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Il disincanto di Cesare Pavese

Argomento: Letteratura

di Ninnj Di Stefano Busà
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Pubblicato il 22/02/2012 08:41:44

IL DISINCANTO DI CESARE PAVESE: tra il vivere e il morire

a cura di Ninnj Di Stefano Busà

Riecheggia come un urlo, da una sottile realtà, quale si era venuta a creare nell'adombrata esistenza di Pavese, la frase del suo romanzo, inquietante, per certi versi, per chi, come gli addetti ai lavori, ricostruiscono la sua storia.
Sono queste le parole conclusive del secondo capitolo del suo ultimo romanzo La luna e i falò che portano alla luce i dettagli del suo percorso, per giungere alla destinazione di tutta la sua disperante ricerca. Riteniamo che la frase breve e concisa volesse significare un punto fermo di tutta la sua sensibilità letteraria e umana. La luna e i falò, che porta alla luce tutto il percorso segreto e lo sviluppo della sua metamorfosi caratteriale, è un libro di grande rilevanza, dà una chiave di svolta del suo pensiero e del suo tormento.
Si è detto tanto di questo scrittore schivo, appartato, quasi "border line" per una sua puntigliosa e solitaria collocazione all'interno di una propensione a vedere nel suo sottofondo contadino, nel suo proprio paese, le radici più profonde e attendibili che, al contrario, può intravedere il cittadino del mondo. Ma non sempre la sua visuale si chiude in un ristretto angolo collinare, vi sono punti alti negli entroterra langaroli, che superano le visuali di un mondo chiuso e circoscritto per reggersi chiari e lucidi sulla scena del mondo. Vi è ad esempio la sua determinazione a credere che l'ipocrisia dei perdenti è troppo facile preda dell'inganno, lo dimostra l'atto di coraggio nel voler prendere atto delle sue paure, delle sue responsabilità, dei suoi limiti: la virtù dei poeti e degli intellettuali è proprio quella di saper andare oltre gli steccati che ne circoscrivono perimetri e latitudini: andare... e volare con la fantasia dove osano le aquile, al di là, molto al di là, delle sfere sensibili del reale sensoriale, verso dimensioni più infinite.
Ogni grande poeta sa che può scandagliare il percepibile, tentando fra nebbie fittissime di diradare ombre, circoscrivere confini, isolare bizzarrie, stravaganze o proteggere schermature, mimetizzarsi, nascondersi o travestirsi, atti che non sono affini alla personalità del Pavese, che manifesta il proprio struggimento e gli assilli attraverso i sottili filamenti emotivo-sentimentali che ne coinvolgeranno stati d'animo e attese, lacerazioni e contraddizioni.
Ma niente è più impenetrabile della struttura psicologica dell'essere umano. Per Pavese il "ritorno" rappresentava quell'ipotetico doversi riattare alle scollature subite, alle lontananze, agli esili, erano determinanti per lui le simbiosi morali e spirituali col suo mondo agreste, con le radici e le viscere della madre terra, con gli affetti domestici.
Vi sono sempre in ogni modo soluzioni senza continuità che lasciano il segno: gli schianti, i naufragi, le connessioni vere o presunte, con le ferite interne dell'animo, difficilmente, si riducono nel tempo, persistono e si fanno stratificazioni più estese, difficilmente rimovibili, cattedrali all'interno di una costruzione apparentemente granitica. Questa condizione la dice lunga sui disagi che hanno caratterizzato e reso il vuoto attorno a uomini ritenuti forti moralmente e intellettualmente.
Pavese avvertì la frattura inevitabile dei suoi soggiorni forzati, delle sue carenze affettivo/ambientali che, nel preciso momento storico, si paravano come "vuoto esistenziale"; ne prende pienamente atto la sua coscienza, ne percepisce l'esclusione dal porto sicuro, della radice terragna da cui non sa privarsi.
Ma si può aggiungere che fattori apparentemente transitori, che non furono i soli a disadattare il meccanismo del suo disagio, vengono ad aggiungersi a questo suo dramma interno all'anima, che non conosce sosta, nidifica e si fa accumulatore dirompente.
