I testi sono riportati a partire dall'ultimo pubblicato e mantengono la formatazione proposta dall'autore.
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- Letteratura
Avverso il nome e Luciano di Samosata
“AVVERSO IL NOME” E LUCIANO DI SAMOSATA Uscirà prossimamente per i tipi LietoColle un libriccino assai singolare. Per quello che finora se ne conosce, attraverso la navigazione nel web, si tratta di un’antologia di poesia anonima dal titolo assai eloquente: “Avverso il nome”. Chi, come l’Editore Camelliti, ritiene che il nome degli autori possa essere solo “una buccia inutile, secondaria, rispetto alla loro poesia” non poteva scegliere titolo migliore. Sempre nel web già si possono leggere alcuni di questi testi poetici anonimi e anche diversi commenti, spesso assai dubbiosi, su questa certo inconsueta iniziativa editoriale. Tutto ciò è stato sufficiente per incuriosirmi. Credo che acquisterò l’antologia per una maggiore, diretta conoscenza. Ma intanto, mentre preventivamente mi informavo e leggevo, non so per quale misterioso circuito della mente, questo “Avverso il nome - Antologia di poesia anonima” mi ha fatto ripensare alla risaputa “questione omerica” e in particolare a questo ironico passo di Luciano di Samosata (II secolo d. C.) che immagina di incontrare il grande Omero nell’Isola dei beati. Ripropongo questo attualissimo brano nella bella traduzione di Maurizia Matteuzzi: “Non erano passati due o tre giorni che, avvicinandomi al poeta Omero – né lui né io avevamo niente da fare – cominciai a tempestarlo di domande: in primis, di dove fosse originario; gli spiegai che si trattava di una questione su cui, da noi, stavano ancora compiendo ricerche su ricerche. Neppure lui ignorava - mi rispose allora – che certuni lo ritenevano di Chio, altri di Smirne, i più di Colofone: era babilonese, invece; dai suoi concittadini non veniva chiamato Omero, ma Tigrane: in seguito, inviato in Grecia come ostaggio, si era cambiato il nome. Gli chiesi, poi, se avesse scritto veramente lui certi versi da espungere, e mi confermò che erano tutti autentici; per cui condannai come davvero eccessiva la pedanteria di Zenodoto e di Aristarco e dei filologi loro seguaci. Soddisfatto delle risposte avute sull’argomento, gli domandai ancora perché mai avesse cominciato l’Iliade dall’“ira” di Achille: mi disse che gli era venuto in mente così, non l’aveva studiato a bella posta. Morivo, inoltre, dalla voglia di sapere se avesse scritto prima l’Odissea dell’Iliade, come i più ritengono: e lo negò. Che, poi, non era nemmeno cieco – altra voce che circola sul suo conto – me ne sono accorto subito: ci vedeva, e così non ho avuto neppure bisogno di chiederglielo. Molte altre volte ci siamo intrattenuti a conversare, quando mi capitava di vederlo libero da impegni; mi avvicinavo, rivolgendogli qualche domanda, e lui appagava volentieri ogni mia curiosità, specialmente dopo aver avuto la meglio nel processo: infatti, Tersite aveva sporto contro di lui una querela per oltraggio, per la maniera in cui lo aveva schernito nel suo poema e Omero vinse la causa con il patrocinio, per la difesa, di Ulisse” A me pare infatti che il “piccolo editore” Michelangelo Camelliti continui in età moderna l’antica, spesso solitaria o intrapresa in assai piccola compagnia, battaglia contro le vanità letterarie, le “eccessive pedanterie” dei critici, l’attenzione a tutto ciò che è di contorno, ma non è la poesia. Eppure, come ci dice la sferzante metafora di Luciano, “Omero vinse la causa”. Se davvero in questo libro c’è della poesia, come anche dai pochi frammenti che ho potuto leggere mi pare che sia, allora la causa sarà vinta. E anche senza il patrocinio di Ulisse.
Id: 1172 Data: 21/08/2014 23:59:23
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- Poesia
Il viandante e il bambino
IL VIANDANTE E IL BAMBINO Ragionando su alcuni passi di Trinità dell’esodo di Eugenio De Signoribus In interiore il lungo grido nato con l’inizio del tempo lì connaturato e nutrito da lì risalito e moltiplicato il mai uguale nudo dolore il mai uguale silenzio la sua alfa generatrice l’a del suo abbigliamento… ah, se ciascuno vedesse la propria lettera malata e isolarla potesse in uno sfinito sé! o in un fuori straniarla e rinunciare a quel suolo!... così la restante parola che è salva e salvante potrebbe conoscere il corpo che l’ha generata e risanare ogni nome e la mappa lacerata… eppure lì, fissandone i confini, e, nell’oltre, la caduta lì, ascoltando il pulsare sfuggente della lingua, ancora sentirà l’erranza della matrice tradita ancora sentirà l’eco d’una colpa nel buio di nuovo annasperà in una scia d’astro spento o dissolto!... e lei, la parola rinata nell’arca dell’alleanza che potrebbe guardare in sé il volto della sua terra lei, a quella porta santa, arriverà ripiegata come una discordanza o una smossa ferita come ci fosse un dolo prima della lettera sola e intraducibile nel primordiale universo aperto per il vasto sempre e, per ciascuna vita, il sempre inizio Questa straordinaria, coinvolgente sequenza di versi, ordinati in 22 distici e chiusi o, meglio, schiusi sul quinario finale - il sempre inizio - con il quale si potrebbe ricominciare la lettura della medesima sequenza poetica - In interiore - come un mantra vedico perennemente rigenerato e rigenerante – qui infatti si parla dell’origine dell’uomo e dell’origine del tempo come un lungo grido di nudo dolore che lacera l’intero universo- costituisce la seconda delle tre direzioni lungo le quali corre la Rua, il soffio