IL RAGNO
Io ti invidio,
che non conosci
il terrore del gelo
delle notti solitarie,
quando l’orrore
assale la mia anima
come una nera pantera
che si fionda
da un albero sulla preda.
Così certa, Anthea,
amore mio, tu non conosci
gli scrosci dei fiumi
dei boschi oscuri
dove cammino
cercando stelle riflesse
nelle acque di questo Stige,
cercando la salvezza
dallo schivo e fatale pensiero.
E vivo, in quest’ebbrezza
Oscura che mi esalta
E mi abbandona,
che opprime la mia anima
come una pistola sulla tempia.
E nulla mi consola,
neanche il tuo corpo
e il tuo sorriso malizioso,
neanche la poesia
che, come un ladro bastardo,
mi ruba ogni giorno
di un pezzo d’anima,
che mi mostra il mare
e poi vuole affogare
nel suo immenso
ogni mia maledetta
frustrazione.
Io ti invidio,
che non hai mai
sentito quella canzone
tetra che promette
che la fossa sarà
riposo e pace,
che mi ricorda
che tace il dolore
lì dove tace il cuore,
lì dove tace l’umanità.
E tu sai, sai perfettamente,
come avrei dato la mia vita
solo per esser chiamato “poeta”,
per scrivere una strofa d’acciaio,
un verso di diamante,
una rima devastante
come un uragano.
Ed a volte ci penso,
lo ammetto:
accetto il mio petto
come un tronco secco
per gettarlo nel camino
e riscaldarmi in questo
infinito gelo,
per scongelare
il triste pensiero …
ma questo fuoco nero
non riesce neanche
a riscaldare le mie parole!
La penna trema
Nelle mie mani
Come un fucile
ad un cadetto
In guerra,
come un ramoscello
nel vento di Dicembre.
Non te lo nascondo,
mia dolce mosca:
a stento potrò
andare avanti ancora,
a stento potrò
guardare
questa notte fosca
senza provare
disgusto in questo angusto
anfratto di dolore.
La malinconia
È una tirannica regina
Che ha per scettro
Follia, fame ed angoscia.
E le lame del pensiero
Hanno tagliato le mie vene,
la mia carne,
come fosse burro,
e hanno riempito
la coppa di questa
puttana del mio sangue
avvelenato,
del mio sangue disperato.
Io ti invidio,
perché tu non conosci
il Dubbio, che si attanaglia,
si nasconde come un ratto,
che sguscia fuori dalla sua
tana e squittisce fastidiosamente,
e del banale formaggio
non lo farà cadere in trappola,
non mi permetterà
di ammazzarlo
e di gettarlo in un cassonetto
per non rivederlo mai più.
Non ho più poesia
Nelle mie corde:
il fumo, il vino e la disperazione
le hanno logorate,
corde di violino usurate,
dal suono osceno.
E mi dimeno,
come un pazzo
con la camicia di forza,
ma mi legano fili
invisibili, ragnatele
indistruttibili,
ed il ragno
sta per venire a prendermi,
sta per divorarmi.
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