La sua naturale scontrosità, l'incapacità dì riprendere i fili interrotti, la deludente, quanto impellente esigenza di un nido proprio, di una famiglia, di un figlio, certezze quasi assolutistiche radicate nella vita affranta di un uomo illustre quale Pavese, pre parato intellettualmente, ma perciò abbondantemente più espo sto al rischio della delusione, vengono mutuando in lui la temi bile morsa della deriva, avendo maturato nel tempo quella introversione, quell'incapacità a rivelare sentimenti e pudori. Pavese ebbe storie con divèise donne, se ne avvertono presenze nei suoi scritti, se ne intuiscono i drammi segreti negli ultimi anni che videro l'americana Constance al suo fianco.
Ma va detto, a scanso di equivoci, che il suo travaglio interiore permanente, disagevole, non venne mai pienamente risolto.
Sul dissidio psicosomatico della sua sensibilizzazione sono stati spesi fiumi d'inchiostro; s'innescano dal lato emotivo/psicologico varie interpretazioni, interferenze, connessioni che fanno riflettere e inibiscono il valore stesso della sua scelta che, motivata o non, rappresenta la definitiva svolta della sua ineludibile pena, la valutazione e visione dell'esistente e di tutto il suo investimento e turbamento d'uomo. Il suo mondo, la sua interiorità sono perennemente dominati da carenze di energia, si parano asfittici agli assalti delle raggranellate certezze, gli apparati della combattività e dell'azione sono friabili, inconsistenti; captano gli strati sotterranei di una palude impietosa che lo stritola.. lo emargina. Del suo mondo interno porta alla luce le complicanze che lo alterano.
Perciò Pavese risente dell'allontanamento dal nido; i falò, le notti di luna lo incalzano, la sicurezza quasi ancestrale del luogo d'origine è materia del suo canto, ma non riesce a sedare appieno i suoi avvilimenti, i suoi dispositivi di sicurezza sono allertati al massimo grado: il più forte e il più difficile nodo da superare è proprio questo disadattamento caratteriale al nuovo che si è venuto a creare del suo habitat personalissimo, del suo entroterra e del suo universo fantastico, dominato dalle consuetudini che si sfaldano e si depauperano, a seguito delle situazioni postbelliche.
Il ritorno è per lui un anelito vitale, un riappropriarsi dell'identità che forse sente vacillare, per ricostruire quel clima, quel dialogo di rapporti umani, dai quali non può transigere. Ma il recupero del tempo perduto ha sempre rappresentato nella vicenda umana una ricostruzione solo frammentaria e frammentata del destino di ognuno: il senso di frustrazione, l'incompiutezza, l'inadattabilità, pesano sull'animo come un macigno, poiché spesso non si riesce a riconnettere tutti i frammenti di una ventura dolorosa, di un distacco, di un addio.
Pavese, siamo convinti, che abbia tentato di armonizzare i due momenti, forse estrapolando dai mali della guerra la lusinga più promettente di un reintegro, di un recupero probabili.
La frattura, la perturbazione dello spaesamento crediamo ne abbiano provocato, però, una lacerazione, una ferita a livello inconscio. Perciò, pure se tenterà una saldatura fra i due momenti, guerra e momentaneo esilio restano fuochi incrociati, squilibri nella sua psiche, grandemente preparata intellettualmente, ma non concreta, non pratica, inconciliabile con la realtà del momento storico. Si accorge che tutto è cambiato e ne soffre, i rapporti umani sono differenti: ritrova l'interlocutore Nuto, ma lo sente distante, lontano. La guerra gli ha stravolto il suo mondo in maniera irreversibile? A questo punto sente di aver perduto la sua identità.
Metafora dì ogni sua incoercibile sensazione dì sconforto resta il simbolo terragno, il langarolo d.o.c. disorganicamente tenta di rioccupare gli spazi perduti, di riannodare distanze, amicizie: gli era stato conferito il Premio Strega, la massima onorificenza letteraria per uno scrittore in Italia. Non gli permise di salvare il differenziale intellettuale dalla sua sfera privata.
Frastornante e smarrito permane il suo rituale scrittorio, il suo discrimine sembra divenire sempre più particolareggiato e ingombrante, il suo (re)inserimento nel tessuto intimo lascia molte abrasioni, escoriazioni; l'americana lo abbandona, l'attraversamento oceanico un sogno tramontato definitivamente, le sue colline irriconoscibili, il mondo agreste inesistente, negletto dalle necessità del campare e dal fabbisogno stento della campagna. I falò non sono più le fiaccole delle feste paesane, fatte di risa e allegria, sono roghi sui quali s'immolano alcuni suoi amici, Santina per esempio e la madre, altri che la guerra ha distrutto.