dello spirito. Suddiviso in tre grandi sezioni - Evo paterno, Cruna filiale e, appunto, Rua dello spirito - l’ultimo lavoro di Eugenio De Signoribus - Trinità dell’esodo, edito da Garzanti nel 2011, si pone su una linea di stringente continuità ma anche, sorprendentemente, di commovente novità rispetto all’ormai lungo cammino del poeta marchigiano. Un cammino quasi interamente raccolto nel volume, sempre edito da Garzanti, Poesie (1976-2007). Quel libro infatti si chiudeva con una lirica intitolata Congedo e accennava ad una vigilia, quindi a una sorta di preparazione spirituale per un nuovo giorno di poesia. Come in ogni vigilia qualcosa è destinato a morire e qualcos’altro a nascere o a restare. E infatti in questo nuovo libro - Trinità dell’esodo - che ha già raccolto importanti riconoscimenti - nel 2012 il premio Brancati-Zafferana - continua a manifestarsi “quell’incalzante e assiduo stato di stupore morale” che conduce il poeta ad una inesausta “ricerca di equilibri delicatissimi tra smascheramento, invettiva contenuta, strazio privato” come assai acutamente aveva già notato Giorgio Luzzi. Una ricerca sempre svolta nel segno di quell’intima eleganza e di quella naturale grazia che Eugenio De Signoribus, come per un dono celeste, sa trasferire dalla sua persona alla sua poesia. Eppure, dentro questo impeccabile, se pur assai arduo e complesso, nitore del pensiero e della parola si insinua una crepa che inesorabilmente si allarga fino a farci perdere ogni sia pur minimo orientamento. L’esodo non è verso la salvezza, ma verso l’ignoto più assoluto. La struttura stessa della triade, con tutti i possibili riferimenti alla trinità biblica, all’universo dantesco o alla filosofia hegeliana, sembra andare in frantumi e polverizzarsi. Molta letteratura contemporanea avverte con sempre maggiore consapevolezza che le recenti mutazioni intervenute nella natura e nei comportamenti dell’uomo hanno introdotto, nella nostra storia e nel nostro quotidiano, elementi di rottura così dirompenti da sfuggire ad ogni controllo e tali da impedire un rapporto fisiologico con il nostro passato. Da questa rottura consegue una inedita sottrazione di conoscenza, un oscuramento di qualsiasi razionale o emozionale comprensione del presente e l’impossibilità di progettare e perfino di intuire il futuro. L’esodo dell’uomo contemporaneo sembra dirigersi, secondo la parola poetica di De Signoribus, verso un anonimo “luogo senza contorni, come se un enorme scasso / di terra avesse ogni cosa rimosso e spianato”. Ma la geniale intuizione del poeta sta nell’aver reso protagonista di questa terribile diaspora non un popolo o una comunità, ma solo un inerme, stanco viandante che porta però in sé “il bambino che è, che sente dentro sé / il piombo della mortificazione”. Ed ecco come questo viandante ci viene presentato nell’eponima poesia: Il viandante il viandante delle interne strade arriva a notte fonda ad una tenda in fondo a una ruvida linguetta… oltre, s’inciuffa un precipizio, da un lato s’apre una fitta selva e dall’altro s’accampa una valletta (nella sua mappa, lì è segnato un punto con nodi e corde, abitato cioè da sorde bande che ti lasciano un passo senza posa e ti scortano sulla via ritrosa…) egli è stanco e gli occhi si stropiccia e con timore smiccia alla fessura e intravede nel grembo una figura e un’altra figura e una ancora distese sull’unico mantile… egli si siede, schiena sul cortile, appiccia il suo viso sulla schiusa e come tagliato da una scure osserva il sonno altrui febbrile Siamo ancora nella prima grande parte di questo libro-viaggio, nell’Evo paterno. Ma il viandante è destinato all’oltre, oltre la fine, oltre il dopo. E la seconda parte del libro infatti - Cruna filiale - ha per sottotitolo proprio quella indicazione - oltre il dopo - che, pur richiamando simultaneamente i concetti di spazio – oltre - e di tempo - dopo - in effetti li espunge entrambi. Siamo ormai nel regno dell’assoluto dolore. Una sorta di laica via crucis, segnata anch’essa da 14 stazioni, scandisce questa sezione del libro e alla tredicesima sosta, quella che dovrebbe richiamare la deposizione dalla croce, si leggono tre versi di nuda, infinita desolazione: XIII Il dolore è più vasto della neve che è sopra ogni cosa e che poi si corrompe e s’annera. Ma il dolore resta sopra ogni cosa. Regna. Eppure, proprio da questo regno di primordiale dolore, improvvisi, quasi scanzonati, “con le mani in tasca”, si muovono bambini “solidali nel ripartire”. È una ripartenza verso l’utopia. Trinità dell’esodo infatti si chiude con questi versi: ecco, utopia, nel quotidiano stento il tuo volto nell’oltre mi traduce in quel corso ogni vero ritraluce prima del chiaro o prima che sia spento
Id: 1063 Data: 02/05/2014 16:09:56
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- Letteratura
Nota al commento di Linguaglossa a De Signoribus
