MUSICA D'INSIEME
Se chiedi ad un uomo qualsiasi sulla cinquantina chi era John Bonham, spesso ti risponderà: “Il più grande batterista della storia”. Chiedi allo stesso uomo chi era Giulio Capiozzo e ti risponderà: “Chi?”. Ecco, Giulio Capiozzo sarebbe stato il più grande batterista della storia, se si fosse chiamato John Bonham e fosse nato nel Worcestershire invece che in Emilia.
Quando feci ascoltare ai miei ragazzi “Arbeit Macht Frei” mi guardarono come si guarda uno sotto LSD. Quando attaccò Stratos, il dubbio nei loro occhi divenne certezza: ero un vecchio fricchettone con ancora qualche rimasuglio di roba che circolava in vena e che a intervalli irregolari gli ottenebrava il giudizio.
Era il mio secondo anno all’ITI Galilei, e tenevo un corso che aveva più del ricreativo che del didattico: musica d’insieme. Cinque o sei adolescenti, convenientemente borchiati, strappati e smutandati, che tentano di capire cosa faranno della loro vita e se la musica potrà entrarci in qualche modo.
All'inizio le posizioni erano concilianti: i ragazzi mi proponevano i pezzi che volevano suonare e io lasciavo passare almeno cinque secondi prima di cassarglieli. Quando facevo suonare loro il giro blues o quello reggae loro sbuffavano pesantemente la loro noia, ma dopo almeno un paio di minuti.
Poi le cose si fecero difficili: non riuscivo far vedere loro i traguardi che la musica fatta bene poteva procurare. Per alcuni, poi, le mie lezioni erano un modo per passare qualche ora di divertimento, e non l'ossessione che mi pervadeva da molto prima che fossi loro coetaneo, quindi non capivano perché fossi così esigente. La tensione, certe volte, si poteva pizzicare con un plettro.
Dovevamo trovare un punto d'incontro.
Mi venne in mente quello che mi disse un chitarrista con cui suonavo nei locali, negli anni '80: “Hai presente quei chitarristi tipo Malmsteen, quelli che incidono quei dischi pieni di assoli velocissimi? Ci andavo pazzo, letteralmente. Pensavo che fosse il non plus ultra in fatto di musica. Beh, la prima volta che andai a sentire un'orchestra sinfonica, mi sembra che suonarono Mendelssohn, mi accorsi che la signora sessantenne nel terzo leggio dei secondi violini, con il coprispalle di lana nero e gli occhiali con la catenella, suonava molto, ma molto più veloce. Da quel momento cominciai a pensare la musica in modo diverso.”
Era quello il segreto. Pensare la musica in modo diverso.
Il giorno dopo presentai al preside del Galilei un piano di uscite da autorizzare. Mi chiese se lo stavo prendendo in giro. Risposi di no. Mi disse che la cosa non aveva precedenti, e che aveva paura di stabilirne uno pericoloso. Gli risposi che i precedenti, almeno a quanto ne sapevo, non hanno mai spaccato finestre a pallonate o intasato i bagni della scuola con fogli protocollo. Fece una smorfia. Poi firmò.
Contattai un'orchestra da camera, chiedendo di far assistere gli studenti alle prove. Chiamai un quintetto jazz, chiedendo di far assistere gli studenti alle prove. Feci lo stesso con un coro gospel, un gruppo popolare irlandese, uno di percussionisti ivoriani. Tutti mi dissero di sì. Stavo per chiedere anche ad un ensemble barocco, sull'onda dell'entusiasmo, ma riuscii a trattenermi.
E nel frattempo arrivò Matteo.
Matteo Burchi. Sedici anni. Me lo ritrovai in classe quando la madre, single, venne a sapere che il mio corso si teneva nel pomeriggio, e che poteva sistemarlo da me e restare al lavoro un paio d'ore in più al giorno.
Me lo ritrovai in classe anche nel senso che prima dell'inizio di una lezione, a dicembre, aprii la porta dell'aula\sala prove e ce lo trovai dentro.
“E tu? Che ci fai qui? Chi ti ha fatto entrare?”
Ero piuttosto seccato per la mancanza di sicurezza, il mese prima l'aula era stata derubata di diversi strumenti, quindi probabilmente la frase mi venne fuori più secca di quanto intendessi. Ma Matteo non sembrò particolarmente urtato dal mio tono. A dire il vero, non si accorse nemmeno che avevo parlato. O che ero lì, se è per questo.
