POEMA INTERIORE
Ancora ricordo quel giorno
in cui aprii un libro
che come un deltaplano
mi fece planare
su valli verdi
dove andare
libero come un cavallo
senza briglie pronto
a nitrire al cielo.
Fu come una dose
che ti scorre nelle vene
e che delle pene
e del martirio
della carne
ti solleva
avvelenandoti.
Si, quelle pallide
parole, quelle lettere
maleodoranti
di quel vecchio libro
comprato per un euro
da uno sdentato libraio
su di una povera bancarella
furono l’edera velenosa
che si è arrampicata
prima sulle gambe,
poi, pian piano,
si è arrampicata
fino al petto,
riempiendomi
di bolle e malattia.
Ma fu una magia,
quel delirio che provai:
assurda perdizione
nella canzone
dei sassi sussurranti.
E bramanti volarono
i pensieri fra le infinite
stelle e le belle
bocce di una donna
truculenta che posava
le sue labbra sul mio ombelico
brontolante come un uragano.
Quando presi la penna
in mano mi sentii
come un adolescente
che prende per la sua prima
volta in mano il cazzo
per abbandonarsi
a sfrenate fantasie
sulla sua amichetta
che mostra i primi seni
e ammiccante vuole conoscere
l’amore della carne.
Posare sulla carta
una bic e il suo inchiostro,
che scivolava come
un implacabile
fiume nero
senza argini
e costrizioni,
senza paura
di inondazioni ...
ambivo
solamente la liberazione
e la distruzione …
le parole debordarono
sui campi del mio intelletto
e l’effetto fu quel che mi aspettai:
una meravigliosa catastrofe.
Furono sterminati i fiori,
sterminati gli alberi da frutto
e tutto affogò
in inesorabili acque nere.
E quelle sere
in cui nuotavo
con maschia delizia
in queste acque del caos
e alzavo lo sguardo
e con gli occhi
un dardo gettavo
di desiderio e bramosia
verso l’infinito universo
che nel pensare ardevo
poter spostare
con una semplice
bracciata.
Ero lì, sempre fisso,
nell’amata confusione
di una tigre
che mastica
le nuvole con fermi
canini e serrate mandibole.
Non ci volle molto tempo
a comprendere
in che razza di guaio
ero andato a finire …
scrivere fino a morire,
con quella penna
che prima diventava
coltello, poi pennello,
poi sciabola, poi machete
pronto a spezzare
i verdi rami
di questa jungla
di nome esistenza.
E non ci volle molto
e comprendere
di che essenza
fosse questa
mia malattia:
placido tremore,
amore per la pazzia.
E così era,
è impossibile
nascondersi
a sé stessi.
Mi accorsi subito
Che come me,
malati della mia malattia,
ve ne erano ben pochi:
fuochi flebili
su questo mare del niente.
Compresi anche
che non ci si nasce
con questa tendenza
di ricercare
in una formica,
in un granello di sabbia,
in un briciolo di pane
l’essenza dell’eternità.
E così camminavo
sconsolato per i marciapiedi,
freddo e meditabondo,
a caccia dell’infinito
nascosto fra due versi,
fra due crepe dell’asfalto.
Di cobalto coloravo
le parole nei tristi giorni
dove naufragavo
malinconico
nell’oceano di suoni
di una chitarra di strada,
altre volte un lieve
tramonto arancione
mi rincuorava del fatto
che la morte
avrebbe azzittito ogni dolore
cullandomi dolcemente
sul suo grembo
come una madre benevola.
Tante altre volte
consumavo il mio tempo
seduto su di una panchina
a dipingere con le parole
quel quadro misterioso
di nome universo.
Stelle, pianeti, galassie,
buio …
tutto mi ispirava
la nostra enorme insignificanza.
Molto spesso vagavo di stanza
in stanza, per poi affacciarmi
al mondo dall’intimo balcone
dove potevo osservare
l’oceano sprigionarsi
nella sua vastità,
come uno sputo
per una formica.
E mi perdevo, assurdamente,
con la mente labile
come una foglia in una tempesta,
come un’onda nella marea.
E su questa sponda dell’esistenza,
dove tutto si contorce
nei marasmi del dolore,
dove ogni colore che brilla
poi sbiadisce verso il bianco,
non demordevo nella voglia
di imbrigliare ogni doglia
in una catena di rime.
Quanti teschi ridenti
godevano della vita
spalancando le loro
mandibole tremolanti.
Ma io ero già
un morto consapevole.