Una nota ai commenti di Luca Lenzini e Giorgio Linguaglossa su Eugenio De Signoribus apparsi su Poesia 2.0 Luca Lenzini, analizzando un passo di Trinità dell’esodo di Eugenio De Signoribus, fa una semplice, oggettiva costatazione: «Il registro non è lirico bensì gnomico». Giorgio Linguaglossa replica con una domanda illattiva: «forse che il registro gnomico è di per sé superiore al registro lirico?». Il quesito appare fuori contesto, cioè fuori dall’analisi del testo poetico preso in esame e tuttavia, volendo rispondere, si potrebbe dire, contrariamente alle sottintese aspettative del critico, che sì, il registro gnomico può aprire orizzonti, se non superiori, certo più vasti soprattutto se si riuscisse, come accade solo in rarissimi casi, nei veri capolavori, - negli ultimi due secoli di letteratura italiana non saprei indicare molti altri esempi oltre La Ginestra di Leopardi -, a far convivere, in sintesi suprema, il registro gnomico e quello lirico, filosofia, politica e idillio. Ma non è questo il punto. Qui la domanda sembra fatta solo per allontanare l’attenzione del lettore dai versi, che pure vengono citati, di De Signoribus, accusati di «enfasi», di «retorica ben guidata e orchestrata», incapaci di «dissimulare il velame clericale», di «fare pressione sul lettore» e, addirittura, di «ottundere la sua resistenza critica e soggiogarlo». Le accuse non vengono però sufficientemente provate. Si commette invece un falso palese. Si trasforma un periodo ipotetico «Se una parola di verità concede la grazia di resistere…» in una affermazione perentoria, «spicciola e frontale»: «una parola di verità concede la grazia di resistere». Infine si attribuisce allo stesso poeta, forzando arbitrariamente il testo, quella che è stata fatta diventare, nell’incontrollato crescendo polemico, non più «una» ma«la parola di verità» che «ovviamente…è ilpoeta a pronunciare[la]». Eppure, nonostante queste forzature e mistificazioni, l’intento di Linguaglossa è assai nobile e condivisibile. Si tratta di ricucire lo strappo «di una aperta lacerazione del patto di libertà e criticità che lega l’autore al lettoredi un’opera di letteratura». Solo che qui, ammesso per assurdo che un autore, nella solitudine della sua scrittura, abbia mai il potere di ottundere l’intelligenza altrui e di vanificarne l’eventuale spirito critico - assurdità intellettuale alla quale Linguaglossa sembra sorprendentemente autoesporsi - non vi è stata alcuna rottura dei nobilissimi, inviolabili patti non scritti tra autore e lettore. Devo dire che, se può valere una esperienza personale, dopo aver letto e riletto Trinità dell’esodo (come pure tutta l’opera precedente del poeta di Cupra Marittima), le mie capacità critiche non hanno subito danni, la mia laicità è rimasta intatta ed anzi si è rafforzata. Le«superbe fole» dello spiritualismo teologico, o per dirla con Linguaglossa, del «truismo ecclesiale», rimangono tali, destinate cioè ad estinguersi per autoconsunzione. Perché allora tanta vis polemica contro di loro fino a combatterle, assestando colpi alla cieca, anche là dove esse sono già morte? Perché non vedere nel bambino-viandante immaginato da De Signoribus una futura umanità, tutta umana, una giovane materia pensante? «Camminano liberati / sulla cresta dei colli e osservano l’intorno, il di là». I versi aprono a un nuovo futuro, ignoto allo stesso poeta. Non dovrebbe la critica aiutare a percorrere un nuovo cammino liberandoci e liberandosi, essa sì, dalla pedagogia dei sermoni e dalle invettive? Paolo Ottaviani
Id: 902 Data: 24/10/2013 11:51:36
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- Letteratura
La montagna, gli dei e la poesia
LA MONTAGNA, GLI DEI E LA POESIA Talvolta, andando per monti, accade che il sentiero, prima così ben tracciato e sicuro, si faccia a poco a poco più stretto ed incerto, poi a malapena accennato, sempre più nascosto tra piccoli anfratti e dirupi, e infine scompaia completamente in una indifferenziata radura d’erba rasa dal vento e sassi rosi dai ghiacci. Allora, per chi sale o per chi scende, alla fatica delle membra si aggiunge un sottile turbamento dell’animo che quasi non si osa confessare neppure a se stessi. Quale la giusta direzione? Si guarda in alto, in basso, a destra, a manca. La montagna è sempre là. Serena, impassibile, sfuggente come una dea. Guarda e non parla. Forse però suggerisce… Continuando a destra si incontrerà un abbeveratoio, ma di là il sentiero diverrebbe ben più duro e scosceso…a sinistra c’è solo un impervio cammino tra interminate rocce…Dove, allora? Dubbi, congetture, fantasie, ricordi si accavallano e si confondono nella mente. Ma poi, riportato a terra lo sguardo, si decide quasi inconsapevolmente di continuare a camminare senza una direzione precisa, confidando in non si sa bene che cosa, avvolti nella più acuta incertezza. E si cammina. Inquieti, ma si cammina. Finché d’improvviso, con grande sollievo del cuore, lo sguardo non s’imbatte su un sasso inconsueto, che appare là dove non sarebbe stato possibile non vederlo, marcato com’è da una grossa riga di vernice rossa. È un segno inequivocabile: siamo sulla giusta direzione. Qualcuno qui è passato prima di noi e ha pensato a noi. Avevamo fatto bene a fidarci dell’istinto e della sorte. La montagna è buona se si lascia risuonare nella mente la sua voce silenziosa. Anche la fatica ora allenta la sua morsa e camminare sui monti torna ad essere quel che è sempre stato: un tributo agli dei che abitano quei luoghi. Leggere o scrivere poesia è un po’ come andare per monti. Talvolta si ha la sensazione di essersi perduti. In quei frangenti, vengono in soccorso brevi citazioni, solitamente poste in evidenza all’inizio del libro o di una sua sezione, o anche solo in capo a una singola poesia. “Segni incisi su e per” - le epigrafi -, così come i vistosi sassi della montagna, sono in grado di indicare una direzione e, in alcuni casi, persino un intero orizzonte. Lasciati da chi, come accade in montagna, aveva temuto d’essersi smarrito, stanno lì a ricordare che è sempre bene lasciar risuonare la voce ineffabile ed eterna della poesia. Anche nei versi dei poeti infatti possono nascondersi gli dei.