Era seduto su una sedia e mi dava le spalle, rivolto verso la finestra dove si intuiva un sole troppo timido per tentare di penetrare le nuvole. Agitava una mano di fronte agli occhi, senza sosta.
“Oh, ma mi senti?”
Niente. La mano continuava a salire e scendere, le dita leggermente separate. Gli andai vicino, mi misi di fronte a lui. La mano non si fermò, ma attraverso le sue labbra chiuse cominciò a trapelare un leggero mugolio, che lentamente acquistava volume. Anche la sua testa cominciò a muoversi da una parte all’altra, come in una stolida negazione.
Non me la sentivo di toccarlo, intuendo che avrei fatto peggio. Stupidamente, senza riflettere, tornai verso la porta dell’aula per chiuderla e non far sentire in corridoio quell’ormai quasi grido…e il mugolio si affievolì, tornando al silenzio in pochi istanti.
Mi voltai di nuovo verso il ragazzo, la cui testa aveva smesso di scuotersi. La mano invece continuava imperterrita il suo gioco incomprensibile.
Guardai verso di lui, poi verso la finestra. E capii in che modo avevo increspato le acque del suo laghetto personale.
Mettendomi fra lui e la finestra, gli avevo tolto la luce.
Nessuno sapeva niente. Non il preside, non gli insegnanti di Matteo, nemmeno i bidelli. La madre almeno mi venne a supplicare di aiutarla e di tenerlo con me almeno fino alla fine del quadrimestre, e se dopo non fosse stato possibile si sarebbe organizzata; per tutti gli altri, sembrava che stessi parlando di un soprammobile.
“Mah, guarda, dove lo metti sta, non dà noia a nessuno...”
“Ho capito, mica mi preoccupo per le belve, a loro non fa né caldo né freddo. Mi preoccupo per lui. Noi facciamo parecchio casino a lezione, non è che si sconvolge o che so io?”
“No, professore, non si preoccupi. Il soggetto non mostra alcuna reazione agli stimoli uditivi anche quando improvvisi o ad alto volume. Oltretutto non interagisce con gli altri soggetti se non si insinuano nella sua sfera e non utilizza gli oggetti intorno a sé, quindi è del tutto avulso...”
“Sì, sì, ho capito.”
E in effetti il “soggetto” se ne rimase bello, tranquillo e rilassato a passarsi le dita aperte davanti alla faccia mentre i miei ragazzi macellavano “Long train running” e massacravano “All right now” prima delle vacanze di Natale. Devo dire che gli smutandati dimostrarono molta più sensibilità dei loro insegnanti: cercavano di non urtare Matteo né fisicamente né con gli amplificatori, sbirciavano spesso nella sua direzione per vedere se stava bene, due di loro provarono pure a suonargli qualcosa. “Magari gli piace, profe, lei che pensa?”
Non sapevo che pensare. Mi sentivo drammaticamente insufficiente, non in grado di affrontare una situazione simile. Volevo e sentivo che si poteva fare di più, ma cosa? Come? A gennaio poi avevo in programma le prove aperte con il quintetto bop, le prime di quella serie di incontri che sarebbe andata avanti fino alla fine dell'anno scolastico. E Matteo? Ce lo portavamo dietro sull'autobus di linea? E se “reagiva male”, noi cosa avremmo fatto? Non era un “soggetto”, era un ragazzo vivo e presente fra di noi, che però aveva un suo universo in cui non potevamo entrare, figuriamoci comprenderlo.
Un'associazione di volontariato ci venne incontro, affiancandoci alcuni dei suoi membri più esperti nella specifica patologia di Matteo, e dette a me e alla scuola la sicurezza che ci serviva. Quindi il 10 gennaio entrammo per la prima volta al “Peach Jam Bar”, dove ci aspettavano i Bam Boppers.
Passammo due ore ad osservarli mentre studiavano “Salt peanuts” e “A night in Tunisia”, ed io cercavo di far notare ai miei ragazzi la precisione, la ricerca del suono e la passione che mettevano in ogni singolo passaggio. E mentre dicevo tutto questo mi voltavo spesso verso Matteo, forse inconsapevolmente. Aveva trovato un punto in cui l'intersecarsi delle luci creava un effetto che a lui evidentemente piaceva e stava lì, muovendo il tronco e la testa per assecondare il gioco che i suoi occhi percepivano. Vedevo la sua testa entrare e uscire dal cono di luce e pensavo a cosa potesse mai arrivargli. Se e cosa pensasse, o se solo si era accorto di essere in un posto sconosciuto, con musica che sicuramente non aveva mai sentito.
