Le arance e le iene non si curano dell’amore
Riflettendo su “Affari di cuore” di Paolo Ruffilli
di Paolo Ottaviani
Soffio
È in quel remoto soffio
dentro al cuore
che ognuno riconosce
il suo destino.
Il sogno più proibito:
l’idea di un infinito
perfino quotidiano,
lasciato in sorte
al corpo dell’amore.
Arreso e imprigionato
per conservare intatto
il tuo sapore,
sottratto al vuoto
tenuto tra le cosce
a lungo, invano,
come l’acqua
che scivola comunque
dalla mano.
Incastonati nella parte centrale dell’ultima raccolta poetica di Paolo Ruffilli - Affari di cuore, edita da Einaudi nell’agosto del 2011, i versi sopra trascritti, forse proprio in virtù della loro sospensione tra una densa fisicità carnale – il corpo dell’amore, il sapore dell’amante trattenuto nelle cosce – e quella sorta di volatile leggerezza metafisica – il soffio dentro al cuore, il sogno più proibito, l’idea di un infinito perfino quotidiano - credo siano fortemente rappresentativi dell’intero volume e forse, più in generale, della peculiare modalità con la quale Ruffilli si confronta con il grande tema dell’amore. A questo argomento in effetti il poeta reatino non è nuovo. Già nel 1987 in Piccola colazione il capitoletto dal titolo Per amore o per forza si misurava con queste tematiche e già allora Giuseppe Pontiggia aveva notato come, non solo sul piano della costruzione formale ma anche su quello più propriamente semantico, venivano infranti tutti gli schemi del perbenismo benpensante, tanto che quei “dialoghetti che interrompono, con inserzioni di iperrealismo, la convenzione degli sfondi piccolo-borghesi ricompongono, più che lacerare, quel tessuto di menzogne con cui la sincerità cerca di esprimersi” e metteva in rilievo come, sul piano più specificamente metrico e stilistico, Ruffili, fosse ricorso a “metri tra Metastasio e Gozzano, ad ariette di una musicalità incalzante e insieme dimessa”. La caratteristica del verso contratto infatti è emblematica di questo autore.. Le parole isolate, immaginate quasi come reali oggetti vaganti che suonano e poi risuonano negli echi che si accavallano e s’intrecciano in una sorta di rimbalzo musicale e semantico testimoniano di un conflitto a un tempo personale, intimo e insieme universale. Un cultore appassionato della metrica italiana come Luciano Nanni ha notato che i versi di Affari cuore “non danno l’idea di essere regolati, essendo talora spezzati in arditi enjambement e seguono un flusso che, se non versificato, apparirebbe quasi prosastico…ci sono non di rado metri precisi, come il quinario…o i senari…ma è chiaro che Ruffilli predilige il verso breve, non tanto per distillare le frasi, come gli ermetici, quanto per conferire “dignità” poetica a parole tutt’altro che difficili” o ricercate. Del resto è lo stesso narratore-poeta ad affermare l’impossibilità di una distinzione netta tra prosa e poesia proprio quando, riferendosi, se pur in modo traslato, alle “forme chiuse” sostiene che l’essere obbligati in “un corpo a corpo” con le regole “ti consente di produrre soluzioni altrimenti inarrivabili. È proprio misurandoti con la legge – dice Ruffilli - che riesci a trasgredirla nel senso più significativo, dal punto di vista della creatività”. E forse non è un caso che ciò che si afferma sul piano stilistico-formale poi si concretizzi sul piano semantico di questo poemetto d’amore. E’ ancora lo stesso poeta che, in una bella intervista radiofonica condotta da Ennio Cavalli, ci indica l’archetipo nascosto che lo ha guidato lungo tutta la stesura del poemetto e questo insuperato modello ispiratore è il biblico Cantico dei Cantici. Proprio quel testo cultuale dove, in tutte le molteplici gradazioni dei sentimenti e della passione umana, dalla più gioiosa tenerezza fino alla più tenebrosa sofferenza, viene sancita quella sacralità della carne che Ruffilli rivendica per la sua poesia d’amore. Una vicinanza a quel particolare misticismo che non umilia ma esalta il corpo. I versi che seguono, letti sotto questa luce, ne sono vivida testimonianza:
Tra le tue braccia
Non è, no, per me
il piacere
né la solitudine
o l’amore
in quel momento
a spingermi
allo spasmo estremo
tra le tue braccia
avvolto e stretto
dalle cosce
ma, contorcendo e
nell’intreccio
impietrendo intanto
il moto
ad arginarne il vuoto
- di tutto il resto
non so più che farne -
la furiosa voglia
di annegare in te
e di essere sepolto
dalla carne.
Certo, Ruffilli aveva evocato il Cantico dei Canti, là dove è fortemente presente anche una commossa partecipazione della natura, degli animali, delle piante e dei fiori, alle gioie e alle sofferenze dell’amore umano: “Io sono un narciso della pianura di Saron, un giglio delle valli”, dice l’innamorata, e per lui gli occhi dell’amata “sono colombe” e i suoi seni “due cerbiatti gemelli di una gazzella, che pascolano tra i gigli”. Narcisi, gigli, colombe, cerbiatti, gazzelle, in quel testo e in quel contesto, non sono orpelli letterari, artifici retorici. Tutt’altro. Testimoniano invece una compenetrata coralità di sentimenti umani e natura. Tutto vibra dentro lo stesso respiro. Ed è forse proprio l’assenza dell’alito degli alberi, degli animali e dei paesaggi che colpisce del libro di Ruffilli. Ed è un tratto mancante che pesa. È vero, nel suo poemeto d’amore incontriamo arance, pesche, albicocche o anche tigri e iene, ma sono scoperte metafore letterarie della dolcezza o della ferocia, della seduzione o della vendetta. La compartecipazione reale della natura alle vicende amorose degli uomini è assente. Forse è solo nell’apertura della lirica Maggio, che, quasi inconsapevole e furtivo, s’ascolta il respiro della primavera che accompagna l’incontro degli amanti:
Maggio
Maggio mi fa
il suo tenero racconto
della sera,
per riferirlo a lei
che lo ha già sentito
per suo conto.
La guardo che
mi guarda immobile
a parte il tremito del dito
fermato in aria
incontro alla mia mano
che non ha respinto.
Che importa,
vorrei dirle,
se non ci conosciamo
e non saremmo estranei
neppure per l’amore.
Solo a toccarci
e a stringerci abbracciati
sapremmo tutto
delle nostre storie,
del vuoto che ha lasciato
qualcun altro
e del bisogno
di chiudere comunque la ferita
riconsegnando al tatto
tutta la sorpresa della vita.
“Maggio mi fa il suo tenero racconto della sera”. La natura, se pur timidamente, s’affaccia oltre il rapido intercalare dei versi. Ma il poeta la ignora.
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