Id: 598 Data: 13/07/2012 09:53:04
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- Letteratura
’Brevi parole ancora’ di Ilde Trona Arcelli
Porto San Giorgio, Hotel Garden, 31 marzo 2012 Presentazione dei quaderni dell’Associazione Culturale “La Luna” PASSAGGI 2011 Direttore letterario Eugenio De Signoribus Direttore artistico Sandro Pazzi Poeti e Artisti Giorgio Luzzi - Mauro Cappelletti Enrico De Lea - Antonio Del Gatto Jacopo Masi - Rachele Biaggi Ilde Arcelli - David Giovannini Interventi Enrico Capodoglio - Critico letterario Bruno Ceci - Critico d’arte Marina Venieri – moderatrice Esposizione di alcune opere degli artisti PRESENTAZIONE DEL QUADERNO POSTUMO di ILDE ARCELLI BREVI PAROLE ANCORA di Paolo Ottaviani AI MIEI FIGLI Non morirò del tutto se in voi vivrà pietà per le piaghe roventi dei poveri scordati, se userete il freddo ambrato dell'ironia, se vi accompagnerà la forza dolorosa d'esser voi stessi contro emozioni astratte e cerebrali. Una parte di me, tra finzioni ardite droga di suoni e antidoti sbagliati, frugherà sorniona nel ciarpame del mondo con le vostre mani, libere e scomode, per isolare la pietra bella della verità. (2000) Ho voluto iniziare la presentazione di questo quaderno postumo di Ilde Arcelli - Brevi parole ancora - con la lettura della poesia che chiude la raccolta perché credo fermamente che le vibranti parole che in essa si leggono siano fortemente rappresentative di molte delle tematiche, dei problemi, degli interrogativi che assillavano l’animo della poetessa e delle risposte o dei tentativi di risposta, spesso assai originali, che lei stessa proponeva. Chi pratica la poesia, sia attraverso la sua lettura sia ricercandola nella scrittura, sa perfettamente che si può rimanere irretiti da quella “droga di suoni”, da quelle “finzioni ardite” e da quegli “antidoti sbagliati”, per usare le stesse graffianti metafore presenti nella lirica d’apertura, di cui la stessa poesia talvolta si nutre. Ma la ricerca poetica di Ilde Arcelli non si è mai fermata sulla bellezza, sull’ornamento della parola: ha voluto invece frugare - e uso ancora le sue parole - “sorniona nel ciarpame del modo”. Il prefatore della prima raccolta pubblicata da Ilde Arcelli nel lontano 1983 - quella raccolta andava sotto l’emblematico titolo di Perplessità - aveva già colto questa sua tensione morale che viene molto prima e che anzi fonda la ricerca estetica della parola bella e aveva parlato, a proposito di questa poetica, di “brividi che attraversano l’anima per il dolore del mondo”. E in questo quaderno postumo, quasi disegnando un arco ideale di coerenza con quel tanto di buono e di bello che può essere espresso dalla poesia, Ilde Arcelli ci ricorda che la lotta per arginare il male ha bisogno di mani “libere e scomode”. Per queste ragioni credo che la poesia dedicata ai propri figli, pur partendo da un nucleo di affetti intimo, privato, familiare, si trasformi invece in una sorta di testamento spirituale offerto a tutti. E, certo, la ricerca inesausta della “pietra bella della verità” resta l’eredità più preziosa di questo poetare. Ma prima di entrare brevemente dentro la casa poetica di Ilde Arcelli io desidero, credo anche a nome degli amici che mi hanno accompagnato in questo viaggio, ringraziare l’Associazione culturale “La Luna” che così generosamente ci ospita e vorrei anche esprimere un mio sentimento di gratitudine del tutto speciale a Eugenio De Signoribus che è stato molto più che il “Direttore Editoriale” di questo quaderno: ne è stato l’amorevole ispiratore e il sapiente consigliere nella difficile scelta dei testi, e vorrei ancora ringraziare pubblicamente il dr. Mario Arcelli, il marito della poetessa, che non solo mi ha concesso il permesso, con tanta signorile benevolenza, di accedere al materiale inedito della consorte ma è stato un aiuto sicuro nel mio lavoro di archiviazione e in quello, ancor più difficile, di datazione delle varie poesie. La mia gratitudine è davvero grande perché attraverso questo lavoro di curatela ho potuto conoscere quegli aspetti intimi, in qualche modo segreti, del fare poesia, di quel colloquio, talvolta persino di quella lotta che si accende tra il poeta e la propria opera, e di cui resta traccia nelle carte autografe o dattiloscritte: segni, interpunzioni, note a margine che continuano a testimoniare l’assillo continuo di un’anima in perenne tensione, con quella concentrazione quasi ossessiva sulla parola che forse distingue il poeta vero da un poeta possibile. E ho scoperto così come la passione di Ilde Arcelli per il poetare avesse radici lontanissime nella sua gioventù, radici che aveva tenuto nascoste, vorrei dire pudicamente nascoste, se è vero che la sua prima raccolta sarà pubblicata in piena maturità, a 48 anni, e come al centro di questa passione ci fosse un amore incondizionato per quel paesaggio umbro, così mite e schivo, eppure così intimamente gioioso. I fantasmi numinosi che animano i luoghi sono penetrati anche dentro i versi della sua poesia. Credo che Ilde Arcelli non abbia dimenticato mai nello scrivere i suoi versi che la sua terra, la terra di Francesco e di Jacopone, è anche la terra che ha dato i natali alla lingua e alla poesia italiana, - in Umbria lingua e poesia nascono insieme, un miracolo da non dimenticare mai! - ancor prima di quella che poi sarebbe stata la rivoluzione dantesca. E allora non può essere solo un caso che questo quaderno si apra con una poesia giovanile, ovviamente inedita come tutte le altre, - quando la scrisse, nel 1954, la poetessa aveva appena 19 anni – che è un tenerissimo canto d’amore per la terra natia. Un amore che certo cambierà forma e sostanza nel corso del tempo attraverso una sempre più acuta, dolorosa consapevolezza del male insito nella natura e forse nello stesso paesaggio. Quella terra che dispensava gioia a un animo fanciullo diventerà infatti “la terra muta” della maturità umana e artistica. Leggerò due poesie che testimoniano di questa trasformazione: UMBRIA E' bello ascoltare al mattino il tuo cuore - umido di verde nella bruma chiara della prima vita: e quando il tuo canto non è più il silenzio ti lascio. A sera ritorno - fedele a prenderti l'ultimo raggio. Parliamo - non senti? Son poche parole fanciulle - mi scavano dentro la gioia. E' scuro - non vedi? Riposa (1954) E dopo oltre un trentennio: LA TERRA MUTA All'ombra delle croci posano i merli, il becco giallo schiocca sulla larva