Col bebop il progetto aveva funzionato bene: febbraio lo passammo con l'orchestra di Santa Marta, marzo con gli Whisky In The Jar, aprile con Mori, Mamadou e Kasimir...i ragazzi erano entusiasti, facevano domande su domande, chiedevano di assistere a dei concerti e di organizzarne a scuola, suggerivano contaminazioni di ogni genere e livello. E Matteo era lì, diventato una via di mezzo fra una mascotte e un cucciolo. Tutte le volte che lo guardavo mentre la musica invadeva o accarezzava l'aria intorno a noi cercavo di scoprire un guizzo degli occhi, un rallentamento del suo moto incessante, e spesso mi illudevo di averlo visto. Mi resi presto conto che il mio desiderio di comunicare con lui attraverso le note era pia illusione.
Un pomeriggio tornammo alla scuola alla fine di una prova aperta e in segreteria mi attendeva un messaggio della mamma di Matteo, che mi pregava di trattenermi un altro po' e che sarebbe venuta a prenderlo al più presto.
Mi misi quindi a riordinare l'aula, con il mio silenzioso compagno seduto immobile davanti alla sua finestra. Nel prendere le bacchette da sopra il rullante, dove naturalmente le aveva abbandonate uno degli smutandati in vena di emulare John Bonham, detti un paio di colpi sul rullante stesso, per sentire se come al solito era stata lasciata in tirare la cordiera.
Ta – ta.
Pausa.
Ciac– ciac-ciac.
Pausa. Decisamente più lunga.
Mi guardai intorno, la soluzione più logica era che fosse arrivato qualcun altro e non lo avessi ancora visto.
No. A parte me e Matteo, l'aula era deserta.
Lo scrutai, mi stava dando le spalle. Feci un altro tentativo.
Ta – ta.
Il movimento era quasi impercettibile, da dove mi trovavo, ma era inequivocabile che i colpi di risposta arrivavano dalle sue mani battute contro le cosce.
Ciac– ciac-ciac.
Un'altra volta. E il pattern si ripeté.
Lo riconobbi, era il gioco del rullante di un pezzo che avevamo sentito quel pomeriggio.
Non sapevo cosa fare. Mi veniva da saltare di gioia, da avvicinarmi a Matteo e abbracciarlo, da telefonare in Svezia e propormi per il premio Nobel. Il mio sguardo si perse per la stanza senza sapere dove guardare, finché non si fissò verso la porta dell'aula, dove c'era la mamma di Matteo che guardava lui, poi me, poi di nuovo lui, come uno spettatore di una partita di tennis. Vidi che stava per scoppiare a piangere, forse per l'emozione, forse per la paura di una reazione nuova e inaspettata, forse per questi e altri mille motivi. Per un istante mi passarono davanti le norme base della deontologia professionale, l'istante dopo le avevo già buttate nel cesso e stavo abbracciando quella giovane mamma, che si aggrappava a me soffocando i singhiozzi sul mio maglione.
Lo specialista che aveva in cura Matteo riassunse magistralmente la sua opinione professionale con un “Boh?”. I volontari che ci accompagnavano nelle trasferte fecero valere la propria esperienza sul campo con un “Mah?”. Il preside e gli altri insegnanti mostrarono il loro spasmodico interesse con un “Vabbè”.
Visto il decisivo supporto degli addetti ai lavori, decisi di esplorare quanto può essere pericoloso un insegnante incompetente se adeguatamente motivato, e alla lezione successiva provai a mettere il nostro più promettente batterista dietro le pelli senza dirgli nulla. Appena seduto al panchetto il pischello dette due colpi di rullante, ai quali risposero subito le mani e le cosce di Matteo. La reazione dell'imberbe fu encomiabile: anche lui riprovò lo stesso pattern un paio di volte, poi si voltò verso gli altri ragazzi con lo sguardo che diceva: “Avete visto anche voi?”. Nessun urlo belluino, nessuna escandescenza puberale, da parte di nessuno. Erano tutti incantati, consapevoli ognuno al suo livello del vero significato di quanto stava accadendo.
Poi il ragazzo provò a dare quattro colpi equidistanti. Matteo non si mosse.
