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’Aggrappato a un sogno’

di Alberto Rizzi
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Pubblicato il 15/02/2022 21:30:31

         Tutti i giorni per ore ho tenuto l’occhio incastrato a due stecche della veneziana, un dito a separarle appena. Finché lei passava per il marciapiede opposto.

            La mia sicurezza di una vita, fino a ieri.

 

            A volte mi perdevo pure a guardare i dettagli che il mio occhio riusciva a cogliere nell’attesa di quel suo uscire, o rientrare a casa: anni fa per un po’ un ragno fece la sua tela sfruttando alcuni coppi del tetto che fa angolo con la mia stanza. Ne osservavo i movimenti quando la riparava, quando imbozzolava le sue prede; sempre pronto a ributtare l’occhio sul marciapiedi di sotto, appena qualcuno entrava nel mio ristretto campo visivo.

Dopo quasi un mese scomparve, non so perché: preso da un uccello, immagino, o da qualche insetto più forte di lui.

            E con lui immaginavo la mia vita, la mia costrizione, la tela che avevo tessuto e dalla quale spiavo lei: compagni di prigionia, se non proprio di cella.

 

            Mai colsi, di lei, un particolare preciso; mai il colore degli occhi, per esempio: era il mio sogno vivente, che regalai alle deformità del mio corpo, alla purezza della mia mente; a entrambe le cose per le quali la crudeltà degli altri mi ha sempre escluso.

 

            Ieri c’erano sia nebbia che luna (vedo tanto cielo che città, da queste fessure), ma della città vedo solo case; so che esistono giardini, parchi; se apro le ante alle volte odo un treno passare dalla ferrovia non lontana. Ma per me tutto questo non deve esistere: esistono solo i muri e le finestre che si aprono nei condomini di fronte; e so che dietro quei vetri ci sono solo vuote sagome umane, pronte a deridermi se solo potessero vedermi.

              Così è sempre stato, così pensavo sarebbe sempre stato, fino a ieri.

             Sapevo la persona che si fermava appena uscita dal bar di fronte, qualche volta guardava in alto non a caso; che la donna che indugiava un attimo di più a quella finestra, guardava in questa direzione non a caso: era sapere chi c’era dietro questa finestra, in questa stanza; era la speranza di cogliere la deformità, come se la deformità non fosse in loro: cuori, menti, occhi un coacervo di piaghe.

 

            Per questo solo ciò che è impalpabile – le foglie secche che cadono, la sera che porta pietà agli occhi – mi fu amico; per questo solo potevo aggrapparmi a ciò che no era materiale: la sua immagine e le fantasie che ne facevo nascere, non la sua mano.

            Fino a ieri, quando ho capito che non l’avrei più rivista: ho capito che i camion del trasloco che avevo visto andare e venire qualche giorno fa, erano venuti per lei. Che la loro banalità, la banalità della vita che mi è negata, mi aveva portato via il mio sogno.

 

            La luce fredda dei lampioni mi ha aiutato ad aprire la finestra nella notte non ancora fredda di Settembre, la veneziana finalmente tutta alzata; quella luce che aveva ucciso la poesia del buio amico mi ha aiutato a salire su una sedia e a scalciar via, con essa la mia vita, così deforme per gli altri.

          Mi vedano pure domani; vedano il mio corpo deforme, il mio occhio fallato che mai invece ha visto. Quello buono rimane spalancato e fisso su ciò che rimane del mio sogno: quei pochi coppi da tempo disabitati, quei metri di marciapiede da lei percorsi; l’unica bellezza che il giorno mi donava.


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