intravista sull'erba poi se ne vanno col vento della sera che più densa rende l'attesa. Tenuti dalla terra, v'amò un tempo la vita, ma non si muta il corso delle umane cose né per noi s'apre il cielo alla domanda che certezze chiede. E voi tacete. Un silenzio di lumi e di cipressi fascia stasera la malinconia mentre l'anima impigliata al becco giallo va raminga tra gli uomini implorando: lei solo conosce la dolcezza terribile d'esser viva sulla sua terra muta. (1985) La “dolcezza terribile d’esser viva”. E’ l’anima della poetessa che sperimenta questa ambigua, ineffabile emozione. Ed è qui, credo, che si innesta l’altro tema che ritroviamo costante nella poesia di Ilde Arcelli, quello di una dubitativa, enigmatica trascendenza. Questo quaderno, seppur in modo estremamente sintetico, documenta tuttavia un percorso intellettuale di ben cinque decenni, quelli della seconda metà del Novecento. In questo arco di tempo anche il rapporto della poetessa con il trascendente e con l’assoluto si trasforma radicalmente passando dall’anelito a un “fuoco finale” di purificazione, alla “certezza d’un Dio” fino all’interrogazione sul “nulla del pensiero”. E voglio ricordare come Luciano Erba aveva sottolineato nella sua nota introduttiva all’ultima raccolta dell’Arcelli come il suo poetare si muovesse costantemente “nei territori di caccia dell’assoluto”, una ricerca che certo ha raggiunto un equilibrio artistico molto alto: lo aveva già testimoniato quell’esclamazione di Mario Luzi in una sua lettera all’Arcelli: “Ma che animazione, che levità e intensità di movimenti all’interno, che bella e toccante, vibrante oscillazione tra pensiero pensato e pensiero vissuto…”. E lo provano ancora le tre poesie che seguono: PURIFICAZIONE Esuli andiamo vestiti di giada per tacite strade col cuore ferito dai mille perché: c'è un'eterna ricerca che guida, un'infinita pace che chiama, uno scarno fiato che porta come paglia lieve al fuoco finale della purificazione. Di noi lì rimarrà soltanto la viltà o il coraggio. (1984) IL GUERRIERO Il muro del futuro per me cela un guerriero che non teme d'andare: in ostaggio porta la certezza d'un Dio che dall'eterno ama ogni suo ciottolo perduto nel vuoto inconoscibile. Verrà l'istante di varcare il muro e finalmente sarà per lui il primo giorno vero, puro di libertà sempre cercata. Conquisterà il suo nido caldo di silenzi fatto e vergine d'impronta. (1985) POETI Forzare il mistero delle fuggenti cose fermi come fiamma fioca in notte senza vento, certi della paziente cera e farsi impercettibile faro di ricerca per dare occhi all'uomo d'ogni tempo: è questo forse presumere di sé? Brevi parole ancora e poi un silenzio siderale violenterà beffardo queste quiete voci vaganti nel buio dell'eterno, da sempre destinate a rinascere dalle ceneri loro. Oppure è preferibile il nulla del pensiero succhiato delle fredde stelle del duemila? Ora alti sui deserti stiamo tra fulgori e dirupi solitari, aquile erranti dal destino segnato. (1985) Un’ultima notazione, e non certo per ordine di importanza. Impreziosisce questo quaderno la splendida opera d’arte “Per le antiche strade” di David Giovannini, di cui ha già finemente parlato il critico d’arte Bruno Ceci. Io posso solo aggiungere che Ilde Arcelli amava quei vicoli bui e quelle antiche atmosfere. Si realizza così, un po’ inconsapevole, un po’ voluto dal destino, un felice connubio tra arti diverse ma in qualche modo sorelle. Città vecchia può essere anche letta come l’omaggio poetico di Ilde Arcelli all’arte grafica di David Giovannini: CITTA' VECCHIA Suono di organetto vestito a festa - in un vicolo breve: la voce più lieta della miseria. Lampade scarse e panni bagnati aspettano il sole - ho sentito l'odore del muschio e l'ombra e l'anonima voce e il riso dell'amore mercenario: un uscio s’è aperto - opaco occhio su pietre di pianto. (1963)
Id: 589 Data: 20/06/2012 14:57:13
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- Letteratura
Le arance e le iene non si curano dellamore
Le arance e le iene non si curano dell’amore Riflettendo su “Affari di cuore” di Paolo Ruffilli di Paolo Ottaviani Soffio È in quel remoto soffio dentro al cuore che ognuno riconosce il suo destino. Il sogno più proibito: l’idea di un infinito perfino quotidiano, lasciato in sorte al corpo dell’amore. Arreso e imprigionato per conservare intatto il tuo sapore, sottratto al vuoto tenuto tra le cosce a lungo, invano, come l’acqua che scivola comunque dalla mano. Incastonati nella parte centrale dell’ultima raccolta poetica di Paolo Ruffilli - Affari di cuore, edita da Einaudi nell’agosto del 2011, i versi sopra trascritti, forse proprio in virtù della loro sospensione tra una densa fisicità carnale – il corpo dell’amore, il sapore dell’amante trattenuto nelle cosce – e quella sorta di volatile leggerezza metafisica – il soffio dentro al cuore, il sogno più proibito, l’idea di un infinito perfino quotidiano - credo siano fortemente rappresentativi dell’intero volume e forse, più in generale, della peculiare modalità con la quale Ruffilli si confronta con il grande tema dell’amore. A questo argomento in effetti il poeta reatino non è nuovo. Già nel 1987 in Piccola colazione il capitoletto dal titolo Per amore o per forza si misurava con queste tematiche e già allora Giuseppe Pontiggia aveva notato come, non solo sul piano della costruzione formale ma anche su quello più propriamente semantico, venivano infranti tutti gli schemi del perbenismo benpensante, tanto che quei “dialoghetti che interrompono, con inserzioni di iperrealismo, la convenzione degli sfondi piccolo-borghesi ricompongono, più che lacerare, quel tessuto di menzogne con cui la sincerità cerca di esprimersi” e metteva in rilievo come, sul piano più specificamente metrico e stilistico, Ruffili, fosse ricorso a “metri tra Metastasio e Gozzano, ad ariette di una musicalità incalzante e insieme dimessa”. La caratteristica del verso contratto infatti è emblematica di questo autore.. Le parole isolate, immaginate quasi come reali oggetti vaganti che suonano e poi risuonano negli echi che si accavallano e s’intrecciano in una sorta di rimbalzo musicale e semantico testimoniano di un conflitto a un tempo personale, intimo e insieme universale. Un cultore appassionato della metrica italiana come Luciano Nanni ha notato che i versi di Affari cuore “non danno l’idea di essere regolati, essendo talora spezzati in arditi enjambement