Ci scambiammo uno sguardo, io e il batterista. Ci stavamo dicendo: “Beh, Roma non fu costruita in un giorno”. Proseguimmo con la lezione, anche se era difficile focalizzarsi su qualunque cosa non fosse ogni piccolo movimento di Matteo, che invece se ne rimaneva placido sulla sua sedia con lo sguardo alla finestra.
Avevamo provato la nostra versione di “Badge” per tutto il pomeriggio, e quando mancavano dieci minuti alla fine della lezione chiesi il silenzio, che incredibilmente arrivò subito, e pregai Oliver, il batterista, di ripetere le prime quattro misure di intro, con il bordo rullante, da solo.
Tac-tac-tac-tac.
Matteo non si fece pregare.
Ciac-ciac-ciac-ciac.
Ancora.
Tac-tac-tac-tac.
Ciac-ciac-ciac-ciac.
Mi mossi d'istinto, presi una sedia e mi misi accanto a Matteo. Feci cenno ad Oliver. Un'altra volta.
Tac-tac-tac-tac.
Stavolta anch'io risposi al rim shot insieme a Matteo.
Ciac-ciac-ciac-ciac.
Il suo sguardo era ancora perso in un punto indefinito fra sé e la finestra, non gli usciva ancora un suono dalla bocca, ma mi sembrava di aver trovato un traduttore universale Matteo-resto del mondo.
Provai a continuare il ritmo sulle mie cosce, per vedere se mi seguiva, e dopo qualche tentativo prese anche lui a scandire i quattro quarti insieme a me.
Io mi sarei fermato lì, ero troppo vecchio per sperimentare di più in un solo pomeriggio, ma per fortuna ho degli allievi meno vigliacchi di me: infatti, mentre ero concentrato sul pattern per doppio quartetto mani e cosce, non mi accorsi che il bassista aveva attaccato di nuovo il suo strumento e aveva acceso l'amplificatore. All'improvviso sentii la linea di basso dell'intro di “Badge” a tempo con il nostro ritmo. Mi voltai quasi arrabbiato verso il bassista, ma l'orecchio che avevo lasciato insieme a Matteo registrò il fatto che il ritmo non si era affatto interrotto. Forse era un mio pio desiderio, ma mi sembrava che il pattern, con l'ingresso del basso, avesse acquistato più dinamismo...più groove.
Con la coda dell'occhio colsi un movimento alle mie spalle e mi voltai. Sulla porta dell'aula c'era Anna, la mamma di Matteo, sorridente e con le lacrime agli occhi. Una risatina scambiata fra bassista e batterista mi fece rendere conto che anche i miei occhi erano umidi.
“Guarda, il profe che piange!!” pensavano. Ma, credo, con molto rispetto.
Non fu tutto rose e fiori. A volte le belve si lasciavano trasportare, provavano a rivolgersi a Matteo come avrebbero fatto con chiunque altro e, quando andava bene, restavano delusi. Quando andava male, come successe dopo un tentativo di abbraccio o di pacca sulla spalla, Matteo reagiva scattando, allontanando tutti mulinando le braccia e poi chiudendosi in sé stesso. In modo inequivocabile, fra l'altro, rannicchiandosi accovacciato in un angolo e proteggendosi la testa con le braccia.
Per fortuna, dopo questi incidenti, non passava molto prima che le cose tornassero come al solito, e non successe mai quando eravamo fuori dalla classe; non ci azzardavamo a fare esperimenti in una situazione che non ci fosse familiare.
Alla fine, poi, trovammo tutti la giusta misura per interagire con la nostra mascotte: gli proponevamo dei pattern ritmici, che assorbiva con i suoi tempi, e poi suonavamo insieme a lui. In alcuni casi, come alcuni passaggi di “White room” o “Cold shot”, ci arrivava prima lui degli altri; suppongo che le difficoltà di scansione ritmica non fossero gli stessi per Matteo e per Oliver, Andrea e il resto della truppa.
Anna si fermava spesso dopo la lezione a parlare con me. La sua stanchezza era ancora il tratto più evidente nelle nostre conversazioni, ma ogni volta che le raccontavo i nostri progressi vedevo ad occhio nudo che un po' di quella stanchezza scivolava via dal suo viso e dalle sue spalle. Lo ammetto, stavo cominciando a farmi delle idee decisamente poco etiche su di lei; ovviamente prima di sapere che si era innamorata di un ingegnere civile e che stavano pensando di andare a convivere. Lo so, la vita a volte fa schifo.
