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Spigoli

di Sara Ludovico
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Pubblicato il 28/04/2022 16:36:41

Solitudine, freddo, ghiaccio che si scioglie, e mi piace questo freddo, queste gocce di un liquido che non mi danno la sensazione di calore. Non voglio il calore, non ho voglia di un camino acceso, e nemmeno di sentire l’acqua della tisana nella pentola che bolle, fumeggiante e menefreghista. Non voglio sentire la sensazione di prurito con i calzettoni raspanti e graffianti color grigio topo, né voglio sentire la sensazione della morbidezza del pigiama in pile, di guardare le luci di Natale che sfavillano sull’albero verde e colorato. Ho bisogno di freddo, ho bisogno degli spigoli di un tavolo di legno, usurati dal tempo, che mi graffiano la pelle. Ho bisogno di colori freddi, della carta vetrata, dei fazzoletti dei bar, duri, severi, così come ho bisogno di graffiarmi con la lama color acciaio di un coltello. Quando vuoi aprire un pacco, un regalo, un qualcosa che semplicemente hai comprato, utilizzi arnesi pericolosi. Forbici, coltelli, taglierini. E scopri cosa c’è dentro una scatola anonima. Io sono un cartone vecchio, di quelli che trovi fuori i negozi dopo una giornata di lavoro, in un cassonetto sporco, in cui rovistano i poveri che non hanno niente da vincere e niente da perdere. Sono un cartone, ma non so cosa ci sia dentro. Come faccio ad aprirmi a me stessa senza qualcosa di tagliente? Come faccio a capire cosa c’è che mi fa sentire sola nella mia casa, in questo silenzio assordante, come faccio ad uscire dalla trappola di spigoli che mi circondano e che mi impediscono di avanzare?
Ho solo voglia di un calore che non devo conquistarmi, che non devo attendere. Non voglio l’abbraccio della mamma, né il bacio di un fidanzato, quelli sono amori che vanno cercati, anche solo con una telefonata. L’unico modo per sentire calore è proprio tagliarmi con spigoli pungenti. Gli spigoli graffiano, il colore della pelle, rosa pallido, si sporca di un rosso acceso, e io sento di essere viva.

Osservo il quadro appeso nel soggiorno, è davvero orrendo, non so nemmeno perché l’ho messo lì. È un vicolo con colori verdastri, stagnanti, non hanno niente da dirmi. È silenzioso, come questa casa, come me.
Allora mi metto a frugare negli armadi, per cercare una risposta a queste domande. Come si fa ad amare sé stessi? Come si fa a conoscersi davvero?
Gli armadi sono disfatti, il disordine si accumula. Dietro il quadro, solo il muro. Nello specchio, una figura qualunque. Nella cucina, pentole fredde. Un tavolo con quattro spigoli. Posate lucide. La mia camicia sa di fumo, e di catrame. Forse è da quando non ci sei che tutto ha questo sapore cancerogeno. Forse non so più chi sono perché mi sono abituata a guardarmi coi tuoi occhi.
Allora vado in bagno, accendo la luce. Il pavimento è celeste, freddo e fastidioso sotto i piedi scalzi. Cammino in punta di piedi, alla ricerca dell’unica cosa che è rimasta di te. Apro l’armadietto bianco anonimo, e lo vedo, lì, solo come me. Non c’entra nulla, in mezzo alle mie creme, alle mie maschere, ai miei dischetti di cotone. È un rasoio blu, a tre lame, posato lì, disteso. Lo prendo, lo apro, passo lentamente le dita sulle lame taglienti, e mi sento un attimo più a casa. Hai lasciato l’unica cosa che è rimasta di te e di me. Tre piccole lame, quelle che abbiamo usato verbalmente, mentre scavavamo a fondo nei nostri corpi, per cercare un motivo per rimanere insieme in questa casa. Abbiamo sanguinato molto, per rovistare. E alla fine ci siamo arrivati. Solo che ora che non ci sei più, ho dimenticato. Eppure ci ho riflettuto così tanto su quel divano Ikea, che all’improvviso è diventato duro come il marmo.
Ora non lo so. Ora non ho più risposte. E in casa piove, gocce che bagnano il viso e questo rasoio usato che non ha più niente da dirmi. È solo un oggetto come un altro, ma ha un colore freddo, e questo mi immette una calma innaturale. Non ho la forza di buttarlo, non ancora. Cerco di individuare i tuoi occhi color cervone che mi hanno fatto sorridere e mi hanno inquietato tante volte, ma non li vedo più. E ti cerco in questa casa che non sa più di casa, cerco nel freddo qualcosa che mi faccia sentire in compagnia, perché questa solitudine non so gestirla, perché star soli significa parlarsi, e io non sono in grado di farlo.
La gente ha paura della solitudine, e anche io. Quando i punti interrogativi ti logorano, quando il silenzio si fa acuto, quando hai la febbre e nessuno ti cura. Quando hai bisogno di dire a qualcuno cosa hai fatto durante il giorno, anche se è solo stupida routine che non può realmente interessare qualcuno. Quando cerchi di conoscerti, per saperti gestire meglio. Io avevo solo iniziato a studiare me stessa attraverso te. Non ricordo più quelle pagine che ho letto, come se dovessi ricominciare tutto daccapo, ma senza libro. Dovrei bastarmi davvero? Dovrebbe esserci qui, forse nella milza, forse in qualche piccolo angolo del cervello, un manuale di autoconoscenza ?
E invece non lo trovo. Ho solo questi spigoli che mi fanno compagnia, e mi parlano un po’ di me. D’altronde, nessuno riuscirebbe a starmi vicino in questo momento, neanche tu. Vi tagliereste. Non riuscireste a camminare per raggiungere la meta, è un viaggio che devo intraprendere da sola. Vorrei solo conoscere il modo di arrivarci.