e seguono un flusso che, se non versificato, apparirebbe quasi prosastico…ci sono non di rado metri precisi, come il quinario…o i senari…ma è chiaro che Ruffilli predilige il verso breve, non tanto per distillare le frasi, come gli ermetici, quanto per conferire “dignità” poetica a parole tutt’altro che difficili” o ricercate. Del resto è lo stesso narratore-poeta ad affermare l’impossibilità di una distinzione netta tra prosa e poesia proprio quando, riferendosi, se pur in modo traslato, alle “forme chiuse” sostiene che l’essere obbligati in “un corpo a corpo” con le regole “ti consente di produrre soluzioni altrimenti inarrivabili. È proprio misurandoti con la legge – dice Ruffilli - che riesci a trasgredirla nel senso più significativo, dal punto di vista della creatività”. E forse non è un caso che ciò che si afferma sul piano stilistico-formale poi si concretizzi sul piano semantico di questo poemetto d’amore. E’ ancora lo stesso poeta che, in una bella intervista radiofonica condotta da Ennio Cavalli, ci indica l’archetipo nascosto che lo ha guidato lungo tutta la stesura del poemetto e questo insuperato modello ispiratore è il biblico Cantico dei Cantici. Proprio quel testo cultuale dove, in tutte le molteplici gradazioni dei sentimenti e della passione umana, dalla più gioiosa tenerezza fino alla più tenebrosa sofferenza, viene sancita quella sacralità della carne che Ruffilli rivendica per la sua poesia d’amore. Una vicinanza a quel particolare misticismo che non umilia ma esalta il corpo. I versi che seguono, letti sotto questa luce, ne sono vivida testimonianza: Tra le tue braccia Non è, no, per me il piacere né la solitudine o l’amore in quel momento a spingermi allo spasmo estremo tra le tue braccia avvolto e stretto dalle cosce ma, contorcendo e nell’intreccio impietrendo intanto il moto ad arginarne il vuoto - di tutto il resto non so più che farne - la furiosa voglia di annegare in te e di essere sepolto dalla carne. Certo, Ruffilli aveva evocato il Cantico dei Canti, là dove è fortemente presente anche una commossa partecipazione della natura, degli animali, delle piante e dei fiori, alle gioie e alle sofferenze dell’amore umano: “Io sono un narciso della pianura di Saron, un giglio delle valli”, dice l’innamorata, e per lui gli occhi dell’amata “sono colombe” e i suoi seni “due cerbiatti gemelli di una gazzella, che pascolano tra i gigli”. Narcisi, gigli, colombe, cerbiatti, gazzelle, in quel testo e in quel contesto, non sono orpelli letterari, artifici retorici. Tutt’altro. Testimoniano invece una compenetrata coralità di sentimenti umani e natura. Tutto vibra dentro lo stesso respiro. Ed è forse proprio l’assenza dell’alito degli alberi, degli animali e dei paesaggi che colpisce del libro di Ruffilli. Ed è un tratto mancante che pesa. È vero, nel suo poemeto d’amore incontriamo arance, pesche, albicocche o anche tigri e iene, ma sono scoperte metafore letterarie della dolcezza o della ferocia, della seduzione o della vendetta. La compartecipazione reale della natura alle vicende amorose degli uomini è assente. Forse è solo nell’apertura della lirica Maggio, che, quasi inconsapevole e furtivo, s’ascolta il respiro della primavera che accompagna l’incontro degli amanti: Maggio Maggio mi fa il suo tenero racconto della sera, per riferirlo a lei che lo ha già sentito per suo conto. La guardo che mi guarda immobile a parte il tremito del dito fermato in aria incontro alla mia mano che non ha respinto. Che importa, vorrei dirle, se non ci conosciamo e non saremmo estranei neppure per l’amore. Solo a toccarci e a stringerci abbracciati sapremmo tutto delle nostre storie, del vuoto che ha lasciato qualcun altro e del bisogno di chiudere comunque la ferita riconsegnando al tatto tutta la sorpresa della vita. “Maggio mi fa il suo tenero racconto della sera”. La natura, se pur timidamente, s’affaccia oltre il rapido intercalare dei versi. Ma il poeta la ignora.
Id: 503 Data: 02/03/2012 18:39:51
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- Letteratura
IL SORRISO DI ILDE ARCELLI “NELL’INCANTO SEGRETO”
IL SORRISO DI ILDE ARCELLI “NELL’INCANTO SEGRETO” DELLA SUA POESIA di Paolo Ottaviani Nella verde quiete d’un bosco o tra chi ha molto sofferto e amato nella solitudine del deserto e dei ghiacci forse mi troverai ma sempre vedrai il mio sorriso nell’incanto segreto della poesia. Questi splendidi versi non sono stampati in nessun libro: essi costituiscono il retro di una piccola foto-ricordo della poetessa Ilde Trona Arcelli, scomparsa il 19 giugno 2011. Il dott. Mario Arcelli narra che è stata la stessa consorte ad indicargli sia la foto che la poesia da utilizzare per questo estremo, devoto ed affettuoso ufficio ed invita coloro che posseggono il ricordino a inserirlo tra le pagine dell’ultima raccolta poetica dell’Arcelli - Meno male -, pubblicato da Guerra Edizioni nel maggio 2010. Un ex libris postumo destinato quindi ad assumere un eccezionale significato e l’alto valore di testamento spirituale, ideale sigillo non solo di un libro ma di un’intera vicenda umana e poetica. Dietro l’apparente dimessa colloquialità dell’espressione “meno male” si cela invece, come suggerisce anche Luciano Erba nella sua nota introduttiva, la possibilità metafisica “di dischiudere un varco”, “la percezione di un barlume di salvezza”, l’intuizione di un possibile “via d’uscita…come si conviene nei territori di caccia dell’assoluto”. Ma ritorniamo per un attimo ai versi iniziali: Ilde ci dice che possiamo ritrovare la sua più pura spiritualità tra chi ha molto sofferto e amato. Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di conoscere la poetessa, di frequentare la sua casa gioiosa ed ospitale, di entrare nell’intimità generosa della sua amicizia, sa del suo lunghissimo - troppo lungo e troppo doloroso! - rapporto con la sofferenza, con le molteplici malattie, con gli innumerevoli interventi chirurgici che avevano devastato il suo corpo. Questi versi, lucidi e sobri, ne sono una lancinante testimonianza: Torace aperto cucito il cuore cancro di qua cancro di là via le safene segato l’osso nuova la gamba con il titanio… (comprende dunque caro Dottore che non di sogni qui si ragiona ma d’un reale film dell’orrore toccato a chi adesso le parla seduta storta sulla poltrona…) Eppure Ilde nel suo estremo, poetico saluto ci invita a cercarla tra chi molto ha sofferto e amato. Il suo sguardo non si è ripiegato sulla sua sofferenza né da essa è stato vinto. Infatti tutta la I Sezione di Meno male, che va sotto il titolo di - L’assenza -, si popola di personaggi ai margini della società, di reietti, di quelli che la stessa Arcelli definisce “quasi esseri umani”, “poveri cristi senza redenzione”. Ed ecco allora apparire “le badanti polacche in libera uscita” che di domenica mattina “cantano struggenti cori nel giardino / sotto casa” e quella piccola area verde diventa un luogo “sacro” proprio perché lì si celebra una “mancanza” e una “nostalgia”; ed ecco ancora il “barbone” avvolto nel suo cartone, il “drogato con l’ago / ancora infilato”, la “schiava di strada”, i “piccolini” Tommy e Maria “uccisi a bòtte”, il fruttivendolo suicida visto “come fratello della / pietra che abortiva frutti oscuri”, il “vecchio matto” che dopo aver subìto l’elettroshock, finalmente libero, “vuole scoprire la città” ma lo aspetta solo una panchina deserta e il suo sguardo continua, come sempre, come per tutti noi, a perdersi nel vuoto; ed ecco infine il ricordo dell’amica Teresa dal cuore generoso ma “non esibito / sempre attento a chi non ha voce”. L’antico poeta cinese Li Po, detto L’Immortale, ha scritto che “i poeti, al contrario di tutti gli altri, sono fedeli agli uomini nella disgrazia e non si occupano più di loro quando tutto gli va bene”. Non so se questa affermazione è vera per tutti i poeti, so per certo però che, almeno nella sua prima parte - fedeli agli uomini nella disgrazia - è stata vera per Ilde Acelli. La II Sezione del libro ha un titolo lungo - Non c’è bisogno di scomodare Freud - e sembrerebbe segnata da un ripiegamento solipsistico, da un’analisi meticolosa della storia personale. In realtà, anche attraverso l’introspezione, la poetessa, lontana da ogni facile suggestione psicanalitica, riesce, in virtù della sua arte poetica, a far ritornare in vita tutto quel mondo della civiltà contadina, povero, crudele e gioioso, che è stato l’humus della sua infanzia e sul quale la sua personalità è cresciuta e maturata. Di qui, da questa sapienza e maturità artistica discende anche il felice rigore delle scelte linguistiche, ivi compreso l’uso del dialetto, di cui danno una bella testimonianza questi versi: ultima nata della grande famiglia, riunita d’estate nella casa antica in campagna tra cugini cavalli zie e garzoni, era gracile per la sua età: le contadine scuotendo la testa alla madre dicevano “sora Virgì, tista è fija de na vacca vecchia pare na frusta, cussì lunga e fina, tocca aiutalla, pora cocca, deteje n’ovo al giorno appena fatto, caldo caldo m’arcomando…” e lei scappava via inseguita da quel giallo occhio appiccicoso ancora così pieno di gallina… La III Sezione - A passo d’uomo - celebra una sorta di pietosa umanizzazione del cosmo. La poesia qui sa ascoltare la natura. La poesia qui sa di essere essa stessa natura: Tutto parla Si sovrappone allora materia alla materia viva, rocce che parlano adesso oscuramente con cunicoli canyon fossili ovunque, con i graffiti umani sopra i sassi, memoria che insegue se stessa nel tempo: così tutto parla e s’ascolta, tutto, nel folto d’ogni foresta ………………………. Nel carteggio epistolare tra Giorgio Caproni e Carlo Betocchi, pubblicato in - “Una poesia indimenticabile”-. Lettere 1936-1986 -, a un certo punto si legge: “…Meno male che il portinaio del cielo ci aspetta e ci riconoscerà per fratelli…” Questa citazione è riportata in apertura della IV Sezione - Scelus -. Ecco allora confermata l’intuizione iniziale. Qui, ormai prossimi alla fine del libro, Ilde Arcelli sembra quasi prenderci per mano e indicarci il senso più recondito di quel titolo così apparentemente ordinario e dimesso: Meno male. E non può essere un caso che sia proprio questa la Sezione che più direttamente e con più asprezza si confronta con il male e con il dolore. Qui anche il familiare, amato vento della tramontana perugina “porta il gelido nulla dritto / negli occhi alzati verso / lo specchio del cielo” e “falcia l’anima come / l’osceno pensiero di una guerra” ed “(è senza labbra e mai / porta semi buoni con sé)”. Eppure anche qui “davanti alla triste demenza / del male” troviamo qualcuno che tenta “col mistero del Dio dell’amore”. E nessuno può dire se è un ciarlatano o un sapiente. “Poeti e Poesia” è il titolo della V ed ultima Sezione. E qui davvero si celebra il trionfo del pensiero poetante e dell’arte: Il pensiero nel suo stesso chiarore si consuma, il pensiero, col fervore della scoperta, svanisce poi torna pieno di lontananze, veloce motore della nostra fragile specie, buca irridente il presente e se vuole può anche farmi scoprire l’oscurità del mio niente pietrificato lungo le stagioni, può salvarmi o uccidermi piano nel suo gorgo suadente con quei bagliori di scarna, lucente verità.
Id: 424 Data: 10/12/2011 11:46:04
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- Letteratura
SULLARGINE CALDO DELLA MISTICA ITALICA
Sull’”argine caldo” della mistica italica La poesia di Angela Chermaddi tra ascetici prodigi, eros e cronaca domestica di Paolo Ottaviani La straordinaria continuità delle immagini legate ai suoni che si susseguono in un’onda di pensiero simultaneamente mossa dentro e fuori il nostro tempo biologico, capace così di travolgere ogni possibile “argine” frapposto tra l’ovvietà del quotidiano, la prevedibilità del “ritmo delle stagioni” e l’inafferrabilità di quella “bianca creatura smarrita” che eternamente “trema dentro”, nel più profondo dell’anima, è stata la prima, fortissima ed incancellabile impressione che ho avuto leggendo la poesia di Angela Chermaddi. La parola “argine”, sebbene appaia assai raramente nel dire poetico di Angela, mi è apparsa subito come una parola chiave, una sorta di schermo eretto sia contro le traboccanti emozioni sia a protezione della parola che preme per venire alla luce dopo il silenzio contemplativo. Questa voce molle e potente (la potenza dell’ar- indissolubilmente coniugata alla mollezza del -gine) appare una prima volta nell’opera d’esordio - Per cominciare il giorno (Frammenti Editrice, 1999) - in questi splendidi versi rivelatori che chiudono la lirica Tu che mi accendi il fuoco da una vita: Tienimi sulla fronte argine caldo la terapia della tua grande mano che non irrompa dai corrosi spiragli - nell’interno sciacquio di mille voci vibra sottesa - la follia una seconda volta nella poesia Rimpiango l’uragano: argini di emozione franati