Pubblicato il 03/06/2020 19:04:36
Visse sulla terra un filosofo che disse che non esiste linguaggio privato. Ovvero, almeno secondo alcune delle interpretazioni più diffuse della sua teoria, che ciò che si dice non esprime gli stati mentali di chi parla, ma è semplicemente un’attuazione di certe pratiche sociali che si eseguono attraverso il linguaggio. Dire che si prova un dolore ad esempio non equivarrebbe all’esprimere una sensazione, ma al partecipare a un gioco in cui le mosse delle pedine siano frasi e parole pronunciate. Chi parlasse da solo sarebbe allora come chi girasse intorno alla scacchiera, muovendo sia i pezzi bianchi che quelli neri, sfidando sé stesso a chi è più abile. E chi tra sé e sé conducesse un lungo monologo per schiarirsi le idee sarebbe una sorta di schizofrenico perché, non esistendo linguaggio privato, non si potrebbe parlare a sé stessi senza almeno sdoppiarsi. Va da sé che secondo questa teoria non esiste coscienza pensante che non sia un’illusione di non essere soli anche quando lo si è e, siccome questa teoria, per quanto arguta, non offre argomenti a riprova del fatto che, anche in solitudine, la gente pensa, parla, e prova sensazioni, porta chi la accetti a credere di non esistere come uno. Chi la accetti dovrebbe cioè, se si attiene ad alcune semplici regole deduttive, ammettere di non esistere affatto oppure di non essere mai solo. Dato che poi è difficile a tutti convincersi di non esistere, se non altro perché, come un altro filosofo disse, già il domandarsi di esistere prova la propria esistenza, è molto più diffusa, tra chi accetta la non esistenza del linguaggio privato, la credenza di non essere mai soli. Fatto degno di riflessione è poi che questo stesso filosofo, quello della non esistenza del linguaggio privato, in altri luoghi della sua produzione intellettuale, sostenne il solipsismo. Ovvero la tesi secondo la quale, dato che non ne è dimostrabile l’esistenza, non esisterebbe la mente degli altri. Secondo l’interpretazione più diffusa di tale inquietante pensiero, saremmo al mondo completamente soli e tutti gli altri a cui attribuiamo una coscienza sarebbero solo dei corpi parlanti privi di mente. Questa tesi, sicuramente più della non esistenza del linguaggio privato, è facilmente supportabile da comuni esperienze quotidiane. Chi mi dice ad esempio che chi risponde alle mie domande non faccia lo stesso di un distributore automatico che in cambio di una moneta mi dà una merendina? Forse dovrei attribuire una coscienza anche a lui? Secondo questo pensiero allora o tutto ha una mente ed una coscienza (ed è questa una tesi che sta prendendo piede) o nessuno ce l’ha. Ma cosa ci dà motivo di attribuire mente e coscienza a qualcosa o a qualcuno? Nessuno naturalmente dubiterebbe del suo essere cosciente. Se dubiti di essere cosciente è già questa una prova che lo sei. D’altra parte risulta impossibile provare a qualcuno di dubitare di qualcosa, ed allora si può anche urlare come dei disperati nel tentativo di provare la propria presenza, ma nessuno, se non per un atto di fede, potrà mai credere nella coscienza d’un altro, e quindi d’avere un compagno di viaggio in questo magma d’enigmi in cui assorti si vive.
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