E’ lieve il traino di un raggio scavezzacollo.
E tale la resa della traversata che almeno un’orma
resta in piedi ai piedi della marea albina. Tornerà
da guastafeste così come accosta da largo
il bollore quietato, la manfrina da cielo roso,
la coppola london smoke, alle ventitré fuorionda.
Tempo adora il linguaggio, dice Josif; (e non solo,
considero a voce la sua somma). Quali atti
danno ragione all’uomo nella disputa
del così tanto fuorionda? L’alfabeto:
prova ne sono i microfoni e i computer.
Vado sulla sabbia sottomessa alla frusta del libeccio.
E’ quasi appianata perché i suoi grani a ripetezione
servono rosari alle prefiche del mare: la fila
di gocce battenti da una rissa all’altra, da minuti
persi a minuziosi stormi che bombardano i resti
di bordo; ovvero: l’acqua aviatrice, e non quella
del mare d’assalto, compie la sua missione
di livellatura della specie “spina di pesce”.
Un riff incessante che colloca le sillabe liquide
nel catino di un discorso profondo e lo annacqua.
Parlare a vuoto è ciò che un granchio scoperto
chiama poesia che avanza di lato, permanendo
una speranza di continuità comunque nella fuga,
dove puoi inciampare, è vero, ma leggi il presagio
che tutto può essere superato se appena lo dimentichi,
come più sopra due o anche una sola nuvola
dal volto familiare per combinazione disposta al volo.
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