È l’opera prima di un medico che scavalca la razionalità del proprio mestiere rivelando con estrema sensibilità quello che accadde in un lontano inverno della metà del secolo scorso.
Il fascino di questo romanzo sta proprio nell’attesa di qualcosa che sta per succedere ma che, paradossalmente, non succede. Nessun episodio saliente, nessuna azione dirompente, nessun dramma né momento di relief.
Solo la vita in divenire che entra silenziosamente irruenta dalla finestra. Sfogliare le pagine di questo romanzo è aprirne le ante e farvi entrare un’invernale folata d’aria, respirandone contemporaneamente ma distintamente fragranze e fetori. “Una piccola finestra che dava su tetti […] da sempre ogni volta che mi affaccio a quell’apertura , la visuale che mi appare non è ristretta e selettiva, non posso vedere alcune cose e altre no, non posso udire alcuni suoni e altri no”.
Senza un’apparente sequenza temporale, senza un se e un quindi, l’autore scava sotto la coltre bianca di neve che ricopriva le strade riscoprendo memorie e commozioni. Lo dimostrano per di più le lunghe proposizioni e le innumerevoli virgole.
Il lettore non deve aspettare che il vento lo aiuti a sfogliare le pagine successive. Può iniziare un qualsiasi capitolo e, avvolto dal tepore della stufa a legna, fare propri i “ricordi di spine” di Brischi. Quando nella famiglia patriarcale si era “convinti che la stima da riservare a un genitore si misurasse sulla quantità di nerbate che distribuiva alla prole”. In un’epoca in cui l’unica ricchezza che un uomo o un bambino poteva permettersi di possedere era sapere riconoscere l’altro “per conoscere veramente a fondo una persona occorre condividere il suo passatempo preferito” e “guardare nella stessa direzione”. Anni di privazioni “anche la mattina dell’epifania la grossa calza appesa al camino aveva svelato al suo interno solo tre noci, due fichi secchi, un mandarino e tanta cenere e carbone, questi ultimi due doni non tanto per punire le cattiverie dei bambini, ma per riempire i vuoti lasciati dalla povertà”.
L’invisibile fil-rouge che unisce ogni capitolo sono gli incipit iniziali, pensieri svelati dal matto del villaggio, Biagino, che insegna agli altri come dare un significato all’accadere della vita perché “altrimenti non sapremmo viverla”, ma che preferisce “aspettare la fine da fermo”. Un uomo che avrebbe voluto addormentarsi e risvegliarsi in un mondo cambiato. Un uomo a cui Brischi, con una punta di rimpianto, avrebbe voluto “insegnare a volare”.
Finché le brinate di aprile “avrebbero colpito i primi germogli di primavera” e sotterrato quelle calde reminiscenze di un gelido inverno del ’56.