Come la sedia squarciata in sala d’attesa
rivolta al cielo grigio sbranato da un tuono
attendo, dilaniata, il mio fato.
Il primo strinse le dita
nel tetto di una capanna
a riparar le parole scientifiche
dal diluvio empatico.
La seconda aprì le mani,
mostrandosi inerme
davanti allo scroscio viscerale
d’una pioggia silente.
Lui vide il silenzio di una grotta
prima ancora battente
al ritmo fugace della vita.
E guardò mesto la mia oscurità,
spalle a una parete
che non poteva reggerne
il disperato respiro.
Le sue lacrime le videro solo
quella panchina e il cemento.
Io le sentii sulle spalle, tra narici e capelli,
in mezzo alle mie corde vocali.
Come la sedia squarciata in sala d’attesa
rivolta al cielo grigio sbranato da un tuono
attendo, dilaniata, il fato.
Accarezzo il mio lutto
da una gabbia di carne,
buio avello
d’un gatto di Schrodinger:
è il mio contrappasso.
Inesistente folata di vento
dilania la stanza:
è la poesia, la grande puttana,
che ulula alla mia eclissi di luna.
E l’albero e le formiche
conobbero il mio sale,
sola nel cimitero del ventre.
E lui mi baciò la fronte
e ascoltò i miei occhi.
Il distacco si spezza come
una bianca corda di Wharton.
La sedia squarciata in sala d’attesa
è rivolta al cielo ora grigio, ora assolato,
mentr’io tramo brandelli che ordiscono il fato.
L’acqua esplode in fioriture rosse,
scorre lungo i vetri di finestre lontane,
percorre i boschi e ricolma
impronte di esausti passi.
Chiudo gli occhi in mezzo
a una sconosciuta carezza,
vallata femminea,
e il mio viso è una diga.
Al risveglio ancora lacrime, pesanti
come sangue.
E poi sangue, leggero, come
il volo di un’anima.
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