Sei andato via, portandoti via qualche bugia, qualche segreto non detto, e i tuoi occhi pieni di me. Solo tu sei riuscito a conoscermi, ma non hai fatto in tempo ad insegnarmi chi fossi, sei andato via troppo presto.
Non posso essere solo un insieme di spigoli, non posso solo essere un coltello senza marca incisa sulla lama. Non posso essere un lago ghiacciato che si spacca per la troppa pressione, né un fiocco di neve in mezzo a mille altri. Sento di essere più di questo, molto di più.
Allora che si fa? Devo prendere questa strada senza sapere dove mi porta? Esplorarmi in mezzo a spine rosso sangue, in mezzo a sorrisi disegnati con un rossetto liquido, in mezzo a quadri che non parlano, che mostrano disegni buttati lì a caso?
Ci provo, in fondo sono una sognatrice. Non conosco il percorso, ma posso inventarmelo. Posso immaginarmi sedie di legno, piene di vestiti e di peluche enormi, posso entrare in un mondo psichedelico, posso colorarla la strada, con i colori che scelgo io. Voglio correre su questo percorso, per cercarmi in mezzo ai mille spigoli che fanno male, voglio farmi male, per capire che cosa rappresentano, perché li sento così miei. Voglio ferirmi, voglio ascoltarlo, questo dolore. E poi voglio buttare quel rasoio nel cestino in mezzo a mille altre rasoi usati, in mezzo ai nostri ricordi sanguinosi che non hanno più niente da dirmi. Voglio trovarmi, prima di farlo. Voglio conoscermi a fondo, voglio esplorare anche le vie più buie, e non posso farlo più con te. Allora sporco di inchiostro un foglio, mi taglio con un paio di forbici, mi spacco la pelle con un colpo su questo muro che non ci racconta più. Voglio camminare, non fermarmi, fammi andare avanti, sono curiosa, voglio sapere. E allora la esploro questa strada. Vedo colori ad intermittenza. Vedo una sbucciatura dopo una caduta dalla bicicletta. Vedo una bambina che va a fondo al mare per prendere un pugno di sabbia, e risalire col fiatone, bagnata ed eccitata. Vedo una delusione a scuola, il dolore per la perdita di un’amica, la consapevolezza di quante cose esistono nel mondo che meritano di essere conosciute. Vedo te, la gioia di averti incontrato, il nostro abbraccio che ha il colore del crepuscolo, che in questo momento trovo insopportabile. Vedo le risate nel letto pieno di briciole, con il pacco di Pan di Stelle aperto sul comodino, che abbiamo scordato di chiudere, e poi vedo una caffettiera che ci sveglia la mattina, il profumo del mattino presto, più fresco del sole costante dell’ora di pranzo. Vedo te che te ne vai, e il freddo che cala in fondo alla mia pelle, il sangue che si ghiaccia, e io che non ricordo più definirti e definirmi. Perché per me eravamo così in simbiosi che avevamo totalmente perso la nostra individualità. Ma ora la sto ritrovando, nei miei successi, nei miei fallimenti, nelle mie cadute, nella tazza di latte che uso da otto anni, nel mio film preferito, nel libro che ho scoperto in una libreria ormai dimenticata del centro. Eccomi, sono lì, sono nel tunnel del dolore adesso, sembra come quella stanza horror dell’excape room, e vedo il dolore di cui mi sono cibata per sopravvivere. Il desiderio che tu mi facessi male, più che mi ignorassi completamente. Cercavo il dramma per scrivere un film più emozionante della mia vita monotona, che sapeva di sedano il primo giorno di dieta.
E ora sono in una stanza bianca, con le pareti cotonate. Sono morbide al tatto, e vedo me che ricucio la pelle con le mani logorate dagli anni, come mia nonna con l’uncinetto. Concentrata, senza smuovere gli occhi da lì. E d’improvviso, una sensazione di sollievo mi pervade. Come se stessi guarendo con quel lavoro. È tutta questione di concentrazione. È tutta questione di conoscersi meglio senza perdersi di vista. Mi sto riscoprendo piano. Mi osservo, guardo le mie emozioni, le metto in fila in una libreria polverosa, le osservo, alcune le sfoglio, non le ricordo più. Poi sporco qualche altro foglio con un inchiostro apparentemente inutile, e finalmente capisco.
Questo percorso non dura tre pagine di riflessioni, e neanche duecentocinquantasette. Non ha la durata dei Fratelli Karamzov, o di un trattato di Seneca. Forse non ha la complessità del pensiero di Nietzsche, e nemmeno il sentimento color cobalto di Gabriele D’Annunzio. Non ha la forza delle suffragette, e nemmeno la durezza di Mussolini. Non sono colori mescolati che restano distaccati fra loro, è semplicemente una ricerca che comporta salire molti gradini, a volte perdendosi, altre ritrovandosi, altre ancora fermandosi per riprendere il fiato.
Esco da questa stanza con più sicurezza, ed entro nel quadro color verdastro.
Cerco un qualcosa che ancora non conosco.
Ma questa sensazione mi fa ballare.

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