E me ne accorsi un giorno,
quando vidi una donna
sdraiata su un letto nero
con in mano una croce
e con un gelido silenzio
negli occhi.
Anche lei, anche quel vuoto
contenitore di sogni ed ambizioni,
quel cassone di immondizia
dove furono gettati
tempo addietro
sporchi pensieri,
adesso era nei neri
meandri dell’occulto.
E chissà cosa nasconde
la morte
dietro il suo sacro silenzio,
chissà cosa nasconde
il buio nel suo eterno
attendere l’ultimo
canto di luna.
Da lì i miei occhi
si tramutarono
in cinici occhi di corvo,
da lì, con occhi di gatto,
appresi cosa
vuol dire vedere
gl’uomini nel buio:
ombre evanescenti
che girano l’angolo
per finire non si sa dove.
Eppure ricordo ancora quel mattino
dove mi svegliai
con il sole negli occhi:
aprii la finestra
e aria e luce entrarono
come una benedizione.
Sotto casa una canzone
napoletana intonava
una vecchierella
e le note leggere volavano
nell’odore di sfogliatella
e caffè.
Il golfo di Napoli
immenso si stagliava
e sembrava profondo
come l’animo di ogni
Poeta di questa terra.
Le donne avevano
pesche al posto dei seni,
dolci da mordere
come frutta di stagione.
I capelli scuri e intricati
come le vie di Spaccanapoli
e la malizia nello sguardo
che tutte sembravano
un po’ puttane,
un po’ bigotte.
Mi ruggiva l’animo
come una belva affamata.
Finalmente una illusione,
una illusione potente!
La gente salutava
come fossi loro fratello
e il calore nell’animo
sembrava riscaldarsi
come un vulcano.
E’ come se sentissi
ancora il Vesuvio
scorrere nelle mie vene.
Ho sempre odiato l’amore,
nel suo renderci deboli
come leoni in gabbia,
elemosinando il loro pasto.
Quante volte Cupido
mi ha lanciato
la sua freccia avvelenata
e mi ha riempito il sangue
di dolci illusioni.
Torta dopo torta,
ne vorresti fino a scoppiare
ed avere un infarto.
Ma questo la mia penna
lo sapeva, aveva bisogno
di quel sogno impossibile
da scrivere fra due galassie.
Ci fu una sera in cui
fui colto da uno strano ardore
e scrissi una poesia d’amore
su un fazzoletto in un bar,
con al fianco una birra.
Molte volte ho cercato
di rinchiudere l’oceano
fra due lettere …
una sigaretta in una mano
e la disperazione nell’altra,
questa vita ha consumato
ogni goccia del mio sangue,
quasi fossi una maledetta
fontana di dolore.
Molto spesso
sono inciampato
in un sogno
e sono caduto
di faccia
in una pozzanghera
in un giorno di pioggia,
mentre guardavo
le nuvole
aspettando
che un fulmine
scrivesse con l’elettricità
un verso
che non avrei mai
potuto scrivere …
e quante notti
mi sono seduto
sulla sabbia
in solitudine
per aspettare
quello sparuto
ed ultimo raggio di luna.
Sono sempre stato
un manigoldo,
ma questo tu lo sai,
mia siringa, penna mia,
iniezione di infinito,
eternità ed illusione!
Quante volte ti ho utilizzato
per sedurre una bella
donna ad aprirmi
le sue gambe
come fossero
un bel libro da sfogliare,
un oceano da solcare
con la mia prua
volitiva
sempre alla ricerca
di nuovi atolli
dove abbandonarmi
al mare, al sole,
ai granelli di sabbia
e al sussurro del vento.
Sempre ti ho usato,
sempre ti ho usato,
candido pugnale!
La vita è un oceano
nel quale gettarsi
per poi lavarsi di quel sale
che causa un fastidioso prurito.
E così, andando per vie
sconosciute,
per le mute strade
di un fresco pomeriggio
d’estate,
la mia gola
non si è mai negata
un bicchiere d’azzurro
e l’infinito silenzio
dell’universo,
mentre disperso
nei pensieri
vagavo fra Giove e Plutone
immaginando
cosa provi
un fascio di luce
nel dissolversi
lentamente
come nebbia
al mattino.
E chino,
ancora oggi,
mi ritrovo
a cogliere
quei pezzi di nuvole
per poi metterli
in un vaso
che innaffio
con sangue
e dove con il naso,
ogni tanto, con velleità,
inalo a polmoni spiegati
un soffio di eternità.
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