L'ultimo anello che rappresenta il congiungimento col passato, in lui deve essersi spezzato in modo definitivo: si sente impotente e inadatto, il disagio è notevole, il bilancio è pesante. Muoiono gli ideali, s'infrangono sentimenti e passioni contro il muro dell'indifferenza in uno scempio di rovine causato dall'evento bellico, dallo sfacelo socio/economico che neppure l'armistizio riesce a placare, fuoriescono i fantasmi che domineranno la sua scena finale. Lesilio, le privazioni, gli stenti, i lutti, hanno certamente avuto il sopravvento sullo spirito provato da emarginazioni e silenzi.
Il tema ricorrente di tutta la sua produzione letteraria è inteso a rimuovere i fendenti del suo quotidiano patire, il male nascosto è indicativo di un azzardo che lo estromette sempre più dalla compromissione di coscienza, sembra interrompersi la ricognizione minuziosa delle ragioni plausibili, non distilla le forse residuali ed è la fine.
La volontà cede, il filo conduttore sembra riallacciare solo in qualche sporadica emozione il ricongiungimento al passato: il resto è rovina, miseria spirituale, dramma che conduce ad una distorsione senza pari, ad uno smembramento di valori, ad una solitudine indicibile. In ogni suo romanzo c'è il riferimento a un "ritorno", un ripristino di dialogo, un aggancio a quei valori, a quei significati dei quali Pavese manifestava l'assenza e la sofferenza. Ma auspicare un "ritorno"nel grembo delle proprie radici, non vuol dire ottenerlo. Pavese tenta di ricompattarsi con le sue Langhe, i suoi amici, la casa natia, il suo perimetro diventa sempre più destabilizzante e ambiguo, sfumato e inconsistente, gli appare ostile. Pariteticamente anche il successo ottenuto allo Strega gli diventa accessorio, secondario. Ia riserva di tutte le sue energie è calata, anche "Lavorare stanca" risente le mutate condizioni, lo rivelano sottotono, smarrito, deluso, incapace di riequilibrare le assenze, le esigenze del suo ritmo vitale, il recupero memoriale, la visione oggettuale delle situazioni diviene insostenibile.
Il suo dramma si compie in una solitaria stanza d'albergo, nel centro di una Torino operosa e piena di gente, ma si è già delineato ab origine, nella sua frequente inquietudine, nella sua umiliante inadattabilità al "nuovo" dal quale si sente poco attratto, incapace di assolvere contraddizioni. In un clima di miserie morali e di rimpianto si crogiola e esaurisce il trauma visibile e invisibile della sua personalità, forse fragile, forse frustrata. forse solo svilita dai condizionamenti della guerra.
La componente emotiva ha il suo peso: corrisponde alla nega zione e alla ripugnanza per un'inerzia caratteriale, ma può anche rappresentare ai suoi occhi una forza aggiuntiva, un non volere andare oltre la soglia possibile della sua tormentata esistenza.
Del resto il vuoto più incolmabile non è la morte fisica, ma e la sensazione di essere deritro un vuoto a perdere, trascinati da una frana devastante e non saper dare un senso al vuoto.
Le nostre paure non ci confortano, testimoniano che i nostri limiti sono in balia di forze oscure, le nostre lacerazioni orribili, le nostre fratture insanabili. Il male dell'anima uccide più di frequente di quello del corpo. Il sipario spesso si chiude attraverso un reticolo che apparentemente ci giustifica, ma non ci riscatta. Fa riflettere il senso del pudore che s'istaura fra realtà e sogno, il letale morso della rassegnazione che s'inserisce fra il fatalismo subordinato e la seducente bellezza del cedimento, o quel garbuglio delirante d'inautentico, d'intangibile che si erge a rinunciatario di sé, fra l'inconscio e il rifiuto metampsicotico che s'istaura fra il soggetto e l'oggetto.
Dentro il crollo della realtà privatissima di Pavese, rintracciamo il "male di vivere", più oscuro e tenebroso, gli aculei di un vissuto tormentato, pene ancestrali, mascherate pudicamente da una fede inesistente, quanto meno tiepida e scialbata, vagolante o assente, certezze non gratificanti di un sentire a misura di un laicismo o di un agnosticismo conformato allo stato di ateo che non vuole sbendarsi gli occhi, designare e forgiare la luce dell'oltre, dell'infinito, o dell'Essenza Divina.