Ci stavamo avvicinando alla fine dell'anno scolastico. Tempo di bilanci, voti, esami. Perfino i maturandi non vollero comunque rinunciare alle lezioni di musica d'insieme, anche perché avevo organizzato una sorta di saggio finale, in cui i miei allievi avrebbero suonato alcuni brani studiati in classe.
Ovviamente le belve cominciarono a latrare: “Profe, ma Matteo il saggio lo fa, vero?”, “Profe, se mettessimo anche Matteo sul palco? Sarebbe ganzissimo!” (ovviamente la consecutio di questa frase l'ho aggiustata io).
La reazione dei primati non si fece attendere: “Professore, naturalmente è improponibile un qualsiasi coinvolgimento di Burchi nel suo concertino. Non possiamo prenderci una simile responsabilità, pensi a tutti i genitori che saranno presenti...”.
Se non avesse usato la parola 'concertino' anch'io ci avrei messo una pietra sopra. Ma ci sono cose che fanno vedere rosso anche un insegnante di mezza età.
Quindi il giorno del saggio, oltre a montare amplificatori, microfoni e strumenti, montammo anche un piccolo rialzo alla destra della batteria, con una sedia e un microfono all'altezza delle ginocchia. Il sound check durò quasi due ore, e Matteo fu l'unico che non dette neanche un grattacapo.
Andò così, il primo ed unico saggio di musica d'insieme dell'ITI Galilei con body percussionist. Con ragazzi entusiasti, volumi da correggere ogni trenta secondi, genitori e familiari in delirio neanche fossimo stati ad un concerto di Madonna, e un tranquillo sedicenne su una sedia che non sbagliò neanche un colpo. Non lo aveva mai fatto in due mesi di lezioni, e non sarebbe stata quella la prima volta.
Quando scendemmo dal palco Anna mi abbracciò e mi tenne stretto per almeno due minuti buoni, piangendo. Anche i ragazzi erano commossi, anche se cercavano di non darlo a vedere. Nel frattempo Oliver e un altro paio si erano preoccupati di formare una sorta di cordone intorno a Matteo, per proteggerlo dagli entusiasmi del pubblico che lo aveva applaudito. Il ragazzo dondolava la testa, cercando chissà quale luce, probabilmente non rendendosi conto che la luce quella sera veniva da lui.
Ho scritto una relazione dettagliata del nostro lavoro con Matteo e l'ho consegnata ad Anna, le servirà quando si trasferirà con il suo nuovo compagno a Milano. La scuola dove andrà Matteo ha un corso di musica di prim'ordine, e gli insegnanti avranno delle basi con le quali imbastire un programma di massima che possa coinvolgere anche lui.
Quest'estate andrò a sentire Oliver e alcuni altri smutandati, che hanno formato una band partendo dai pezzi fatti insieme e faranno una mini-tournée nei locali all'aperto. Non dico siano i Led Zeppelin, ma se la cavano decisamente bene, e soprattutto sono molto uniti. Mi piace pensare che anche Matteo abbia contribuito a questo risultato, e forse non mi sbaglio più di tanto.
Non è detto che le cose importanti debbano essere per forza grandi, o famose, o di successo. Se chiedessi a chiunque chi è Matteo Burchi, tutti mi risponderebbero: “Chi?”. Magari, se fosse nato a New York e avesse avuto come insegnante mister Holland adesso sarebbe conosciuto in tutto il mondo, avrebbero messo il suo “caso” davanti ad ogni obiettivo e sotto ogni riflettore.
Ma va bene così, credo.
In fondo, alla Berklee School of Music di Boston viene insegnato lo stile John Bonham, ma anche lo stile Giulio Capiozzo.
DISCOGRAFIA:
Led Zeppelin, album senza nome (aka “Led Zeppelin IV”), 1971
Area - “Arbeit macht frei” (album), 1973
Yngwie Malmsteen, “Trilogy” (album), 1986
Felix Mendelssohn, sinfonia n° 4 “L'Italiana”, 1830-34
Doobie Brothers, “Long train running”, 1973
Free, “All right now”, 1970
Dizzy Gillespie, “Salt peanuts”, 1942
Dizzy Gillespie, “A night in Tunisia”, 1940-41
trad. irlandese, “Whisky in the jar”, ca. 1720
Cream, “Badge”, 1969
Cream, “White room”, 1968
Steve Ray Vaughan & Double Trouble, “Cold shot”, 1984
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