SILVIA
Tamara era un nome di spezie, ambra
il colore della pelle e il corpo sodo
che non ho avuto mai, così me lo immaginavo
portando a spasso tutti gli spigoli delle mie
vocali ‒ Silvia invece è un nome docile,
pensavo, di quelli che un uomo non si azzarderebbe
a sospirare di piacere, al limite silvestre
di un verde da piantina coltivata dietro una tenda
di cotone liso, chissà come sarebbe, mi dicevo
all'improvviso, avere il nome dell'amica immaginaria
che nei giochi dell'infanzia mi teneva compagnia,
‒ Ronca un volo di immaginazione
che tra le labbra di sicuro avrebbe un punto
di domanda ‒ ma che nome buffo, da dove viene?
Silvia compare poco nelle canzoni e di poesie
ce n'è ingombrante una, che lei alla fine muore giovane,
insomma, tutta un'attesa che sa di primavere e rose
e crinolina e danze di farfalle, anche loro poverine
destinate a scomparire presto.
Io volevo un nome esotico che mi facesse il seno bello
e l'andatura da valchiria, ma mi è capitato in sorte
d'essere due occhi troppi grandi e l'insistente vocazione
al sì con tanto d'eco verso il cielo, due pini sulla via
dello stupore dove mi arrampico con questa mia paura
di cadere intera sull'ultima lettera aperta
come una bocca d'aria piena, prima dello schianto.
Silvia Rosa, da "Tempo di riserva" (Giuliano Ladolfi Editore, 2018)
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