In una temperie come quella odierna, nella quale la vergogna e il pudore sembrano essere usciti di scena come un fardello, che sembrava necessario dover estirpare ad ogni costo, come altri fardelli quali il male e la malattia, il dolore e la sofferenza, senza invece considerare la reale natura dell’uomo, Benedetta Cibrario ci accompagna per mano in un racconto delicato e avvolgente nel viaggio lungo il tempo dal 1792 al 2009, che si coagula intorno alla figura dello scurnuso, il vergognoso. Lo scurnuso è una statuetta di creta che rappresenta, ma nello stesso tempo incarna Tommaso Iannacone, figuraio di presepi, che vive nella Napoli borbonica bella e barocca come non mai, con quel caos di dedali di vicoli e viuzze e botteghe e colori e mare e cielo e azzurri e persone e personaggi impastati come in un sortilegio dell’uomo nell’avventura della vita con l’amore per l’arte e la bellezza. In una Napoli comunque e ineluttabilmente bella e affascinante, allora come ora. Allora, nel 1792, allora ancora durante i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, allora nel 2009 quando la statuetta, la stessa, è il dono prezioso di un padre ad una figlia. Oggi, seppure tra cumuli di immondizia, nel dicembre 2011, in questo tempo di Avvento, quando la storia affidata alle pagine stampate è chiusa… ma la narrazione cammina ancora dentro di noi e chissà lo scurnuso in quale presepe starà per essere collocato… Tommaso Iannacone ha bottega di pastoraio e ha adottato Sebastiano, soprannominato Purtualle, giovane orfano avuto in cambio di un lavoro. Sebastiano ha doti di artista inconsuete. Riesce con le sue mani e le sue dita a sciogliere e modellare l’argilla con facilità plastica e a creare personaggi che sembra respirino, che mostrano nelle linee dei loro volti i caratteri, che sembrano essere immortalati al di là dell’esistenza. Ecco che al padre adottivo, nonché maestro dell’arte, come atto d’amore e di estrema riconoscenza, Sebastiano regala immortalità e pregio, ritraendolo in una statuetta di creta con efficace bellezza, seppure nello stato di dolore scavato ad arte nel viso, nella condizione di malato e fasciato, semisdraiato, in uno stato di verisimiglianza realistica, tanto da sembrare che respiri, affaticato, ma comunque animato mentre sembra continui a respirare, adombrato da un senso di vergogna. E pur tuttavia lo scurnuso continua a vivere. E vive, nel corso dei mesi, degli anni, dei secoli, passando di mano in mano, di presepe in presepe, nei tempi d’Avvento, a stazionare in accademiche esposizioni fino al giorno della candelora, quando i personaggi del presepe rientrano nelle loro custodie. Purtroppo il male, fisico e morale, esiste, come esiste la sofferenza causata dal dolore per il male, e la vergogna, che è pudore, esiste anch’essa. Gli esseri umani hanno inscritti nel loro DNA e nella loro anima queste qualità come tante altre peculiarità. Un atteggiamento positivista e scientista ci ha illusi in un passato neanche tanto lontano che il male si potesse debellare e che il male per antonomasia, la morte, che segna la finitezza dell’uomo, potesse essere un giorno vinta. La realtà è quella che noi tutti abbiamo sotto gli occhi e la consapevolezza cresce sempre di più nel ritenere il fine degli esseri umani, compresa la loro fine, una dimensione di senso nella quale l’arte e la bellezza rappresentino insieme alla verità e al bene quei trascendentali che aiutano a vivere, a vivere bene, anche se è necessario fare i conti col male. Il romanzo breve di Benedetta Cibrario è un inno alla vita, alla realtà della condizione umana, e pertanto al bene, ma anche al male e alla sofferenza, alla caducità e alla finitezza, ma ancor di più alla bellezza, all’arte e al loro senso tangibile e recondito, nelle more di una dicibilità infinita che immortala. Il tutto affidato alla parola, al racconto, alla poesia, che aprono alla radura del mistero. Alla narrazione poetica, che suscita allusioni, ellissi, verticalizzazioni di senso e, perché no, di piacere, soprattutto in un periodo come questo, di Avvento al Natale, nel quale il silenzio dell’attesa si nutre e si vuole nutrire di canti, come questo bel canto offertoci dalla nostra narratrice. Inno alla felicità di vivere e di vivere bene, con un occhio alla tradizione, che è la nostra giovinezza, e altro occhio al futuro, che è la nostra consapevolezza adulta, in cui tuttavia non può mancare lo stupore innanzi al mistero. Mistero dell’arte e mistero della vita, che giocano in reciprocità, ai fini dell’essere e di un possibile senso. Mistero in questo caso di una scrittura, quella della Cibrario, che sa affidare alle parole, ai tratti del discorso, quell’alone pur anche poetico, che ci avvolge, ci coinvolge, ci coccola in una storia, la storia dello scurnuso, che in qualche modo pudicamente ci appartiene e che vorremmo non avesse mai fine.