allo stupore del primo fiocco rosso sui tuoi boccoli d’oro presente anch’essa nella prima raccolta, e poi ancora nel Il cammino di Santiago (Ed. Appunti di Viaggio, 2007): scorrono i fatti senza argine e meta divaricate mani il loro grido sospeso tra parola e silenzio Da lì non la ritroveremo più, se non nell’ultima, recentissima raccolta Mi sono persa il mare (LietoColle, 2010). Nel frattempo Chermaddi aveva dato alle stampe I misteri della speranza (LietoColle, 2007), libriccino impreziosito da un commosso saggio introduttivo di Franco Loi, senza che la parola argine venisse mai pronunciata. Riapparirà soltanto nella lirica d’apertura di quest’ultima silloge, acutamente prefata di Janina Jakubowicz-Zecchini che ripercorre l’intero viaggio poetico di Angela nel suo farsi “largo fra sterpaglie di linguaggio quotidiano”: sei per sempre rimasto - gli occhi verdi quasi quarantenne che sorride alle cose ancora perfettibili e alle strade che credevi portassero lontano nelle curve m’hai chiuso delle ciglia vite spanata che non sa fissare un punto fermo - argine del passato In tutte le quattro liriche è esplicito o sotteso il riferimento a un “tu” invocato a sostegno dell’argine stesso per fronteggiare la rottura di ogni possibile razionalità (le vibrazioni sottese di una possibile follia), la gioia stupefatta di una visione improvvisa (lo stupore del primo fiocco rosso), poi lo scorrere dei minimi fatti quotidiani sopra il fiume carsico della gestazione poetica, infine il dilagare devastante e fecondo della memoria (l’argine del passato). Segno evidente che quell’aggérere, quell’accumulare - Si accumula l’assenza è l’ossimorico titolo di un’intera sezione di Per cominciare il giorno - terra sul fianco dei fiumi, quel cercare riparo dall’acqua, pur nel desiderio dell’acqua, quel costruire ostacoli nella consapevolezza della loro ineluttabile rottura, quell’aprirsi e quel chiudersi ad una vastità che un po’ spaventa e un po’ attrae, è un percorso che non si può fare in perfetta solitudine: è invece un cammino che si fonda sulla ricerca e la presenza dell’altro. L’argine è in perenne tensione, nella costante imminenza o di essere travolto o di trasformarsi in ponte. Infatti: Quando gli occhi richiudo s’irradia l’azzurro e dilaga Oppure, quando è l’eros a premere e a travolgere ogni baluardo costruito dall’Über-Ich, allora bellezza, potenza, follia e quell’ineffabile, feconda, femminile violenza (quel terribile e meraviglioso ararti a sangue / che lievita le spighe) si fondono inscindibilmente: Colpirti col mio amore penetrarti il cervello spezzando resistenze violarti del mio affetto e ararti a sangue che lievita le spighe Con la forza che basti a soggiogarti l’anima un fallo vorrei da immergere nelle tue viscere calde e sconosciute sapere le onde della polluzione e seminarti terra feconda Il teologo Morilla Delgado aveva parlato, con assai felice espressione, a proposito di Il cammino di Santiago di una “sonorità evangelica…di una tradizione millenaria che ha le sue radici nell’ethos della mistica italica”. In quell’opera infatti si parlava esplicitamente e forse un po’ ingenuamente di “varco a Dio…ubriaca di musica e colori nella luce”. Comunque già da quella raccolta erano evidenti quelle radici mistiche individuate dal teologo. Uso però qui l’aggettivo mistico nella sua accezione più propriamente etimologica, volendolo spogliare di tutte le sue possibili e mirabolanti suggestioni: myein in greco indica il chiudere, il tacere. E’ dunque dalla rottura dell’argine del silenzio contemplativo che sgorga questa poesia. Eccone un fulgido esempio: quello che vorrei dire non può dirsi se non da silenzio a silenzio come onda leggera di preghiera - eco bianca di canto gregoriano soffuso da grata di clausura per le volte Nella bellissima, appassionata, direi mistica, nell’accezione che ho appena indicato, nota introduttiva a I misteri della speranza Franco Loi, tra altre cose, aveva parlato dell’impossibilità di costruire poesia con la ragione e poi aveva spiegato come la parola poetica si avvalga prioritariamente del suono piuttosto che del significato. Su queste problematiche si potrebbe discutere all’infinito senza mai giungere a conclusioni certe e definitive. Per questo forse è preferibile l’atteggiamento di Alessandro di fronte al nodo di Gordio che in questo caso significa godere della poesia o attraverso la sua diretta creazione o attraverso la sua lettura. Da Mi sono persa il mare possiamo quindi gioire di questi versi: come su un davanzale sdraiata dove incassa il grande oblò metallico sul mare dietro il vetro riflesso sono vana forma che l’essere attraversa si versa acqua nell’acqua mi trascorre onda di un istante che il mio suono scivolo in cupo e risollevo in curva trasparenza a farmi luce provo a morire bianca spuma che nella danza fragile d’un subito scompare eppure sono il mare sorso che si riversa in continuo sbocciare “sorso che si riversa / in continuo sbocciare” versi bellissimi: è l’argine che si fa onda e passaggio nella continuità di una vita sempre nuova. “Da parola a parola, da suono a suono, l’autrice compone frammenti di un mosaico della vita” al ritmo - dice Janina Jakubowicz-Zecchini nella sua introduzione a Mi sono persa il mare, citando Montale e Zanzotto - di un metronomo calibrato sul batticuore. E’ vero. Lo testimoniano questi versi dove il “silenzio che straripa”, in un gioco che sembra fondere insieme architettura e preghiera, la parola poetica comincia a fluire aggirando ostacoli e pietre come una palpitante sorgentella appena nata: rituali ritmiche riflesse geometrie d’aria un raggio che irrompa dal rosone obliquo verso te nel silenzio che straripa a doccia lungo le nervature e saliranno a ogiva le tue mani fino al nodo ove smaniano e le pietre trescano disegni di tenerezza Lo dichiarano infine apertamente questi mistici versi teofanici: era Dio il vento nei capelli tra le foglie Dio a gocce brillava e scompariva occhi pieni di Dio nubi che vanno pulsava d’energia sui polpastrelli e mi fioriva dentro straripando liquefatto inondava il mondo d’oro tutto era vero e chiaro - anch’io ero Dio “Tutto era vero e chiaro”. L’argine tra il silenzio e la parola, tra la ragione e la poesia ormai ha ceduto definitivamente. La natura ora scorre finalmente libera, pulsando vivissima “d’energia sui polpastrelli”.
Id: 321 Data: 25/03/2011 08:56:14
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