamente quel fluttuare, quell’incastro amichevole di pensieri ed immagini. E la noia?
Mi resi conto che il desiderio di sapere e di conoscere, la brama di vedere le cose con gli occhi curiosi di quando ero bambina, erano la medicina contro il tedio, le vitamine per le passioni. Corsi zoppicando in camera da letto, presi il diario e il libro che avevo iniziato a leggere due mesi prima, riguardai la trama e una contentezza fugace mi sorprese a scavare a fondo dentro di me, a farmi rendere conto che ero una di quelle persone che non la smettevano mai di conoscere cose nuove, di esaminare e di studiare, che non ero mai stata così tanto ammalata di monotonia da non rendermene conto. Per meglio dire ero solo una noiosa che si era crogiolata nel proprio dolore, unendo quello fisico a quello morale, perdendo di vista il senso della vita, lo spessore dei sentimenti e delle persone.
Avevo le mie passioni, mi erano sempre ruotate attorno, solo che non le volevo vedere: la lettura, la scrittura, le alimentavo costantemente. Leggevo e scrivevo ogni volta che potevo, ascoltavo la musica in auto e a casa, sia quella classica che pop. Gran parte della mia vita girava intorno ai miei interessi e alla brama di imparare sempre di più. L’esistenza in fondo è un grande concerto dove si alternano arie, brani e sensazioni, note e pause, intervalli sofferti e a volte quasi concessi.
Respiro lentamente, lascio espandere appena un po' l'anima intera nello spazio circoscritto di un momento, senza fare rumore.
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