Questo e molto di più c'è dietro quel perentorio "sono tornato" del suo immaginario fantastico: un modus d'essere che flirta con la vita, ma non va in sposa con la morte, non può accontentarsi di una fiammata e scappare, deve consegnare il fianco piano piano, farsi credito con lusinghe e promesse, fremere di rabbia e d'impotenza per le occasioni mancate, infine lo schianto! Un fiero, forse più che dignitoso schianto, preferibile allo sfinimento e all'insensato, illogico paraocchi della pietà per se stessi, quale peggior sfilacciamento della dignità umana.
Gli incastri percettivi fra la misura esatta del cambiamento e la cronistoria pavesiana avrebbero potuto salvaguardare il suo utopico mondo antico, ancorato alle colline Langarole, dove l'olezzo delle erbe la fa da padrone, e il vento scuote le cime d'inverno, dove il senso del paese e della radice è sacro. Ma qui alligna la forzatura, (per così dire), in un elemento forte e determinato avrebbe potuto drizzare la barra verso la salvezza: in poche parole avrebbe potuto certamente optare per la vita, ma la sua scelta è determinata dalle difficoltà di percezioni, dai condizionamenti e dalle differenziazioni emotive, che non sanno trovare incastri, alibi, giustificazioni o coinvolgimenti.
Non approfondisce Pavese il problema del -dopo la vita-. In un gioco d'ombre che trastulla la sua sofferenza, egli si lascia inghiottire dalla solitudine, lo smarrimento alligna fra le crepe, sono totali per lui le frane di una generazione che si dibatte fra il bisogno materiale e il discrimine; la diserzione onirica ha il sopravvento in un clima di grande impatto teologico/morale, in assenza di una vera, profonda fede, tenta di eludere quell'interrogativo con un piccolo biglietto vergato all'ultimo momento e lasciato in bella vista: "Non fate troppi pettegolezzi" .. calligrafia piccola, scomposta, irregolare, forse gettata lì, in un attimo prima dell'atto definitivo a indicare un bisogno estremo di allacciarsi a qualche lembo della stirpe umana ossequioso di silenzi, a qualche vaghezza.
Era già fuori dalla tragedia, volava alto nell'iperuranio, alla luce del sole, dove aveva sperato forse per tutta la vita di approdare in una visione più metafisica.
In C. Pavese vi è stata un'assenza ontologico/fideistica che avrebbe costituito l'aspetto più rilevante di quella religiosità che può sopperire alle ipotesi del post-mortem,all'agnosticismo, alle strutture distorte del mondo. La fede rilevatasi scarsa, parziale o assente è nella morale filosofica del Pavese un polo negativo che non gli farà superare l'incompiutezza soggettiva dell'essere, non lo farà approdare a un Fine Ultimo, che ne trascenda la materialità del tutto, riscattando la finitudine mortale, in una spinta catartica che avrebbe potuto salvarlo in extremis. La spinta salvifica non fu attuata né sublimata da un fuoco che fu improbabile attizzare. La materia restò in Lui inerte, la volontà vulnerabile, irrecuperabile alla vita: formulò una scelta e crediamo si sia astenuto dal modificarne il passo successivo, che la sua discrezione di uomo gli aveva imposto.
Il risucchio fu d'obbligo, lo rivelò al dispoglio fisico di tutte le sue risorse, in un'antinomia di fragilità o di forza, non sappiamo. È una domanda che assilla sempre: la morte, salva la vita o è il contrario?
La trasgressione potrebbe essere: accettarsi nella perdita di coscienza, indebitamente lasciarsi vivere: Negarsi definitivamente la vita comporta disavanzi meno ingannevoli, forse, inoppugnabile resta il tentativo di dare un obiettivo transeunte.
Ma da un luogo all'altro la negazione fisica terrena resta a ricordarci gli assilli vessatori, la fragilità, il caos. La vita non fa sconti, lucra sulle diffidenze, sorveglia le inquietudini, presentando un conto salatissimo.
Quando la ragione profonda risiede nella psiche i motivi della rinascita e della continuità possono apparire labili, sbiaditi, inadatti. Fatta salva la vita, è l'anima a dover soccombere?o a volte, viceversa, andando a centrare il disincanto tra il vivere e il morire in modo irreversibile.

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